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Capitolo III – La guerra di corsa nel Mar Ligure e nell'Alto Tirreno: l'attività dei corsar

IV.4 Il Marchesato del Finale: polo d'attrazione per i corsari forestieri

IV.4.1 La collaborazione con i locali

A volte, la gravitazione di corsari originari di altri territori attorno al centro finalese era frutto della collaborazione con i patroni locali, come dimostra il caso riguardante il napoletano Biagio Ferrando di Diamante883: egli era a capo di un felucone di sua proprietà ma

l'armamento in corso era «di ragione del Capitano Agostino Bochiardo». Questo elemento è la conferma del fatto che l'intraprendente finalino se – dopo aver maturato esperienza navigando di conserva con il Cavalier Pallavicino e realizzando una certa fortuna attraverso varie attività – non aveva più effettuato la guerra di corsa in prima persona, tuttavia non aveva smesso di guardare con interesse a quest'affare, rivestendo il ruolo di armatore. Lo stesso Ferrando dichiarò di dedicarsi al corso «come Tenente di detto Capitano Bocciardo […] patento da Sua Altezza Serenissima il signor Principe Eugenio»884.

Nel settembre 1709, il Capitano Ferrando condusse nello scalo finalino due tartane genovesi che aveva arrestato tra Finale e Noli885: i due legni provenivano da Livorno dove

880È il caso di Giuseppe Larduino il quale arrivò a Finale nell'estate del 1710: il felucone da lui utilizzato per fare il corso era di proprietà di alcuni mercanti napoletani mentre l'armamento era per conto del Marchese di Rofrano. Il Tribunale delle Prede Marittime aprì un ricco dossier processuale per esaminare le prede da lui realizzate tra Finale e Porto Maurizio: furono tutte commesse a danno di patroni genovesi che trasportavano merci per conto di neutrali e, pertanto, vennero rilasciate. Dopo aver reso le proprie dichiarazioni in merito alle prese – in attesa che il Capitano di Giustizia portasse avanti gli interrogatori e gli accertamenti del caso – il corsaro siciliano tornò a corseggiare nelle acque francesi, dove trovò la morte. ASCF, Camera, Tribunale

delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 2 giugno 1710. Le prede del corsaro siciliano sono confermate

anche in ASG, Archivio Segreto, Maritimarum, 1684, 14 giugno 1710.

881Si tratta di Giacomo Profumo, originario di Pegli. Nell'estate 1712, in occasione di un interrogatorio a cui era stato sottoposto dopo aver condotto nello scalo del Marchesato il legno di Francesco Caneva di Pegli, aveva dichiarato: «è trentacinque anni che faccio il corso, e l'ho fatto sempre ne mari del mio Re Carlo II […] e di presente di Carlo III, nostro imperatore e monarca». Il suo corso aveva interessato anche le coste della Galizia, del Nord Africa e, in anni recenti, quelle liguri. La lettera di marca e la nomina a Capitano di mare e guerra gli era stata concessa nel marzo 1710 in considerazione dei «servicios executados en las galeras de la

esquadra de Spaña» e, in seguito al riconoscimento della sovranità di Carlo III a Cartagena, per i servizi resi

«en la compagnia de Murcia»; infine per aver mostrato il proprio zelo al sovrano dedicandosi alla guerra di corsa nei paraggi dell'isola di Maiorca. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del 18 luglio 1712 e ASM, Carteggi consolari, 25, 14 marzo 1710.

882Risale all'estate del 1711 un breve fascicolo processuale contenente la denuncia della preda realizzata effettuata dal corsaro inglese – un certo Tommaso di Londra – e l'esame rivolto al patrone predato. ASCF,

Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 111, fascicolo del 14 giugno 1711.

883Il cognome dell'uomo, a volte, si trova nella versione “Ferrante”.

884Le relazioni tra i due uomini non devono essersi concluse in maniera idilliaca: nell'ottobre 1735, il Capitano Bochiardo risultava ancora creditore di 1.100 lire fuori banco nei confronti di Biagio Ferrando. La somma era stata prestata proprio nel periodo della “collaborazione corsara” tra i due, nell'agosto 1709. Poiché il Capitano napoletano non aveva ancora saldato il dovuto, Bochiardo aveva finito per “vendere” a Gio. Andrea Besazza – un uomo originario di Calvisio ma abitante da lungo tempo a Napoli – il nome del suo debitore attraverso la cessione di un pezzo di vigna, un pezzo bosco con di castagneto e un pezzo di uliveto. ASS,

Notai distrettuali, Notai del Finale, 2393B, 20 ottobre 1735.

avevano imbarcato un consistente carico di grano e il corsaro – sia perché insospettito da alcuni dettagli delle polizze di carico, sia in considerazione della grave penuria di grano di quell'anno886, conseguenza della terribile gelata che aveva colpito l'intero Mediterraneo –

preferì sottoporre il caso all'attenzione del Capitano di Giustizia, Giulio Cattaneo887.

Negli stessi giorni, sostò a Finale anche un Capitano sardo, Antonio Palatino di Cagliari: egli navigava a bordo di un felucone di cui era comproprietario insieme al padre ed era munito di una patente concessagli dal Conte di Cifuentes, Viceré di Sardegna, che lo aveva incaricato di trasportare i dispacci «et far anco il corso». Su quest'ultimo punto si era ingerito, talvolta, anche il Conte Molinari: nel maggio 1709 fremeva per ricevere notizie dalla Sardegna, sperando che portassero nuove sullo stato della guerra e dei trattati di pace: da tempo lamentava la mancata ricezione a Genova dei dispacci, imputabile agli attacchi dei corsari nemici, particolarmente francesi. Nel maggio 1709, dunque, l'urgenza di leggere le missive era tale che, in una lettera diretta al Capitano Palatino, il Molinari lo pregava di usare «tutta la diligenza» nel compiere il viaggio di andata e ritorno e lo invitava a non dilungarsi nel compiere la guerra di corsa, non reputandolo conveniente in quelle circostanze888.

Il legno “patroneggiato” da Antonio Palatino era di armamento regio e, per il servizio prestato alla Corona, al Capitano sardo venivano riconosciute 120 pezze da otto reali al mese. Il Capitano Palatino avvistò due bastimenti al largo del Finale e, «cacciato a mare» il felucone, si diresse immediatamente verso di loro per riconoscerli: appreso che le due tartane, con le stive piene di grano, erano dirette a Ventimiglia889, il corsaro ritenne opportuno

trattenerle perché i «grani […] sono de generi di contrabando» e, ancor più, per il fatto che erano destinati a Ventimiglia, «ultima parte del Genovesato, […] confinante con la giurisdizione di Monaco»890.

Non era casuale che, nel giro di pochi giorni, fossero state compiute almeno quattro prede a danno di legni con un simile carico: il Console Molinari aveva informato il Duca di Moles in merito alle «compere riguardevoli di grano» che i nemici facevano sia a Genova sia a Livorno. Il solerte console aveva precisato che i legni avrebbero dovuto essere «scortati al più da qualche galea della squadra del duca di Tursi: se bene non mancheranno molti padroni di navigar senza scorta», e sperava che tali dettagli potessero servire a John Leake, l'Ammiraglio dell'armata navale per decidere l'invio di «alcune navi da guerra per impedire, o intorbidare

carico di grano: i due non erano sconosciuti nel Finale poiché, talvolta, vi facevano scalo per rivendere le loro merci, com'era accaduto proprio di recente per un certo quantitativo di grano. I due patroni, una volta interrogati dal Capitano di Giustizia, rilasciarono testimonianze particolarmente ricche di dettagli, precisamente per quanto riguardava la proprietà dei due bastimenti. Le loro parole rilevarono elementi curiosi: la tartana di patron Cardone era di recente costruzione – solcava il mare solamente dal dicembre dell'anno precedente – e, tra i nomi dei diversi proprietari trapelò anche quello di un religioso; mentre per quanto concerne la tartana di patron Pagliano si rintracciarono i nomi di due donne, Tommasina vedova di Gio. Batta Musso e Bianchinetta vedova di Diego Pagliano.

886Le stagioni del 1709 e del 1710 furono drammatiche: nel febbraio 1709 il Principe Eugenio concesse l'estrazione di «some millecinquecento formento» dallo Stato di Milano. Il grano venne acquistato al prezzo di 38 lire e soldi 5 «per ogni mina di rubbi 12», quando il prezzo corrente era aumentato fino a lire 50. A. SILLA, Storia del Finale..., cit., p. 637.

887ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 2 settembre 1709.

888ASM, Carteggi Consolari, 8, lettera del Console Molinari al Capitano Antonio Palatino, 10 maggio 1709. Anche nei mesi seguenti sarebbe stato il Console Molinari a regolare l'attività del Capitano Palatino, incaricandolo a volte di trasportare il dispaccio ed altre, invece, di dedicarsi al corso marittimo per un periodo relativamente breve, all'incirca una settimana o dieci giorni. ASM, Carteggi Consolari, 8, lettera del Console Molinari al Conte di Cifuentes, 1° agosto 1709 e Idem, lettera del Console Molinari al Capitano Antonio Palatino, 2 settembre 1709.

889Si trattava delle tartane dei patroni Pietro Ferro e Giacomo Ginata, entrambi della Riva di Taggia. 890ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 1° settembre 1709.

quel trasporto»: d'altronde, anche la Regina Anna aveva incaricato «non tanto le navi da guerra quanto i corsari inglesi» di fermare «tutti i bastimenti neutrali che avranno carico di grano per la Francia»891.

Se per i legni predati da Antonio Palatino, Giulio Cattaneo dispose il rilascio – motivandolo sulla base del fatto che il caso riguardava legni genovesi, diretti in scali del Dominio e con merci caricate da sudditi della Repubblica di Genova per conto di altri genovesi – in maniera del tutto differente giudicò – d'assenso con il Governatore – la preda realizzata dal Capitano Ferrando che pure era del tutto analogo a quello appena considerato: il grano venne fatto scaricare e i patroni costretti a prestare una «sigurtà» per vedersi restituite le due barche, in attesa che le autorità milanesi si pronunciassero sul caso. Lo stesso Magistrato Ordinario di Milano interrogò il suo delegato fiscale finalese, invitandolo a motivare una tale disparità di trattamento ma l'unico elemento che il Capitano di Giustizia addusse a sua discolpa fu il dubbio di trovarsi di fronte a polizze simulate che potessero mascherare la vera proprietà del carico: a suscitare tentennamenti era il fatto che fossero intestate ai patroni dei due bastimenti quando, generalmente, chi trasportava merci per proprio conto non era tenuto a produrre questo tipo di scrittura; un punto, questo, che in effetti viene confermato da testimonianze emerse da altri fascicoli processuali redatti dal Tribunale delle Prede Marittime. In ogni caso, da Milano non si ritenne giustificato il provvedimento e si dispose la restituzione del grano e delle due tartane ai loro patroni i quali, in tal modo, vennero anche liberati dall'obbligo della fede prestata. Il Presidente delle Regie e Ducali Entrate Ordinarie dello Stato di Milano ammonì le autorità finalesi ribadendo che «la cognitione se la preda sii valida o invalida, s'aspetta al nostro Tribunale, e non già a cotesto Governatore si perché è cognitione di termine di ragione, come anco perché così sempre e stato praticato»892.

Il connubio Ferrando-Bochiardo non fu l'unico che si realizzò nel Marchesato tra corsari originari del Finale ed altri forestieri: ad esempio, si ricorda ancora quello che riguardò il Capitano Giuseppe Graziano – un trapanese abitante in Cagliari, armato in corso con lettera di marca sottoscritta dal Viceré di Sardegna893 – e il finalino Pietro Gio. Cerisola. Quest'ultimo,

891ASM, Carteggi Consolari, 8, lettera del Console Molinari al Duca Moles, 4 luglio 1709. Il Conte Molinari avrebbe ripreso il concetto anche in una lettera scritta al Principe Eugenio in cui gli spiegava che i nemici avevano poche navi corsare a disposizione e che i bastimenti carichi di grano potevano contare solamente sulla difesa di due barche armate a tale scopo. Idem, lettera del Console Molinari al Principe Eugenio di Savoia, 3 novembre 1709.

892ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 110, fascicolo del 2 settembre 1709. La frase riportata lascia pensare che, forse, durante la Guerra di Successione Spagnola, il Tribunale delle Prede Marittime – strettamente legato al Magistrato Ordinario dello Stato di Milano – potesse aver avuto sede nella stessa Capitale del Ducato.

Le notizie di questi due casi si rintracciano, seppur in maniera un po' confusa, anche nelle fonti toscane: infatti una feluca napoletana giunta nel porto di Livorno aveva riferito che due feluconi calabresi e una maiorchina avevano predato tre barche genovesi cariche di grano, una delle quali era stata rilasciata mentre le altre due erano state trattenute. I due feluconi definiti come calabresi sono, con buona probabilità, quelli del napoletano Ferrando e del sardo Palatino che, in realtà, avevano realizzato due arresti ciascuno. La barca maiorchina, invece, potrebbe essere quella di Pietro Antonio Rocca che, all'isolotto di Albenga, aveva visitato e licenziato un pinco genovese carico proprio di grano. ASF, Mediceo del Principato, 2230, lettera scritta da Genova al Governatore di Livorno, 14 settembre 1709.

893La sua patente di corso si differenziava notevolmente rispetto a quelle incontrate sinora: veniva esplicitata la tipologia del bastimento impiegato per la guerra di corsa – il brigantino – con riferimento all'imbarcazione specifica, nominata Gesù, Maria, Giuseppe, la Vergine dell'Annunciata e le anime del Purgatorio. La lettera di marca autorizzava la preda di imbarcazioni cadute nel reato di contrabbando e impone di «no ofender a

vasallos de su Magestad Catholica, ni de sus confederados aliandos y amigos» sotto pena, in caso contrario,

di pagare «quinientos escudos, y de satisfazer los daños». Infine, precisava la durata della concessione: sei mesi a partire dal 10 dicembre 1711, giorno del rilascio dell'autorizzazione. ASCF, Camera, Tribunale delle

come si è visto, fu luogotenente per conto del Capitano Benedetto Corallo e, a partire dalla primavera del 1712, fu tenente a bordo del brigantino corsaro del Capitano Graziano. Le loro campagne corsare furono orientate al largo della Sardegna, della Corsica e della Provenza e improntate ad un agire del tutto indiscriminato, come accadde nella cattura ai danni dei patroni Nicola Musso di Sestri Levante894 e Pietro Maccari di Alassio895: del Capitano corsaro

si diceva che fosse un «vero ladro del mare», il quale abusava «della patente concessale» di cui si serviva «per pura maschera delle trufferie [...] e latrocinii» più consoni «all'uso de turchi» che non a quello dei cristiani. Nei confronti del Capitano Graziano e del suo tenente Pietro Gio. Cerisola venne intentato un processo e, per un certo periodo di tempo, furono imprigionati nel corpo di guardia: non stupisce che a fare istanza per il loro rilascio fu il Capitano Corallo, con il quale il giovane Cerisola aveva collaborato fin dal 1710896. Benedetto

Corallo risarcì parzialmente il patrone genovese della somma sottratta a nome del Capitano Graziano: a fronte di 20 scudi sottratti, gli pagava 2 doppie di Spagna mentre per la somma restante «s'obbliga[va] […] anche a nome proprio, facendo sigortà per detto Gratiano» il quale avrebbe dovuto effettuare il pagamento entro due mesi897. Se le autorità finalesi e milanesi non

esitarono a castigare il corsaro per i delitti commessi, allo stesso tempo non esitarono ad alzare la voce con i Collegi genovesi per alcuni torti che egli aveva subito: l'assalto in Calvi – dove aveva sostato per sbarcare alcuni marinai di patron Musso che aveva trasferito sul suo legno – da parte di più di cento uomini armati e l'incidente occorso con una galera genovese – evidentemente una di quelle dello stuolo pubblico – che lo aveva perquisito e obbligato a portarsi a San Remo, impedendogli di realizzare la cattura di una nave francese che stava navigando verso Livorno. Per la prima volta, dalle fonti emerge come gli stessi ufficiali genovesi e i loro sottoposti non erano del tutto ligi al loro dovere: avevano preteso che il legno corsaro «abassasse lo stendardo di Sua Maestà Cesarea e Cattolica», avevano «dato de schiaffi a Pietro Ceresola» nonché rubato – sia a lui sia ad altri marinai – il denaro che

894Il patrone genovese era partito da Castel Aragonese (attuale Castelsardo) con un carico di formaggio, lardo e lana, aveva sostato a Calvi da dove, dopo aver caricato altre merci, aveva ripreso la navigazione verso Genova. L'arresto da parte del Capitano Graziano – che avvenne al largo della Corsica – fu motivato sulla base di un preteso contrabbando: patron Musso non aveva con sé le polizze di carico redatte in Castel Aragonese ma solamente quelle redatte in Calvi. In realtà, il genovese aveva gettato quei documenti in mare quando era stato inseguito da un corsaro francese ma il Capitano Graziano non gli volle credere e ordinò ad alcuni suoi marinai di condurlo al Finale mentre lui proseguiva, insieme al tenente Cerisola, la campagna corsara nelle acque francesi. Nel Marchesato si appurò che le dichiarazioni fornite da Nicola Musso erano veritiere e si ammonì severamente il Capitano Graziano: perché condurre la preda a Finale quando – tenendo in considerazione il luogo dove era avvenuta la preda – sarebbe stato molto più semplice tornare a Castel Aragonese e verificare il presunto reato di contrabbando? Gli ordini da Milano parlavano di infliggere al corsaro il «dovuto castigo»: si alludeva, probabilmente, al pagamento della pena di 50 scudi, come previsto nella lettera di marca. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del 12 maggio 1712. 895La barca venne arrestata per due motivi: perché a bordo era presente Francesco Giudice, un uomo di origini

nizzarde – che, per tale motivo, era reputato nemico – stabilitosi da tempo in Ceriale e per mera ritorsione poiché i corsari erano di recente incappati in un incidente con una galera genovese, i cui marinai avevano assalito e ferito gli uomini del Capitano Graziano. Né questo pretesto né quello del passeggero di origini nizzarde furono ritenuti validi per legittimare l'arresto della tartana genovese: a maggior ragione per il fatto che Francesco Giudice svolgeva a Ceriale il ruolo di stapoliere del sale per conto del Duca di Savoia e, pertanto, non poteva essere considerato nemico. Il Capitano Graziano e il tenente Cerisola – dopo essere stati imprigionati per un certo periodo di tempo – furono obbligati a restituire a patron Maccari gli effetti personali e il denaro sottratti: ciò avvenne in parte in un'osteria della Marina e in parte nella casa di Giacomo Borro; in entrambe le occasioni fu presente come testimone e mediatore Diego Soffio, quel corsaro di origini napoletane divenuto ormai da tempo suddito del Duca di Savoia. ASCF, Camera, Tribunale delle Prede

Marittime, 112, fascicolo del 31 maggio 1712.

896ASCF, Camera, Tribunale delle Prede Marittime, 112, fascicolo del 31 maggio 1712. 897ASS, Notai distrettuali, Notai del Finale, 2407B, 4 giugno 1712.

avevano nelle tasche. Il Magistrato Ordinario di Milano chiese che in futuro non si molestassero i corsari al servizio di Carlo III: era evidente – e il caso del Capitano Graziano lo aveva dimostrato – che, in caso di torti, rapida e puntuale sarebbe stata la riparazione ad essi898.

Proseguendo l'esame sui corsari non indigeni si nota come, a volte, la loro presenza nel Finale venne sollecitata dall'alto: lo dimostra un episodio risalente all'estate del 1711, quando il Marchese Aribert – «sopra la notizia havuta […] di che uno pinco francese dovesse passare fuori all'amare sopra il Finale, per portarsi a Marsiglia di Francia» – ordinò al napoletano Andrea Persico, Capitano di un pinco del dispaccio, di condursi nel Marchesato e richiese al Governatore La Marre di provvedere il legno di «balle, polvere, et soldati» e di concedergli la scorta di due feluconi del luogo. La presa era perfetta – bastimento e carico entrambi di proprietà nemica899 – ma diede origine a due ordini di problemi: un conflitto tra i

rappresentanti di Carlo III e la Repubblica di Genova, da un lato, e uno scontro tra il Marchese Aribert e il Governatore La Marre, dall'altro. Nel primo caso, all'origine del contrasto non vi era nulla di nuovo: la preda era avvenuta quando ormai si trovava in terra alla Laigueglia, in spregio della difesa che i genovesi avevano cercato di realizzare nei suoi confronti. Il confronto tra le due parti si sviluppò come al solito ma, in questa occasione, il Marchese Aribert non cedette e rinfacciò la parzialità che la Repubblica aveva mostrato nei confronti dei nemici di Carlo III, chiamando in causa una preda, avvenuta nella spiaggia di S. Remo, a danno di un legno catalano che trasportava dispacci per la corte900. Se Aribert non

cedette ciò fu indubbiamente dovuto al forte interesse che aveva nella presa e, dallo stesso

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