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IL BLOCCO SOVIETICO FRA UNITÀ E CRIS

Repressione e consolidamento, 1956-

5.3.1. IL BLOCCO SOVIETICO FRA UNITÀ E CRIS

Repressione e consolidamento, 1956-67

5.3.1. IL BLOCCO SOVIETICO FRA UNITÀ E CRISI

Nel decennio successivo al 1956 i regimi comunisti dell’Europa orientale iniziarono a sviluppare politiche differenziate in diversi campi, dalla cultura all’economia, fino ai rapporti con l’Occidente. Il movimento comunista internazionale, monocratico sotto Stalin, si tra- sformò in un’entità policentrica, in cui la dialettica interna sfociava ormai in conflitti pubblici nonostante la dipendenza da Mosca34.

Per l’Europa orientale la fine degli anni cinquanta fu un periodo complesso, nel quale l’intensificazione della spinta repressiva, parti- colarmente evidente non solo nell’Ungheria postrivoluzionaria, ma anche in Romania e in Bulgaria, si unì al generale consolidamento dell’assetto socioeconomico. Società prevalentemente rurali ed eco- nomicamente arretrate subirono una modernizzazione distorta, che tuttavia le trasformò in organismi complessi, regolati da bisogni indi- viduali crescenti (casa, lavoro, assistenza sociale, educazione, ricrea- zione), cui lo Stato era chiamato a rispondere35. A eccezione della

Cecoslovacchia (1968) e della Polonia (1980-81), l’Europa orientale non conobbe dopo il 1956 movimenti di massa, rivolte o scontri di piazza paragonabili a quelli del decennio precedente. Le classi diri- genti comuniste iniziarono a trasformarsi in autentiche élite transna-

zionali, legate da interessi comuni ma divise su numerose questioni di natura economica e politica. Ai vertici della gerarchia comunista la rotazione dei quadri, frenetica e spesso violenta fino al 1956, si tra- sformò in una serie di reggenze pluridecennali: Tito in Jugoslavia (1945-80), Hoxha in Albania (1945-85), ˇZivkov in Bulgaria (1954- 89), Kádár in Ungheria (1956-88), Ceau¸sescu in Romania (1965-89), Ulbricht nella RDT (1950-71), Novotn´y in Cecoslovacchia (1953-68),

Gomu/lka in Polonia (1956-70).

Fino al 1961, in Ungheria l’affermazione del regime di Kádár si accompagnò a una vasta repressione politica che colpì non solo i par- tecipanti alla rivoluzione, ma anche gli oppositori “latenti” (ex poli- ziotti e ufficiali dell’esercito, religiosi, aristocratici). Fra il dicembre 1956 e il marzo 1963, quando un’amnistia generale segnò la fine delle repressioni di massa, le corti popolari comminarono 229 sentenze ca- pitali eseguite, oltre 20.000 condanne al carcere e 13.000 internamen- ti amministrativi della durata di uno-due anni. I principali protagoni- sti della rivoluzione, incluso il primo ministro Imre Nagy, furono im- piccati a Budapest il 16 giugno 1958 su espressa volontà di Kádár e del suo gruppo dirigente. Molti intellettuali furono arrestati e con- dannati per il ruolo svolto nel 1956: fra essi c’erano István Bibó e gli scrittori Tibor Déry, Gyula Háy, Tibor Tardos e Zoltán Zelk36. Nel

1959-60, anche centinaia di esponenti del clero cattolico che rifiutava- no di riconoscere il governo comunista furono arrestati e posti sotto inchiesta per sovversione. Il nuovo regime impiegò diversi anni per dotarsi di una legittimità di fronte a una popolazione in larga parte ostile. Come negli altri paesi del blocco ad eccezione della Polonia, fra il 1958 e il 1961 le campagne furono scosse da una seconda onda- ta di collettivizzazione, al termine della quale il 92% del terreno ara- bile ungherese fu rilevato dalle fattorie statali. Il regime di Kádár condusse tuttavia una politica agraria più flessibile e intelligente di quella dei primi anni cinquanta: ai contadini, che rappresentavano ol- tre un terzo della popolazione attiva, fu concesso di conservare un orto privato, gli attrezzi e gli animali domestici. Ai membri delle coo- perative fu estesa, nel 1961, la previdenza sociale e concessa una pen- sione di anzianità.

Nel dicembre di quell’anno, ispirato dalla campagna antistalinista di Chruˇsˇcëv, Kádár rovesciò al Congresso del Fronte popolare uno degli slogan preferiti di Rákosi («chi non è con noi è contro di noi») e prefigurò l’avvio di una fase di distensione. Nel 1962, al suo VIII

Congresso, il partito comunista contava ormai oltre 500.000 iscritti, quasi un decimo della popolazione adulta, e il segretario generale an- nunciò che l’Ungheria aveva ormai posto le basi della costruzione del

socialismo. L’idea di costruire, dopo aver eliminato ogni traccia di opposizione organizzata, un socialismo “inclusivo” e meno dogmati- co, che accogliesse chiunque ne accettava il programma minimo e non ne metteva in discussione la legittimità politica, fu accolta positi- vamente da una società stremata dalle guerre e dai rivolgimenti del secolo. La popolazione chiedeva al regime di poter progettare una vita normale, senza subire ingerenze e intimidazioni quotidiane da parte dello Stato. I simboli della normalità kádáriana divennero, nei primi anni sessanta, il prezzo calmierato del pane, fissato per quasi un ventennio a 3,60 fiorini il chilo, e la politica culturale ispirata al principio di «promuovere, tollerare, proibire», guidata dall’ideologo György Aczél. Nel 1958 il partito comunista aveva avviato una vio- lenta campagna per stroncare ogni residuo di nazionalismo. Sino alla fine degli anni sessanta il tema delle minoranze ungheresi all’estero e dei rapporti bilaterali con le altre democrazie popolari, assai sentito tra gli intellettuali populisti e molta gente comune con parenti e ami- ci oltreconfine, rimase ufficialmente tabù. In seguito, tuttavia, la cul- tura kádáriana sarebbe divenuta un curioso impasto di lealtà all’Unio- ne Sovietica e promozione di elementi della cultura nazionale, come il folklore, il canto corale, la tutela artistica e paesaggistica, che il regi- me considerava valori popolari non suscettibili di manipolazioni poli- tiche e rivendicazioni nazionaliste37.

Nel 1964 furono abrogate le restrizioni classiste che impedivano l’accesso all’istruzione superiore ai figli delle classi “sfruttatrici”, men- tre il 15 settembre dello stesso anno il governo ungherese colse anche quello che sarebbe rimasto uno dei più apparenti successi d’immagi- ne del regime kádáriano: la firma di un «accordo parziale» con la Santa Sede, il primo sottoscritto da un paese comunista con lo Stato pontificio, presso il quale andava affermandosi, sotto il papato di Giovanni XXIII, un orientamento al dialogo con i regimi comunisti

dell’Europa orientale38. Restò in sospeso – fino al 1971 – solo la que-

stione del cardinale Mindszenty, ospite sempre meno gradito della le- gazione statunitense a Budapest. L’intesa, il cui contenuto sarebbe ri- masto segreto per decenni, permetteva la nomina da parte di Roma di nuovi vescovi (generalmente graditi al governo e, in numerosi casi, in contatto con la polizia politica) e fissò i rapporti tra lo Stato e la Chiesa. L’accordo fu sfruttato ampiamente dal governo ungherese, che si accreditò in senso liberale nonostante il persistere della repres- sione antireligiosa e, soprattutto, contribuì a porre fine alla resistenza passiva dei cattolici, sconfessando i movimenti di base ostili alla ge- rarchia ecclesiastica compromessa con il regime, come era successo in Cecoslovacchia a partire dagli anni cinquanta39.

In Romania, il regime di Gheorghiu-Dej approfittò degli echi del- la rivoluzione ungherese del 1956, più forti tra la popolazione di na- zionalità ungherese della Transilvania, per ridurre definitivamente al silenzio gli oppositori politici e i gruppi sociali più riluttanti al socia- lismo: i contadini e la piccola borghesia urbana. Il numero totale de- gli arresti di natura politica nel periodo 1956-61 ammontò a quasi 30.000. Nei soli anni 1957-59 i tribunali militari competenti per i rea- ti legati ad «attività controrivoluzionaria» (una categoria omnicom- prensiva in cui rientravano il passaggio illegale della frontiera o la de- tenzione abusiva di oggetti preziosi) pronunciarono più di 9.500 con- danne, oltre 50 delle quali alla pena capitale e centinaia ai lavori for- zati a vita40. Oltre 200 detenuti morirono in carcere durante gli in-

terrogatori, mentre altre centinaia non sopravvissero alle terribili con- dizioni di vita efficacemente descritte dalla memorialistica. Le testi- monianze pervenuteci sull’universo carcerario romeno del periodo 1957-64 (anno dell’amnistia che liberò quasi 20.000 detenuti politici) indicano una composizione eterogenea per etnia, religione, convinzio- ni politiche e condizione sociale, sia nelle prigioni di raccolta, come Gherla e Jilava, sia nei campi di lavoro sul delta del Danubio. I dati d’archivio attestano tuttavia una particolare durezza delle condanne inflitte nei processi che videro coinvolti “controrivoluzionari” di etnia ungherese e tedesca, soprattutto a partire dal 195841.

Proprio nella politica attuata nei confronti delle minoranze nazio- nali il governo di Bucarest marcò dalla fine degli anni cinquanta una forte discontinuità con le pratiche del primo decennio. Come ha sot- tolineato Lucian Boia, con la conclusione della fase «antinazionale» il regime cercò un sostegno ideologico che sostituisse l’internazionali- smo della prima ora, e lo trovò nei principi che presiedevano ai rap- porti tra russi e non russi in Unione Sovietica42. L’idea che il campo

socialista costituisse un insieme di patrie nazionali persuase il regime romeno, a ridurre gli spazi di autonomia delle popolazioni allogene. Gli ungheresi, in particolare, avevano goduto nei primi anni di nume- rosi privilegi culturali e amministrativi (la regione autonoma creata nelle zone seclere nel 1952), e dominavano ancora, sul piano sociale, i centri urbani della Transilvania. Prendendo spunto dalla nuova legi- slazione scolastica sovietica, nel 1959 Gheorghiu-Dej e il suo delfino Nicolae Ceau¸sescu unificarono le università di lingua romena e un- gherese della capitale culturale transilvana, Cluj, nonostante l’opposi- zione dell’élite comunista di nazionalità ungherese. Il risultato fu la creazione di una nuova struttura formalmente bilingue ma, in realtà, dominata dall’elemento romeno. Nel 1959-60 una campagna di rome- nizzazione condusse all’accorpamento delle scuole di lingua unghere-

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