Il 1956 in Polonia e Ungheria
5.1.2. CRISI E RIVOLUZIONE IN UNGHERIA
La rivoluzione ungherese che prese avvio sull’onda delle manifesta- zioni polacche fu l’esito di una crisi politica che durava dal 1953. All’inizio del 1956 gli stalinisti, guidati da Rákosi e Ger ˝o, riuscirono a emarginare il riformatore Nagy e i suoi seguaci, ma dopo il XX
Congresso del PCUS l’opposizione interna riprese vigore e trovò la
prima espressione pubblica nel circolo Pet ˝ofi, intitolato al poeta ro- mantico ungherese, che divenne il punto di riferimento degli intellet- tuali. Il 27 giugno 1956 il dibattito apertosi sulla libertà di stampa attirò migliaia di persone e si trasformò in una manifestazione non autorizzata. Ritenuto il principale responsabile delle illegalità e degli errori economici, nell’estate Rákosi fu abbandonato anche dal Crem- lino, costretto a dimettersi da segretario generale al plenum del 17-18 luglio ed esiliato in URSS, dove morì nel 19716. Le autorità di Buda-
pest commisero, tuttavia, un errore politico che pregiudicò la possi- bilità di un rinnovamento: ignorarono la richiesta dell’opposizione in- terna di un ritorno di Nagy al vertice del partito e sostituirono Ráko-
si con Ger ˝o, un funzionario dogmatico e implicato nella disastrosa politica rákosiana. Mentre in Polonia la credibilità del cambiamento era assicurata dalle concessioni e dalla popolarità del nuovo leader, in Ungheria la destituzione di Rákosi non spense e anzi alimentò l’in- soddisfazione popolare. Questa si nutriva di un doppio ordine di motivazioni: emotive e “nazionali”, legate alla presenza delle truppe di occupazione sovietica e allo sfruttamento dell’economia ungherese; e socioeconomiche, legate al crollo del tenore medio di vita rispetto al periodo prebellico.
Anche il quadro internazionale contribuì a destabilizzare la situa- zione. La popolazione era al corrente delle manifestazioni in corso in Polonia, guardava con speranza al ritorno di Tito nella comunità so- cialista e, soprattutto, interpretava erroneamente il trattato con l’Au- stria, il ritiro delle truppe sovietiche da quel paese e l’ammissione dell’Ungheria all’ONU del dicembre 1955 come eventi forieri di un
cambiamento. Al diffondersi di un clima di ingiustificata attesa con- tribuirono nel 1954-55 le ripetute azioni simboliche promosse dalla
NATO (i palloni aerostatici lanciati oltrecortina, carichi di volantini di
propaganda anticomunista) e le dichiarazioni ufficiali, rilanciate dai media internazionali, sulla necessità di liberare le “nazioni prigionie- re”. Dagli archivi statunitensi emerge, tuttavia, una politica più pru- dente: una direttiva del National Security Council del luglio 1956 escludeva l’eventualità di rivolte di massa in Europa orientale e invi- tava l’amministrazione ad appoggiare i movimenti di opposizione sen- za incoraggiare rivolgimenti radicali7. L’ingarbugliata situazione un-
gherese mise in allerta il rappresentante sovietico in Ungheria, l’am- basciatore Jurij Andropov, che coltivava una vasta rete di rapporti in- formali all’interno del partito ungherese e, pur avversando personal- mente Rákosi, tendeva ad appoggiarsi sul suo gruppo piuttosto che sui riformatori di Nagy8.
Il malcontento e le tensioni interne ed esterne al partito esplosero in autunno. Il 6 ottobre l’ex ministro dell’Interno, László Rajk, e altri esponenti comunisti caduti vittime delle purghe staliniste ricevettero nuove e solenni esequie alla presenza di una folla immensa e dei mas- simi dirigenti del partito, incluso Imre Nagy. A partire dal 16 ottobre lo stato di agitazione, amplificato dagli avvenimenti polacchi, si diffu- se all’università di Szeged e al politecnico di Budapest. Il 22 ottobre, gli studenti convocarono nella capitale un’assemblea nella quale ven- nero avanzate in 16 punti richieste sociali, politiche e simboliche (au- mento dei salari e delle borse di studio, libere elezioni, ritiro delle truppe sovietiche, reintroduzione dello stemma prebellico sulla ban- diera nazionale). Per il giorno successivo fu convocata una manife-
stazione di solidarietà con gli studenti polacchi. Le autorità seguirono una linea oscillante: in un primo momento vietarono, ma in seguito autorizzarono, la manifestazione, che divenne una marcia di protesta cui parteciparono decine di migliaia di persone, studenti e poi anche operai e impiegati rientrati dai turni di lavoro. Le proteste non si li- mitarono alla capitale: le prime vittime del movimento caddero nel pomeriggio a Debrecen, in un eccidio perpetrato dalle forze di sicu- rezza locali9.
Gli scontri armati iniziarono a Budapest nella serata del 23, dopo un raduno di 200.000 persone davanti al Parlamento. Nagy, invocato come l’unico possibile risolutore della crisi, stentò a entrare in sinto- nia con la folla, che l’apparente ritirata delle forze di sicurezza aveva riempito di coraggio: l’invito a tornare a casa e proseguire sulla strada delle riforme avviate nel 1953 ricevette un’accoglienza gelida. A qual- che chilometro di distanza, manifestanti abbattevano l’immensa statua di Stalin, simbolo dell’oppressione sovietica. I primi scontri armati esplosero davanti alla sede della radio, dove altri cittadini chiedevano la lettura del programma degli studenti ma dovettero, invece, ascolta- re un discorso di Ger ˝o, fortemente provocatorio nei confronti dei manifestanti. La responsabilità dell’avvio della repressione non ricade sulle truppe sovietiche, che entrarono a Budapest solo all’alba del 24 ottobre, dopo che nella tarda serata il Presidium del PCUS, informato
della situazione ungherese, ebbe deliberato su richiesta di Ger ˝o l’in- vio di truppe per soffocare la rivolta. Furono piuttosto le forze di sicurezza ungheresi a contrapporsi ai civili, armatisi grazie al saccheg- gio di alcune caserme cittadine. Nella notte Nagy venne nominato capo del governo, mentre le autorità ordinarono lo stato d’emergenza e il coprifuoco: un espediente che avrebbe consentito in seguito di identificare nel politico riformista il responsabile della repressione10.
L’esercito ungherese ricevette l’ordine di restare consegnato nelle ca- serme. Pochi furono i militari che seguirono l’esempio del colonnello Pál Maléter e della sua guarnigione, passati dalla parte dei rivoltosi il 28 ottobre.
L’apparato statale si disintegrò con una rapidità che sorprese tutte le parti in conflitto. Dal 24 al 31 ottobre Budapest visse in uno stato di guerra non dichiarata, nella quale la polizia politica ungherese, so- stenuta da contingenti sovietici numericamente consistenti ma impre- parati alla guerriglia urbana, combatteva violente battaglie contro gruppi di resistenti composti da civili ed ex militari stimati in 10-15.000 persone. Nella capitale i combattimenti furono spietati: alla strage di un centinaio di civili avvenuta davanti al Parlamento il 25 ottobre – seguita da altri eccidi compiuti a Miskolc e Mosonmagyaró-
vár e in altre decine di località – si rispose il 30 ottobre con il linciag- gio di una ventina di poliziotti e funzionari comunisti, compiuta dagli insorti dopo la conquista della sede del partito. In provincia la rivolu- zione ebbe un carattere meno violento e negoziato. In ogni centro urbano e capoluogo distrettuale si formarono comitati rivoluzionari che presero il controllo degli organi di governo. I funzionari comuni- sti più moderati e stimati dalla popolazione furono cooptati nelle nuove istituzioni11.
I protagonisti della rivolta (i comunisti riformisti, i cittadini in armi, gli operai, i contadini) nutrivano visioni diverse del socialismo e del multipartitismo e questa circostanza indebolì le possibilità di successo di un’insurrezione che nessuno aveva pianificato, né previ- sto. Imre Nagy fu chiamato al governo il 24 ottobre senza godere dell’appoggio sovietico e senza disporre di un apparato disposto a eseguire i suoi ordini; come ha sottolineato il suo biografo Rainer, fino ai primi giorni di novembre questi non guidò, ma piuttosto rincorse una rivoluzione antisovietica nella quale il funzionario re- duce da quindici anni tra le file dell’emigrazione moscovita stentava a identificarsi12. Il partito comunista aveva subìto un processo di
delegittimazione tale da vanificare gli effetti del cambio al vertice: nonostante Kádár sostituisse il 25 ottobre l’impopolare Ger ˝o, questi conservava sui sovietici un’influenza che utilizzò per complottare contro Nagy. Il 28 ottobre, dopo una trattativa serrata con gli in- viati sovietici Mikojan e Suslov, Nagy annunciò la formazione di un governo nazionale disposto ad accogliere alcune delle rivendicazioni dei rivoltosi: il ritiro dei contingenti sovietici dalla capitale, il cessa- te il fuoco, lo scioglimento della polizia politica, rimpiazzata da una nuova forza di sicurezza comprendente i rivoluzionari, e l’amnistia per tutti i combattenti.
Il 30-31 ottobre la rivoluzione giunse a una svolta e impose ai so- vietici una decisione sulle sorti dell’Ungheria. Premuto dall’opinione pubblica, il 30 ottobre Nagy annunciò la restaurazione del multiparti- tismo, formò un nuovo governo anche con i partiti della breve transi- zione democratica del 1945-47 e cercò di trasformare le milizie spon- tanee in una Guardia rivoluzionaria. Mikojan e Suslov approvarono i primi atti del secondo governo Nagy e spinsero il partito comunista a sciogliersi e a ricostituirsi, il 31 ottobre, come Partito socialista dei lavoratori ungheresi (Magyar Szocialista Munkáspárt – MSZMP), guida-
to da Kádár. Appena un ottavo degli 800.000 iscritti scelse di seguirlo nella svolta. Lo scenario internazionale subì nel frattempo un dram- matico mutamento. Il vertice sovietico, che nella riunione del 30 otto- bre aveva espresso fiducia nella capacità di Nagy di trasformarsi nel
“Gomu/lka ungherese”, sconfessò, nella notte successiva, la decisione
di ritirare le truppe dal paese. Sulla scelta sovietica influirono i timori per le posizioni polacche e jugoslave, apertamente solidali con i ri- voltosi ungheresi, cui si aggiunsero le notizie provenienti da Timi¸soa- ra, importante centro della Romania occidentale, dove il giorno 30 circa 2.000 studenti erano scesi in strada per solidarizzare con i colle- ghi ungheresi13. Agitazione era segnalata anche nelle aree a maggio-
ranza ungherese della Transilvania e della Slovacchia meridionale confinante con l’Ungheria. In entrambi i territori le autorità ordinaro- no la chiusura delle frontiere, disposero il coprifuoco e rafforzarono la censura.
Sul voltafaccia sovietico influirono non tanto le atrocità commesse dai rivoltosi il 30 ottobre quanto la contemporanea crisi internaziona- le di Suez. L’attacco israeliano alla Striscia di Gaza e alla penisola del Sinai ebbe inizio il 29 e fu seguito dall’occupazione militare delle truppe anglo-francesi del canale di Suez, intesa a rovesciare il regime filosovietico egiziano di Nasser. Chruˇsˇcëv motivò il secondo interven- to in Ungheria con la necessità, in tali circostanze, di mostrare de- terminazione nella difesa della propria sfera d’influenza14. Mentre un
imponente esercito sovietico avviava senza clamore l’invasione del- l’Ungheria orientale e cingeva d’assedio Budapest15 (1-3 novembre),
Chruˇsˇcëv intraprese un tour diplomatico che in tre giorni lo portò a Brest, per colloqui con Gomu/lka; a Bucarest, per incontrare i vertici
romeni (che offrirono addirittura il proprio contributo militare per schiacciare la rivolta), cecoslovacchi e bulgari; e infine a Brioni, in Jugoslavia, dove il 3 novembre ottenne il decisivo assenso di Tito. Come hanno sottolineato Charles Gati e Csaba Békés, la percezione sovietica della minaccia occidentale era infondata. Il segretario di Sta- to americano Dulles affermò, in un discorso tenuto il 26 ottobre, di non considerare le nazioni satellite dell’URSS potenziali alleati. Né la
leadership politica, né l’intelligence militare statunitensi nutrivano la volontà, o disponevano di mezzi sufficienti, di interferire nella situa- zione ungherese. La richiesta americana di discutere la situazione un- gherese al Consiglio di sicurezza dell’ONU non rappresentava una mi-
naccia agli interessi sovietici, quanto una concessione alla propria opi- nione pubblica16.
La decisione sovietica di reprimere la rivolta accelerò la sua radi- calizzazione. Nella speranza di ottenere il sostegno internazionale, il primo novembre Imre Nagy annunciò l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e proclamò la neutralità. Come ha notato il suo biografo, egli riuscì a portarsi in sincronia con le richieste popolari solo quan- do il destino della rivolta era già segnato. Nel frattempo Kádár, appe-
na nominato segretario del nuovo partito, scomparve e molti temette- ro un suo rapimento da parte sovietica. In realtà, si era recato all’am- basciata sovietica, dalla quale un volo speciale lo aveva trasportato in Unione Sovietica17. Prima di partire per la sua missione esteuropea,
Chruˇsˇcëv lo designò a capo del futuro regime. Le giornate dal primo al 3 novembre trascorsero in una calma irreale. Nella cittadina di Ki- skunhalas si tennero addirittura regolari elezioni per la formazione della nuova amministrazione comunale. Esse furono vinte dai piccoli proprietari con il 76% dei voti. I socialdemocratici conquistarono il 14% delle preferenze, i contadini il 6%, i comunisti il 4%: pratica- mente le stesse percentuali registrate alle elezioni del novembre 194518.
Nella capitale, la cui popolazione si era ormai illusa della vittoria, il primo novembre entrò in vigore il cessate il fuoco e si intensificò l’attività politica dei partiti disciolti nel 1948. Il 3 novembre, alla vigi- lia del secondo intervento sovietico, Nagy operò l’ultimo rimpasto go- vernativo. Nel suo terzo gabinetto entrarono il giurista István Bibó e, come ministro della Difesa, lo stesso colonnello Maléter. Il medesimo giorno il primate della Chiesa cattolica ungherese, Mindszenty, libera- to pochi giorni prima insieme ad altre centinaia di prigionieri politici, lesse alla radio un discorso di aspra condanna del regime comunista, nel quale domandò la riparazione dei torti compiuti ai danni della Chiesa cattolica (l’esproprio dei possedimenti agricoli e la chiusura delle scuole confessionali). Il discorso di Mindszenty si sarebbe con- quistato negli anni a venire la fama, largamente immeritata, di aver contribuito a delegittimare il governo Nagy.
Il secondo intervento sovietico annullò ogni margine di manovra. La sera del 3 novembre la delegazione ungherese che si apprestava a proseguire le trattative sul ritiro sovietico venne tratta in arresto dalle forze di sicurezza sovietiche. La mattina dopo, un’imponente opera- zione militare denominata “Tempesta” piegò in pochi giorni la resi- stenza dei civili e delle poche unità militari a disposizione degli insor- ti. L’ultima postazione, l’isola industriale di Csepel nei pressi di Bu- dapest, cadde l’11 novembre. Dopo aver lanciato la mattina del 4 no- vembre un appello radiofonico a proseguire la difesa, Nagy e altri di- rigenti di spicco si rifugiarono nell’ambasciata jugoslava. Nonostante l’immunità diplomatica accordata dal governo di Belgrado, il 22 no- vembre le forze speciali sovietiche arrestarono Nagy e i suoi seguaci e li trasferirono in una località romena presso Bucarest, dove vennero tenuti prigionieri per mesi (Nagy fino al febbraio 1958). Mindszenty si rifugiò presso l’ambasciata statunitense, dalla quale sarebbe uscito soltanto nel 1971.
Nel frattempo Kádár aveva lanciato il 4 novembre dalla città di Szolnok, già controllata dai sovietici, un appello per la costituzione di un «governo rivoluzionario operaio-contadino». Il 7 novembre i suoi sostenitori entrarono a Budapest scortati da unità militari sovietiche e iniziarono la ricostituzione delle strutture di potere comuniste. Il bi- lancio delle tre settimane di scontri registrò fra gli insorti oltre 2.500 morti e più di 10.000 feriti: oltre l’80% delle vittime apparteneva al ceto operaio e la metà di esse aveva meno di trent’anni. Le perdite sovietiche, soprattutto nella prima fase della rivolta, furono anch’esse gravi: 722 morti e quasi 1.500 tra feriti e dispersi19. Le zone centrali
di Budapest portarono per anni i segni delle devastazioni, mentre fino a dicembre, quando le autorità chiusero nuovamente i confini occi- dentali, quasi 200.000 persone lasciarono il paese attraverso l’Austria o la Jugoslavia. Al nuovo governo occorsero diversi mesi per afferma- re la propria autorità, oscurata dal contropotere dei consigli operai. Solo nella primavera del 1957, con l’intensificarsi della repressione dei reati connessi a quella che divenne nel lessico ufficiale la «con- trorivoluzione di ottobress, il regime di Kádár si avviò verso il con- solidamento.
La rivoluzione ungherese è stata oggetto, prima e dopo il 1989, di un ampio dibattito storiografico e civile. L’interpretazione ufficiale la bollò a lungo come un movimento controrivoluzionario fomentato dall’estero20, ma sin dagli anni settanta l’obiettivo principale del regi-
me kádáriano fu la rimozione della memoria storica sul 1956. Ai dis- sidenti e agli osservatori occidentali parve subito una rivolta antiso- vietica, democratica e nazionale, con uno scivolamento da posizioni inizialmente socialisteggianti a toni apertamente anticomunisti. Il con- troverso David Irving arrivò a sottolineare in un volume scritto dopo lunghi soggiorni “ufficiali” in Ungheria, nel quale utilizzò documenti riservati forniti dalle autorità comuniste, il suo carattere di insurrezio- ne antisemita21. Altri, come Bill Lomax e Ágnes Heller, evidenziaro-
no l’utopia umanitaria che ispirava i consigli operai e rivendicarono il carattere socialista della rivolta. L’interpretazione “operaista” del 1956 fu particolarmente osteggiata a livello ufficiale in quanto cancel- lava da sinistra il tentativo della propaganda kádáriana di sottovaluta- re il ruolo attivo della componente operaia non solo nelle settimane della rivoluzione, ma anche nel tentativo di difendere dopo il 4 no- vembe le sue principali conquiste22.
Dalle ricerche più recenti, guidate da un istituto budapestino di grande rigore scientifico, emerge l’estrema differenziazione delle posi- zioni politiche degli insorti: a parte un consenso indifferenziato sul- l’indipendenza nazionale e il distacco da Mosca, le loro aspirazioni
spaziavano dal socialismo antistalinista alla restaurazione della demo- crazia capitalistica, passando per la “terza via” dei populisti agrari. Il ruolo di Nagy, frettolosamente trasformato in martire e padre della patria dopo il 1989, viene discusso in modo riflessivo, evidenziando le contraddizioni del suo approccio alla rivoluzione o addirittura sottoli- neando la sua incapacità di frenare una rivolta temeraria destinata al fallimento o, al contrario, la scelta di non chiedere all’esercito unghe- rese di intervenire in favore della rivoluzione dopo il secondo inter- vento sovietico del 4 novembre. Nelle analisi acquista inoltre un’im- portanza sempre maggiore il contesto internazionale nel quale va col- locata la rivolta (l’indecisione sovietica, il ruolo ambiguo della Jugo- slavia, l’impatto sui paesi confinanti e i movimenti comunisti occi- dentali).
Il fallimento della rivoluzione avviò un processo di destrutturazio- ne sociale in cui la memoria pubblica imposta sul 1956 tentava di schiacciare quelle private. Resistere non aveva più senso; una vita normale sembrava valere più di una morte eroica. Per decenni, la sfe- ra privata restò l’unica sede depositaria della memoria soggettiva di una verità ufficialmente negata e umiliata. Il ricordo “segreto” del 1956 si trasmise non solo nell’emigrazione, ma clandestinamente an- che in Ungheria23. La memoria alternativa del 1956 perse tuttavia
gran parte della base sociale originaria (erano milioni gli ungheresi che ancora all’indomani della rivoluzione erano depositari di un ri- cordo positivo delle giornate di ottobre), per divenire patrimonio quasi esclusivo di piccoli gruppi di intellettuali.