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LE AVANGUARDIE : JUGOSLAVIA E ALBANIA

Politica ed economia negli anni della transizione

3.3.1. LE AVANGUARDIE : JUGOSLAVIA E ALBANIA

Nel periodo 1945-48 la Jugoslavia rappresentò un modello per la rapidità e la profondità dei cambiamenti politici e sociali impressi al paese dal partito comunista. La transizione politica si compì entro la primavera del 1946. Il 5 marzo 1945 Tito divenne primo ministro del nuovo governo di coalizione, mentre al monarchico ˇSubaˇsi ´c venne riservato il ministero degli Esteri. Solo cinque dei ventotto

ministri non appartenevano all’AVNOJ. Aleksandar Rankovi ´c divenne

ministro degli Interni e capo dei servizi segreti, una carica che avrebbe mantenuto fino al 1966. Nell’ottobre 1945 ˇSubaˇsi ´c e alcuni suoi collaboratori si dimisero per protesta contro il controllo dei comunisti sui settori vitali dello Stato. Alle elezioni generali dell’11 novembre venne autorizzata la presentazione di un’unica lista, del Fronte popolare, che gli elettori erano chiamati ad approvare, o a respingere. Come sottolinea John R. Lampe, fu l’assenza di un’op- posizione organizzata a consentire il trionfo dei comunisti: la per- centuale di coloro che votarono per i “senza lista” superò il 15% in Slovenia e il 10% in Vojvodina e Serbia. Qui, inoltre, più di un quinto degli aventi diritto boicottò il voto, spingendo la percentuale dei consensi in favore del Fronte al 68%50.

In seguito alle elezioni, la costruzione di un regime monopartitico accelerò. Il 29 novembre il nuovo governo proclamò la Jugoslavia una “repubblica popolare” e il 31 gennaio 1946 fece adottare dal Parlamento, nel quale il PCJe i suoi satelliti detenevano praticamente

tutti i seggi, una nuova Costituzione. Essa prescriveva alla neocosti- tuita Repubblica Federativa Popolare – caso unico nell’Europa del tempo – un assetto decentrato. Sul modello della Costituzione sovieti- ca del 1936, era prevista la creazione di repubbliche (Slovenia, Croa- zia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro e Macedonia). La Vojvo- dina, abitata per un quarto da ungheresi, venne dichiarata provincia autonoma della Serbia, il Kosovo venne semplicemente inglobato in essa. Mentre il federalismo amministrativo e fiscale rimase lettera morta sino a tutti gli anni sessanta, generando frequenti conflitti fra le repubbliche e il centro, Tito non esitò a imporre la statalizzazione dell’economia, coronata dal lancio del primo piano quinquennale del- l’aprile 1947, nonostante la Costituzione non facesse alcun esplicito riferimento alla costruzione del socialismo. Il piano di industrializza- zione forzata, avversato da esponenti di spicco del regime come il mi- nistro dell’Industria, il croato Andrija Hebrang, si sarebbe alla lunga rivelato un totale fallimento. Sul breve periodo, tuttavia, lo sforzo di ricostruzione del paese, devastato nelle infrastrutture dal lungo con- flitto, ebbe successo anche grazie al decisivo appoggio, stimato in ol- tre 400 milioni di dollari, assicurato dal fondo di ricostruzione UNRRA

(United Nations Relief and Rehabilitation Administration), reso dispo- nibile dagli alleati occidentali e, in primo luogo, dal principale nemi- co ideologico, gli Stati Uniti51.

La rapidità della trasformazione socialista in Jugoslavia contribuì ad aumentare il prestigio e l’influenza di Tito soprattutto in Albania. Dalla fine della guerra Tito considerava l’Albania e il suo minuscolo

partito comunista una mera appendice del movimento jugoslavo e fino al 1948 l’influenza jugoslava sul nuovo Stato albanese fu presso- ché totale. Nel 1947 Belgrado fornì al suo satellite crediti che equiva- levano a oltre la metà del suo prodotto interno lordo e nel settembre dello stesso anno fu la Jugoslavia a rappresentare la trascurabile Alba- nia alla riunione di fondazione dell’Ufficio di coordinamento dei par- titi comunisti (Kominform). Nel 1945 le autorità di Tirana, guidate da Enver Hoxha, capo del governo provvisorio dal 1944 e segretario del partito comunista, fecero propri i metodi spicci utilizzati dagli ju- goslavi per eliminare gli oppositori politici. Il ministro degli Interni Koçi Xoxe condusse una violenta repressione contro politici collabo- razionisti, capi clan delle regioni gheghe del Nord ed esponenti delle élite rurali. La maggior parte dei nuovi dirigenti comunisti proveniva dalle zone meridionali e apparteneva alla classe media urbana. Alle elezioni del 2 dicembre 1945 il Fronte democratico a lista unica ot- tenne il 93% dei voti e l’11 gennaio 1946 il paese si dotò – primo nel futuro campo sovietico – di una Costituzione che dichiarava l’Albania una repubblica democratico-popolare.

3.3.2. “RIVOLUZIONE DALL’ESTERNO”: POLONIA, ROMANIA E BULGARIA

Mentre in Jugoslavia e in Albania i fattori endogeni prevalsero sulla spinta sovietica nella costruzione di regimi socialisti, altrove il peso del fattore sovietico si rivelò decisivo nell’imporre governi e politiche economiche. In Polonia il governo comunista di Lublino si era impo- sto nel dicembre 1944 come l’unico riconosciuto dall’URSS. La forza

dei comunisti era stata enormemente accresciuta dall’annientamento per mano tedesca delle forze più attive della resistenza non comunista in occasione dell’insurrezione di Varsavia. Tuttavia, il partito contadi- no polacco (Polskie Stronnictwo Ludowe – PSL), formato dall’ex capo

del governo in esilio a Londra, Miko/lajczyk, con una scissione dal

gruppo agrario filocomunista nel settembre 1945, divenne presto la principale forza politica del paese, con oltre 600.000 iscritti52. Le mi-

lizie del partito comunista combatterono nelle zone rurali contro gli attivisti del partito di Miko/lajczyk una guerra civile a bassa intensità

che imperversò dal giugno 1945, quando divennero operativi gli ac- cordi di Jalta sull’allargamento dell’esecutivo a esponenti dei partiti contadino, socialista e democratico, al gennaio 1947, quando si tenne- ro le elezioni politiche.

Nel biennio 1946-47 la forza dell’opposizione popolare polacca e la volontà sovietica di giungere a un controllo totale della vita politica emersero in modo drammatico. Il referendum detto “dei tre sì”, svol- tosi il 30 giugno 1946, avrebbe dovuto misurare il consenso ai partiti del Blocco democratico dominato dal partito comunista attorno a tre questioni: l’abolizione del Senato, la nazionalizzazione di alcuni setto- ri dell’economia e la definizione del nuovo confine polacco-tedesco sui fiumi Oder e Neisse. Sebbene i risultati ufficiali mostrassero un consenso del 70% ai primi due quesiti, e di oltre il 90% al terzo, i dati emersi dagli archivi dopo il 1989 mostrano una realtà assai di- versa: il risultato ufficiale era frutto di manipolazioni e brogli e solo la terza domanda aveva effettivamente ricevuto la maggioranza dei voti espressi. Le elezioni politiche del 19 gennaio 1947 furono carat- terizzate da un grado ancora maggiore di violenza e intimidazioni. La lista governativa, guidata dal partito operaio (comunista), si compone- va di partiti che richiamavano solo nel nome quelli storici (socialista, agrario), mentre all’opposizione restava, isolato e perseguitato dalla polizia, il PSL di Miko/lajczyk. Grazie ai brogli e alle intimidazioni at-

tuate dalla polizia polacca e dalle forze di occupazione sovietica (l’ar- resto di centinaia di candidati dell’opposizione; l’esclusione pretestuo- sa delle liste del PSL da numerosi distretti; l’estromissione dalle liste

elettorali di mezzo milione di “reazionari”), il Blocco ottenne ufficial- mente l’80,1% dei voti validi, pari a 384 seggi su 444; mentre il PSL

appena 28 mandati. Il 19 febbraio il Parlamento approvò una nuova Costituzione, un misto di elementi socialisti e borghesi, che sarebbe rimasta in vigore fino al 1952. Con l’estromissione di Miko/lajczyk dal

governo, l’unico avversario legale del partito comunista rimase quello socialista guidato da Edward Osóbka-Morawski, che nel 1947 conta- va 800.000 iscritti (contro i 500.000 del partito operaio) e seguiva una linea di indipendenza politica dall’alleato di governo. Esso venne dapprima costretto a espellere quasi un quarto dei propri iscritti, giu- dicati reazionari, e in seguito (dicembre 1948) a fondersi con il parti- to comunista.

Altrettanto complessa e prolungata si rivelò la transizione in cam- po economico. Il governo di fronte nazionale varò, il 6 settembre 1944, una riforma agraria che si distingueva per il suo carattere “et- nocentrico” (le terre sottratte ai possidenti tedeschi venivano affidate a coloni polacchi) e per massicce concessioni alla media proprietà contadina. La nazionalizzazione delle banche e delle imprese con più di 50 dipendenti venne seguita, nel 1947, dal lancio di un piano di ricostruzione triennale che mirava a ristabilire, entro il 1949, un teno- re di vita paragonabile a quello del periodo anteguerra. Come ha sot-

tolineato Rothschild, questo non significava automaticamente l’intro- duzione di un regime socialista: già negli anni trenta la Polonia di- sponeva di un capitalismo di Stato esteso ed efficiente e le naziona- lizzazioni non costituivano una novità impopolare53. Traumatica fu,

piuttosto, la caduta del commercio internazionale del paese a seguito del progredire della guerra fredda. Nell’estate 1947 i sovietici blocca- rono l’accesso di Polonia e Cecoslovacchia ai crediti statunitensi per la ricostruzione europea (Piano Marshall). Ciononostante, la fine della guerra fu vissuta dalla popolazione come una rinascita nazionale, in- dipendentemente dagli sviluppi politici. Nel quinquennio 1946-50 ci furono 3,5 milioni di nascite e nel biennio 1946-47 si registrò un re- cord secolare di matrimoni celebrati. Tuttavia, le circostanze che ap- parentemente favorivano il rafforzamento del nuovo regime furono largamente neutralizzate, o rovesciate, dalla strategia “imperialista ri- voluzionaria” di Stalin, la cui applicazione in Polonia portò il paese a una perdita di indipendenza fortemente risentita all’interno dello stes- so partito comunista54.

Più facile fu la conquista del potere politico dei partiti comunisti in due degli Stati sconfitti e occupati dall’URSS, la Romania e la Bul-

garia. Nella prima, fino al 1947 un ruolo peculiare di contrappeso istituzionale ma anche di stabilizzazione venne svolto dal re Mihai I. I

partiti di opposizione borghese e contadina reagirono più debolmente che in Polonia all’attacco loro portato dalla sinistra. Dopo il colpo di Stato che rovesciò il maresciallo Antonescu, la questione fondamenta- le al centro del dibattito politico restava l’attribuzione della Transilva- nia. La posizione sovietica si rivelò determinante. L’egemonia del par- tito comunista in tumultuosa espansione (appena 1.000 iscritti alla fine del 1944, oltre 150.000 nel luglio 1945, 400.000 all’inizio del 1946) venne favorita proprio dallo spregiudicato uso che Mosca fece della carta nazionale55. La nomina a primo ministro da parte del re

di Petru Groza, “compagno di strada” dei comunisti, il 6 marzo 1945, scongiurò la messa in discussione del possesso della Transilva- nia settentrionale ex ungherese, che i sovietici avevano, del resto, già promesso alla Romania con l’armistizio del settembre 1944. Per quan- to gli fosse difficile accettare la perdita della Bessarabia, della Bucovi- na e della Dobrugia e per quanto consapevole della massiccia pre- senza comunista al governo (Interni, Giustizia ed Economia), il re ap- provò la formazione di un esecutivo “democratico” come garanzia di un minimo di stabilità nel paese. Tuttavia, egli non accettò passiva- mente l’egemonia comunista. Sostenuto dalle potenze occidentali, Mi- hai I reclamò a lungo un allargamento della coalizione ai partiti “sto-

rici” (liberale e contadino). Dall’estate 1945 al gennaio 1946 egli rifiu- tò di controfirmare i decreti del governo.

Fino alle prime elezioni postbelliche, il 19 novembre 1946, il pae- se visse un simulacro di pluralismo politico e di stabilità istituzionale. Nel 1944 lo Stato non si era dissolto e i suoi apparati, solo in parte rinnovati nel personale, funzionavano ancora secondo le procedure d’anteguerra. L’ufficio del ministero degli Esteri incaricato di prepa- rare la pace di Parigi continuò sino al 1947 a sfornare piani di espul- sione delle minoranze, o di scambi di popolazione, ignorando la poli- tica ufficiale di integrazione del nuovo governo56. La Romania del

1944-47 riuscì nell’impresa di combinare esigenze e aspettative appa- rentemente inconciliabili. Un’oculata politica verso il clero ortodosso, legatosi immediatamente al nuovo regime e, soprattutto, nel campo della complessa questione nazionale, costituirono il successo più rile- vante del governo Groza. La consistente minoranza ungherese in Transilvania, inizialmente riluttante a integrarsi nello Stato romeno, venne favorita con la concessione di ampi privilegi culturali e lingui- stici (nella città di Cluj, fatto unico nell’Europa del tempo, funzionò dal 1945 al 1959 un’intera università in cui l’insegnamento era intera- mente impartito in una lingua minoritaria). Una spinta decisiva all’a- desione dei transilvani ungheresi al nuovo regime venne da un movi- mento politico-culturale creato nell’autunno 1944, l’Unione popolare ungherese, che riuscì a riunire esponenti politici e intellettuali dei più vari orientamenti. Gli ebrei romeni recuperarono i diritti di cittadi- nanza persi dopo il 1938 e si integrarono nelle nuove strutture statali e nello stesso partito comunista, anche se molti aderenti al movimen- to sionista preferirono emigrare in Palestina57. I tedeschi della Tran-

silvania e del Banato, invece, furono sottoposti a vessazioni economi- che e politiche (espropriazione di case e terreni in occasione della ri- forma agraria del 1945; esclusione indiscriminata dal partito e dalle organizzazioni di massa; perdita temporanea del diritto di voto), ma non subirono la violenza attuata contro i loro connazionali in Jugo- slavia o in Cecoslovacchia. L’unico episodio in tale senso fu nel gen- naio 1945 la deportazione in Unione Sovietica (denominata “lavoro di ricostruzione”), attuata su basi etniche e politiche dalle autorità di occupazione sovietiche con il consenso di quelle romene, di circa 70.000 ˇsvabi, la popolazione di lingua tedesca e religione cattolica del Banato e della Transilvania nord-occidentale (province di Bihor e Sa- tu Mare)58.

Nonostante la storiografia romena attuale tenda a dipingere i co- munisti romeni degli anni quaranta come una forza “antinazionale” ed eterodiretta, un’analisi più attenta permette di cogliere nella loro

azione del 1945-47 una notevole abilità nell’ottenere su alcuni temi sufficienti margini di consenso presso larghi strati della popolazione. All’inclusione relativamente indolore della Romania nell’impero ester- no sovietico contribuirono, inoltre, la totale subordinazione economi- ca del paese all’URSS59(attraverso numerose società miste come la So-

vrompetrol, che monopolizzava la raffinazione del greggio), l’irresisti- bile influenza della AAC e, infine, la debolezza dell’opposizione bor-

ghese, guidata dagli anziani Maniu e Br˘atianu. L’assenza di un ricam- bio dei vertici e di una maggiore apertura ai giovani e ai ceti operai urbani compromise la capacità dei partiti “storici” di competere con un partito comunista in continua espansione. Esso era guidato da Gheorghe Gheorghiu-Dej, un ferroviere con un lungo passato di mili- tanza clandestina, e Ana Pauker, figlia di un rabbino ortodosso mol- davo, che nel novembre 1947 divenne il primo ministro degli Esteri donna al mondo, guadagnandosi l’anno seguente la copertina del set- timanale “Time”.

Un passaggio cruciale per la conquista del potere fu rappresentato dalle elezioni svoltesi il 19 novembre 1946. Il Fronte democratico po- polare conquistò ufficialmente, con il 68,7% dei voti, 348 dei 414 seggi in palio. All’Unione popolare ungherese, alleata del Fronte, an- darono 29 seggi, appena 32 al partito contadino (con il 12,7% dei voti) e 3 (3,7% dei voti) ai liberali. Come in Polonia, le elezioni si svolsero in un clima di generalizzata violenza e furono viziate da gravi brogli. Sebbene non esista un conteggio “parallelo” relativo alla tota- lità dei seggi, secondo un rapporto riservato del partito comunista, il Fronte e i suoi alleati ungheresi ottennero il 43-45% dei voti, mentre l’opposizione liberale-contadina avrebbe potuto conquistare, in condi- zioni di libertà, circa la metà dei consensi60. La formazione di un

nuovo Parlamento e, nel febbraio 1947, la chiusura della vicenda bel- lica con la firma del trattato di pace di Parigi consentirono al governo frontista di abbandonare la linea di cautela seguita fino a quel mo- mento. Nella primavera 1947, un ordine speciale del ministero del- l’Interno autorizzò l’internamento di centinaia di esponenti dell’oppo- sizione. A luglio fu il turno dei capi del partito contadino, Iuliu Ma- niu e Ion Mihalache, arrestati presso un aeroporto militare mentre tentavano di lasciare il paese per formare un governo in esilio. Con- dannati all’ergastolo sulla base di fantasiose accuse di complotto anti- statale, i due leader del partito contadino, messo al bando il 29 lu- glio, morirono anni dopo in prigione61.

Nell’autunno 1947, il peggioramento del clima politico internazio- nale fornì una spinta ulteriore al processo di costruzione della ditta- tura monopartitica. Il 7 novembre 1947 venne allontanato il ministro

degli Esteri Gheorghe T˘at˘arescu, un liberale “dissidente” con trascor- si di destra, passato nel 1945 ad appoggiare il nuovo governo. Questi fu sostituito con la comunista Pauker62, mentre al ministero delle Fi-

nanze venne installato il numero tre del partito, il dirigente transilva- no Vasile Luca. Il 30 dicembre 1947 il re venne costretto a lasciare il trono e ad andare in esilio: la Romania divenne una repubblica popo- lare. Nel febbraio 1948 fu firmato il trattato romeno-sovietico di “amicizia e mutuo soccorso” e si attuò l’ormai inevitabile fusione dei partiti di ispirazione marxista: con l’assorbimento della socialdemo- crazia nacque il partito operaio romeno (Partidul Muncitoresc Român – PMR). Il 28 marzo le elezioni politiche svoltesi a lista unica decreta-

rono il trionfo del Fronte democratico popolare, con il 95% dei con- sensi. Il 13 aprile la nuova Assemblea nazionale varò una Costituzio- ne ispirata a quella sovietica.

Se sul piano politico la Romania si avviò rapidamente verso il mo- nopartitismo, in campo economico essa non intraprese alcuna riforma radicale. Paese sconfitto ma – a differenza dell’Ungheria – dall’appa- rato produttivo rimasto sostanzialmente integro, essa venne utilizzata dai sovietici come una risorsa dalla quale attingere attraverso le ripa- razioni belliche. Lo stesso partito comunista romeno, conscio della sua relativa debolezza, si astenne dal proporre nazionalizzazioni o espropri di grave impatto sociale. La siccità e la successiva carestia del 1946-47, che nelle zone orientali del paese causò migliaia di vitti- me, scoraggiarono ulteriormente le autorità dall’aprire nuovi fronti di conflitto con la popolazione. Fino alla svolta del 1948 gli stessi sovie- tici esercitarono pressioni sui comunisti romeni affinché mantenessero l’economia in mani private, garantendo «margini ragionevoli di pro- fitto» ai capitalisti.

In Bulgaria, nel 1944, il partito comunista disponeva ancora della forza acquisita nel 1919-23 e di un prestigio internazionale (grazie so- prattutto a Dimitrov) incomparabilmente superiore a quello del con- fratello romeno. Assieme alla Cecoslovacchia, la Bulgaria era l’unico paese in cui solo una minoranza della popolazione nutriva sentimenti antirussi. La transizione bulgara presentò, tuttavia, caratteri assai più violenti, soprattutto nella prima fase seguita all’occupazione sovietica. Il nuovo governo, che comprendeva i rappresentanti di tutte le forze bulgare antinaziste ma era dominato dai comunisti, si impegnò con l’armistizio di Mosca del 28 ottobre 1944 a combattere i nazisti e a ristabilire l’ordine interno. I tribunali del popolo allestiti con lo scopo di giudicare i crimini di guerra si trasformarono in un’arma politica. Il governo avrebbe successivamente ammesso oltre 11.000 vittime causate dalla resa dei conti all’interno dell’esercito e dell’apparato sta-

tale, ma, secondo Crampton, la cifra reale potrebbe aggirarsi intorno ai 50-100.000. Nel 1946 vennero inoltre giustiziati 3 reggenti, 2 ex primi ministri, 26 ex ministri, decine di parlamentari e altre 2.000 persone. L’attacco indiscriminato alla destra riuscì a liquidare in po- chi mesi un’élite alternativa sopravvissuta senza perdite alla guerra e pose il movimento comunista in una posizione di enorme vantaggio rispetto ai suoi alleati e concorrenti (l’Unione agraria, i socialdemo- cratici e il movimento Zveno)63. Il principale oppositore in questa

fase rimase il leader agrario Nikolaj Petkov, che rifiutò il ruolo subor- dinato assegnatogli e scelse di boicottare le elezioni del 18 novembre 1945. Al voto partecipò soltanto il blocco del Fronte patriottico, che raccolse l’86% dei consensi. Come in Romania, anche nel caso bulga- ro il controllo sovietico della AACimpedì agli occidentali di interferire

nelle vicende politiche interne.

A Sofia il momento di svolta nella presa del potere da parte co- munista fu costituito dalla ratifica dei trattati di pace con le potenze occidentali nell’estate del 1947. La prima vittima fu Petkov, il quale, privato dell’immunità parlamentare, fu processato e condannato a morte il 23 settembre. L’Unione agraria, così decapitata, cadde sotto l’influenza ideologica del partito comunista. Alle successive elezioni, che si tennero il 27 ottobre 1947, in seguito al referendum sull’abro- gazione della monarchia che aveva costretto alla fuga lo zar Simeone, solo su pressione occidentale fu autorizzata la presenza dell’Unione agraria, privata tuttavia del suo leader carismatico, insieme a un’altra

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