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I corsari forestieri tra Finale e Oneglia: convenienze reciproche

Capitolo III – La guerra di corsa nel Mar Ligure e nell'Alto Tirreno: l'attività dei corsar

IV.4 Il Marchesato del Finale: polo d'attrazione per i corsari forestieri

IV.4.2 I corsari forestieri tra Finale e Oneglia: convenienze reciproche

I corsari patentati da Carlo III potevano, come già si è detto, godere di un altro appoggio nella Riviera di Ponente, vale a dire lo scalo sabaudo di Oneglia che poteva essere utilizzato per un approdo o una sosta temporanea resasi necessaria per effettuare approvvigionamenti, per ripararsi in caso di mare agitato, per una breve tappa in attesa di condurre i legni predati nel Marchesato. Non sempre i corsari “forestieri” guardarono al Finale come un punto di riferimento e, a volte, preferirono optare per lo scalo di Oneglia: ne offre un esempio il napoletano Antonio Manzo, il nome del quale è già comparso nei capitoli precedenti. Il Capitano Manzo si lanciò nella guerra di corsa fin dal momento dell'assedio di Gaeta ricevendo una lettera di marca dal Conte di Martiniz prima e dal Generale Daun in seguito. Si trattava di una concessione evidentemente limitata nel tempo poiché, nel marzo 1709, ottenune una patente da parte del Cardinale Grimani, Viceré di Napoli. Subito dopo aver regolamentato la propria posizione, solcò il mare a bordo di una galeotta «di ragione del Signor Principe di Monteserchio, […] armata con quaranta huomini, quattro canonetti di bronzo» e altre armi «necessarie per andar in corso»: aveva «corseggiato tutta la Sardegna, tutta la Corsica», poi si era spostato verso Viareggio per condursi nel Mar Ligure dove, infine, si era lanciato all'attacco di una feluca genovese che proveniva dalla volta di Francia. Dopo aver ingiustamente spogliato i predati del denaro e di una parte del carico, il Capitano napoletano non sostò a Finale – nonostante avesse condotto i prigionieri in terra proprio a Varigotti – ma si era diretto ad Oneglia: se egli giustificò la scelta con la «la pressa che teneva di continuare il […] corso nella Francia, et d'indi a Barcellona», più probabilmente lo fece per timore delle conseguenze in cui sarebbe incorso a causa del suo male operato904. Non occorse

molto tempo perché – ricevuta la denuncia di patron Andrea Vernazzano905 il quale aveva

dichiarato che il corsaro dopo averlo «legato […] ad un albero, lo batté e maltrattò malamente pretendendo dicesse, che il denaro, che portava in filuca era de francesi» – la Repubblica di Genova diramasse lungo tutte le Riviere un ordine di arresto, mettendo in allerta anche il Capitano delle galere che pattugliavano l'area. Infine, i Collegi incaricarono il Magnifico Centurione di riportare l'accaduto al Marchese Aribert affinché chiedesse al Governatore di Finale la restituzione di quanto sottratto e un giusto castigo per il corsaro906. La Marre

scriveva con toni animati – lamentandosi dei «disconci» operati da quella «sorte di gente» – e cercava di rassicurare l'inviato del suo sovrano sulla sua premura del punire il «pirata napolitano», del quale aveva disposto tempestivamente la detenzione ma, questi, era «passato

era stato acquistato dallo stesso Giuseppe Perrielli per 1.200 lire, migliorando l'offerta presentata dal Capitano Agostino Bochiardo.

903ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 9 agosto 1711. 904ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 25 maggio 1709.

905Si trattava di un patrone di Lerici che, con la sua feluca, stava rientrando a Nizza da Genova: il carico era davvero eterogeneo e comprendeva, tra le tante merci, vino (rosso, bianco e rosolio) e olio.

a respirar migliorar aria di quella […] destinata»907. Antonio Manzo, in effetti, si diresse ad

Oneglia – dove aveva scaricato alcuni degli effetti predati – ma, quando riprese il mare per proseguire il corso, il maltempo lo spinse verso est e, sfortunatamente, toccò le coste del Finale: l'alfiere Gio. Batta Vacca lo condusse in tutta fretta davanti al Governatore e al Capitano di Giustizia perché l'uomo venisse esaminato. Ci vollero diversi mesi ma, infine, ai mercanti genovesi venne restituito una parte del denaro sottratto mentre il resto era stato impiegato dal corsaro napoletano per il mantenimento dei suoi uomini per cui si rendevano necessarie «quattro doppie al giorno»: il Capitano Manzo pregò di essere rilasciato, per non pregiudicare gli interessi del sovrano e del suo armatore, dichiarando di essere disposto a prestare «sigortà» e a risarcire interamente i patroni predati. Nei mesi seguenti, le fonti lasciano intuire che il corsaro napoletano si aggirò ancora nella Riviera di Ponente, dimorando tuttavia ad Oneglia dove il Governatore del luogo – forse più compiacente e meno preoccupato per le irregolarità commesse dal Manzo – non era tenuto ad esporsi tanto quanto aveva fatto La Marre. Quest'ultimo, dal canto suo, non aveva alcun interesse ad attirare il Capitano napoletano nello scalo finalino e, al contrario, era preferibile che ne restasse lontano: secondo quanto espresso nella patente rilasciata dal Cardinale Grimani, Antonio Manzo era ritenuto «franco di pagare alcun quinto» e, pertanto, ogni preda da lui realizzata equivaleva ad un'occasione di profitto in meno per la Camera del Marchesato908.

Il particolare della patente “franca” potrebbe spiegare la ragione che aveva indotto il Capitano di Giustizia e il Governatore del Marchesato a giudicare in maniera così diversa i casi che avevano riguardato i legni genovesi predati dal Capitano Palatino e dal Capitano Ferrando – trattati all'inizio del presente paragrafo – rilasciando i primi e trattenendo i secondi: ciò supponendo che tale franchigia venisse estesa, in generale, ai legni di armamento regio. Infatti, seppur con sfumature diverse, erano tali sia il felucone di Antonio Manzo sia quello di Antonio Palatino909, mentre non lo era quello di Biagio Ferrando: in quest'ultimo

caso, a maggior ragione, l'armamento era per conto del noto finalino Capitano Bochiardo. Non solo un'opportunità di guadagno per la Camera del Marchesato ma anche per un suo abitante: e Agostino Bochiardo non era una persona qualunque bensì colui che, almeno una volta, fu creditore nei confronti della Camera marchionale di una somma considerevole. Una stretta rete di interessi che ben può spiegare la parzialità con cui Giulio Cattaneo e il Governatore La Marre affrontarono i diversi casi di preda marittima.

In altre occasioni il Governatore di Finale si dimostrò ancora più risoluto, come nel caso del corsaro Raffaele Gabba di Cagliari il quale, nel febbraio 1711, venne scacciato dal Marchesato a causa delle continue lamentele che La Marre riceveva dai Collegi genovesi e dallo stesso Marchese Aribert per le azioni predatorie commesse dal corsaro sardo, più interessato ad attaccare indistintamente qualunque bastimento per commettere ruberie che non per agire nell'interesse della Corona910. Il Governatore di Finale cercò dapprima di riportare il

corsaro sulla retta via – obbligando a restituire la gomena sottratta a patron Bregante di San Remo – ma Raffaele Gabba non smise di creare problemi infastidendo il naviglio genovese e

907ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1683, 18 maggio 1709.

908ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 25 maggio 1709. Anche a Livorno, tramite la posta di Genova, giunsero le notizie relative al Capitano Manzo «conosciuto per Gionta» e del quale si diceva che avesse «svaligiato molti bastimenti genovesi». ASF, Mediceo del Principato, 2230, lettera scritta da Genova al Governatore di Livorno, 18 e 25 maggio 1709.

909La differenza sta nel fatto che Antonio Manzo era Capitano di un felucone in cui aveva interesse il Viceré di Napoli sia in riferimento alla nuda proprietà del legno sia in riferimento all'armamento: nel caso di Antonio Palatino, invece, il Viceré di Sardegna aveva interesse nel legno solo per quanto riguardava l'armamento mentre la proprietà del legno era dello stesso Capitano sardo.

obbligando i patroni a soste forzate negli scali liguri911. Non potendo più contare sul comodo

approdo di Varigotti, il corsaro lasciò Finale ma, invece di allontanarsi dal Mar Ligure, si rifugiò nell'isolotto di Albenga dove continuò ad attaccare legni genovesi e anche toscani912.

La Repubblica di Genova predispose la missione di una galera dello stuolo pubblico esclusivamente allo scopo di frenare il corsaro sardo, ma le difficili condizioni meteorologiche – il Capitano Felice della Torre parlava frequentemente, nelle sue lettere, di un mare particolarmente agitato e ostile alla ricognizione della galera – non portarono all'arresto desiderato913. Tra Savona, Vado e Noli vi erano ormai oltre quaranta bastimenti che

non osavano prendere il mare914 né riuscivano ad avvalersi della scorta della galera: le

istruzioni consegnate al Capitano prevedevano che, in caso di maltempo, egli restasse all'ancora a Savona. Forse proprio per il suo agire piratesco, il corsaro sardo non prese neanche in considerazione la possibilità di dirigersi verso Oneglia: gli attacchi diretti contro qualunque bastimento incontrasse servivano, se non altro, almeno a rifornirsi di acqua e cibo. Le sue condizioni dovettero essere tanto critiche che, nei primi di marzo, gli stessi abitanti di Alassio vedendo che quel corsaro «non sapeva come vivere» gli offrirono, con spirito caritatevole, «dodeci cantara pane»: a distanza di pochi giorni si persero le sue tracce ed egli smise di essere avvistato lungo le coste liguri, essendosi probabilmente diretto verso la Corsica915.

911ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1685, lettere del Governa di Savona, 5 e 6 febbraio 1711.

912Tra le persone che denunciarono la visita del corsaro vi furono Giacomo Celle di Levanto che, ad Albenga, venne assalito e maltrattato dal corsaro senza che gli venisse sottratto nulla del carico e Falconetto Valeri di Brando, anche lui visitato ad Albenga, e licenziato dopo che gli era stato sottratto del denaro. ASG, Archivio

Segreto, Maritimarum, 1685, 23 febbraio 1711.

A queste dichiarazioni si aggiunge quella di patron Paolo Paolino di Livorno, nel suo viaggio di rientro da Marsiglia, era stato costretto a dar fondo ad Albenga a causa del maltempo: il Gabba gli aveva sottratto una cassa di chincaglie, una di rosolio, un certo quantitativo di cappelli e alcuni attrezzi della barca e poi lo aveva rilasciato il resto dietro lo sborso di una certa quantità di denaro, circa 170 pezze. ASF, Mediceo del

Principato, 2232, lettera del Governatore di Livorno alla Segreteria di Guerra, 28 febbraio 1711.

913ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1685, lettera del Capitano Felice della Torre, 23 febbraio 1711. 914ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1685, lettera del Governatore di Savona, 23 febbraio 1711. 915ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1685, lettera del Capitano Felice della Torre, 2 e 5 matzo 1711.

Capitolo V – Lo Stato dei Presìdi e il Principato di Piombino: un

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