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CRISI POLITICHE E CONSOLIDAMENTO SOCIALE , 1956-

Repressione e consolidamento, 1956-

5. CRISI POLITICHE E CONSOLIDAMENTO SOCIALE , 1956-

se e tedesca in istituti di lingua esclusivamente romena, mentre nel dicembre 1960 i confini della Regione autonoma ungherese furono ri- disegnati per accogliervi distretti a maggioranza romena. La lotta al “separatismo culturale” delle minoranze costituì la premessa ideologi- ca della svolta nazionalcomunista compiuta da Ceau¸sescu dopo la sua ascesa al potere, nel 196543. Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio

degli anni sessanta, una capillare epurazione eliminò dai gangli sensi- bili dell’apparato statale (economia, servizi segreti, alte istituzioni cul- turali) la maggior parte dei quadri di origine ungherese e, soprattutto, ebraica. Nel gennaio 1958 il governo riaprì i canali dell’emigrazione ebraica, chiusi nel 1952, e strinse un accordo con Israele. Fino al 1965 oltre 100.000 ebrei lasciarono il paese per stabilirsi in Israele; altre migliaia emigrarono negli Stati Uniti e in Europa occidentale. L’esodo della comunità ebraica fu solo parzialmente spontaneo: le au- torità crearono attorno agli ebrei un clima ostile (attacchi sulla stam- pa, intimidazioni sul posto di lavoro, sanzioni amministrative e pro- cessi penali) con l’obiettivo di accelerare il ricambio etnico delle éli- te44.

La politica estera del regime di Gheorghiu-Dej mirò ad ampliare i margini di autonomia del paese, uno sforzo in sintonia con la strate- gia sovietica fino all’inizio degli anni sessanta. Nel maggio 1958 Chru- ˇsˇcëv annunciò il ritiro delle truppe sovietiche (35.000 effettivi) dalla Romania, ritenuta un alleato affidabile e facilmente difendibile in caso di attacco, e il taglio di altri 84.000 militari dai contingenti sovietici stanziati nella RDT, in Polonia e in Ungheria. La mossa sovietica ac-

compagnava il parallelo ritiro delle forze militari cinesi dalla Corea del Nord e tentava vanamente di stimolare un analogo passo della

NATO in Europa occidentale. Il ritiro del contingente militare dalla

Romania, considerato da molti analisti il primo tassello della politica di indipendenza del regime di Bucarest, non significò un completo disimpegno: come ha notato Dennis Deletant, Mosca conservò basi aeree e navali sul territorio romeno e le divisioni schierate nella re- pubblica sovietica della Moldova, oltre il fiume Prut, e in Ucraina meridionale45. L’abilità di Gheorghiu-Dej consistette nel presentare

una concessione sovietica come il frutto di un’autonoma scelta di po- litica estera. I rapporti con l’Unione Sovietica entrarono in seria crisi nel 1964 con la pubblicazione, da parte del partito romeno, delle “Tesi di aprile”, una dichiarazione programmatica che rivendicava pari diritti per tutti i partiti comunisti, negando la supremazia sovieti- ca. Il conflitto ideologico con Mosca nascondeva tuttavia, come ve- dremo in seguito, motivazioni di ordine economico e strategico, e non portò a una rottura definitiva. Con la morte di Gheorghiu-Dej e

l’elezione a primo segretario del partito del suo delfino Nicolae Ceau- ¸sescu, nel marzo 1965, la Romania impostò una politica del doppio binario: limitata cooperazione all’interno del blocco sovietico, attivi- smo nei confronti dell’Occidente e dei paesi in via di sviluppo.

Mentre sul piano interno cresceva la pressione dello Stato sui cit- tadini (la collettivizzazione agricola, ripresa nel 1958, fu completata nel 1962) e il controllo poliziesco si faceva sempre più stringente (la Securitate disponeva di 15.000 informatori nel 1956, saliti a 43.000 nel 1961 e a oltre 119.000 nel 1967)46, Bucarest normalizzò prima di

altri paesi socialisti le relazioni diplomatiche e commerciali con gli Stati Uniti, con i quali firmò nel 1964 un sostanzioso accordo di coo- perazione, e le altre potenze occidentali. Il regime romeno fu il primo del blocco orientale a riconoscere, nel 1967, la Germania Ovest e l’u- nico a non interrompere i rapporti diplomatici con Israele dopo la guerra dei Sei giorni (5-10 giugno 1967), in cui lo Stato ebraico scon- fisse la coalizione araba formata da Egitto, Siria e Giordania, sostenu- ta dall’Unione Sovietica. Una tale lungimiranza aveva solide ragioni economiche: lo storico Radu Ioanid ha calcolato in centinaia di milio- ni di dollari annui il profitto realizzato fino al 1989 dallo Stato rome- no attraverso la “vendita” delle proprie minoranze allo Stato d’Israele e (ufficialmente dal 1978) alla Germania Occidentale47.

In Bulgaria il XX Congresso del PCUS ebbe un impatto maggiore

sulle dinamiche politiche interne. Al plenum dell’aprile 1956 Todor ˇZivkov, eletto primo segretario del partito nel 1954, consolidò il pro- prio potere costringendo alle dimissioni il primo ministro Vulko Ve- lev ˇCervenkov. La rivoluzione ungherese troncò, tuttavia, ogni tenta- tivo di liberalizzare il regime. La repressione raggiunse un nuovo pic- co nel 1957-58 e decrebbe solo nel 1964 in conseguenza di un’amni- stia generale che portò alla liberazione di migliaia di detenuti politici, molti dei quali passati attraverso l’esperimento della «rieducazione at- traverso il lavoro» condotto nelle ex cave di pietra di Loveˇc48. Negli

stessi anni il regime di Sofia attuò una politica economica simile a quella sovietica. La collettivizzazione agricola procedette speditamen- te, benché mitigata da provvedimenti intesi a conservare una micro- proprietà contadina e il possesso degli animali. Ancora nel 1958 la metà della carne e del latte prodotto nel paese proveniva da questi appezzamenti privati. Nel settore industriale, il cui sviluppo si trovava ancora in fase embrionale, una relativa moderazione contraddistinse il terzo piano quinquennale, varato all’inizio del 1958 e marcato dall’at- tenzione all’industria alimentare e ai beni di consumo. Il viaggio com- piuto nell’ottobre-novembre dai vertici dello Stato in Cina, al quale seguì la decisione di emulare i cinesi nel loro «grande balzo in avan-

ti», portò tuttavia a una radicale revisione del piano e intensificò i conflitti interni alla leadership. Questi si conclusero nel 1962 con la vittoria di ˇZivkov, sostenuto dai sovietici, sul primo ministro Anton Jugov49.

Come in Romania, verso la fine degli anni cinquanta anche in Bulgaria riemerse, su ispirazione sovietica, il tema della questione na- zionale. Il censimento del 1956 aveva registrato quasi 200.000 perso- ne di origine macedone (soprattutto nel distretto di Petriˇc, in prossi- mità del confine con l’attuale Repubblica di Macedonia). Riprenden- do la politica di assimilazione culturale del periodo interbellico, il go- verno esercitò dure pressioni affinché la popolazione locale si dichia- rasse bulgara. Ciò contribuì a raffreddare nuovamente le relazioni con la Jugoslavia, che Sofia aveva normalizzato nel 1955-56. Al suc- cessivo censimento appena 8.000 persone osarono sfidare le autorità affermando la propria identità macedone50. Conseguenze ancora più

gravi ebbe il cambio di politica adottato verso la fine degli anni cin- quanta nei confronti delle popolazioni di religione musulmana, circa 750.000 nel 1965 (turchi della Dobrugia meridionale; pomacchi, bul- gari cristiani convertitisi all’islam nei secoli del dominio ottomano, e rom). Il plenum del CC del partito convocato nel 1958 decretò l’abo-

lizione delle scuole separate in lingua turca, trasformate in istituti bi- lingui e in seguito “bulgarizzate”. Restrizioni crescenti vennero, inol- tre, applicate alla pratica religiosa e alla vita culturale (scioglimento di associazioni, chiusura di teatri, proibizione dei toponimi turchi negli organi di stampa). Nel 1964, quando la lingua turca era già stata ban- dita dalle scuole di ogni ordine e grado, le autorità avviarono una campagna di bulgarizzazione dei nomi dei pomacchi dei Rodopi occi- dentali, che si arrestò soltanto di fronte all’energica resistenza oppo- sta dalle popolazioni coinvolte. Le relazioni con la vicina Turchia, già difficili a causa della guerra fredda, conobbero un ulteriore raffredda- mento. Le autorità di Ankara ricevettero nel 1962-63 quasi 400.000 domande di espatrio presentate da cittadini bulgari. Solo nel 1968, su insistenza sovietica, la Bulgaria accettò di firmare con la Turchia un accordo bilaterale che, oltre a normalizzare i rapporti diplomatici e agevolare il commercio, consentì a 130.000 persone di trasferirsi dalla Bulgaria alla Turchia51.

Le contraddizioni politiche del periodo chrusceviano, sospeso tra aperture e irrigidimenti, influenzarono profondamente anche l’evoluzione politica in Polonia, Cecoslovacchia e soprattutto Ger- mania Orientale. Il leader polacco Gomu/lka deluse presto gran

parte delle aspettative da lui suscitate. Le riforme politiche ed eco- nomiche furono bloccate all’inizio degli anni sessanta nonostante i

filosofi “revisionisti”, guidati da Leszek Ko/lakowski (il cui saggio

Responsabilità e storia, del 1957, resta l’espressione più compiuta

della riflessione che accompagnò l’ottobre polacco), demolissero pubblicamente il ruolo guida del partito unico e sfidassero il ma- rxismo dogmatico. Il regime polacco reagì all’emergere del malcon- tento sociale con l’accentuazione di una propaganda nazionalista diretta, in particolare, contro la Germania Ovest, che rifiutava di riconoscere la frontiera dell’Oder-Neisse. Parallelamente, a partire dal 1964, si rafforzò nel partito comunista una fazione, guidata dal ministro dell’Interno Mieczys/law Moczar, formata da quadri dal

passato partigiano e di origine operaia. Il gruppo si distinse per un violento anti-intellettualismo dai contorni antisemiti. Due giovani intellettuali, Jacek Kuro ´n e Karol Modzelewski, scrissero allora una

Lettera aperta al Partito, in cui criticavano, sulla scorta di –Dilas, la burocratizzazione e il carattere classista di un regime occupato più ad arricchire i suoi dirigenti che a migliorare le condizioni di vita della popolazione. L’anno seguente gli autori furono condannati a diversi anni di prigione. La sconfitta araba nella guerra dei Sei giorni (giugno 1967) radicalizzò ulteriormente l’anti-intellettualismo antisemita di una parte del gruppo dirigente legato a Gomu/lka.

Moczar non esitò a sfruttare i moti studenteschi del marzo 1968 per scatenare una campagna “antisionista” che costrinse oltre due terzi dei circa 40.000 ebrei rimasti in Polonia a lasciare il paese, dopo averli privati della cittadinanza e del lavoro52. L’esodo coin-

volse alcuni fra gli intellettuali polacchi più prestigiosi, come lo stesso Ko/lakowski.

In Cecoslovacchia il 1956 rappresentò, secondo Muriel Blaive, un’occasione mancata per avviare una riforma del sistema. A diffe- renza della Polonia e dell’Ungheria, dove in tempi e modi differenti le classi dirigenti tentarono di reagire alla sfida della piazza, il regime di Novotn´y non si trovò costretto a rivedere i cardini della politica stalinista53. Le scarse manifestazioni di solidarietà con la rivolta un-

gherese, limitate alla Slovacchia meridionale a maggioranza etnica un- gherese, provocarono arresti e condanne ma si spensero senza lasciare traccia. Sino alla seconda metà degli anni sessanta la Cecoslovacchia costituì, insieme alla Bulgaria e alla RDT, l’alleato più affidabile del-

l’URSS. Precedendo di alcuni anni gli altri Stati del blocco sovietico,

Praga varò nel 1960 una nuova Costituzione che definiva il paese uno «Stato socialista» basato sull’alleanza di operai, contadini e intellet- tuali, sotto la guida del partito comunista. Più rilevante e carica di conseguenze politiche fu, invece, la limitazione dell’autonomia slovac- ca e la riorganizzazione in senso centralista della burocrazia, forte-

mente voluta da Novotn´y. Il ramo slovacco del governo fu abolito e le sue funzioni assegnate al Presidium del Consiglio nazionale slovac- co, un organo privo di potere54. Il provvedimento seguiva una serie

di purghe condotte fra gli intellettuali slovacchi e suscitò una protesta che negli anni sessanta assunse rilevanza nazionale. Nel 1962 il rifor- mista Alexander Dubˇcek divenne segretario del Presidium e nel 1963 fu eletto primo segretario della sezione slovacca del partito, superan- do i candidati favoriti da Praga. L’ascesa di Dubˇcek si accompagnò all’avvio di una cauta liberalizzazione culturale, i cui primi segnali fu- rono la riabilitazione di Kafka (1963), bollato in precedenza come de- cadente, e l’uscita di un film satirico poi premiato con l’Oscar al mi- glior film straniero, Treni strettamente sorvegliati (1966), prodotto da Jiˇrí Menzel su adattamento di un racconto di Bohumil Hrabal. La storiografia ceco-slovacca avrebbe in seguito definito questo fermento culturale pˇredjaro (periodo che precede la primavera)55. Nel 1963

un’amnistia politica portò alla liberazione di migliaia di detenuti poli- tici e prigionieri comuni. La politica economica mantenne, al contra- rio, caratteri di forte rigidità. La collettivizzazione proseguì in modo sistematico, senza concessioni ai coltivatori. Il piano quinquennale 1960-65, che prevedeva un consistente aumento della produzione agricola, fallì a causa di fattori climatici e soprattutto organizzativi. L’industria pesante risentì, a sua volta, delle disfunzioni legate alla pianificazione centralizzata, che le misure di razionalizzazione adotta- te nel 1958 non avevano scalfito. Proprio la Cecoslovacchia, il paese più industrializzato e moderno del blocco sovietico, registrò nel 1962-63 un calo del prodotto interno lordo, mentre la bilancia com- merciale accusava un forte passivo e il paese era costretto a indebi- tarsi con l’estero per assicurare alla popolazione i beni di consumo essenziali. La mancata destalinizzazione politica e culturale, unita a fattori sociali quali il mancato aumento dei salari, alimentarono un malcontento che sarebbe sfociato nel tentativo riformatore del 1967-68.

In Germania Orientale, il decennio che precedette il 1968 rap- presentò, soprattutto a seguito all’edificazione del Muro, nel 1961, un periodo di consolidamento ritardato delle strutture di potere del regime comunista. Negli anni cinquanta la RDT aveva dovuto af-

frontare una doppia crisi di legittimità: interna, dovuta al continuo flusso di rifugiati verso ovest; ed esterna, legata al mancato ricono- scimento diplomatico da parte della Germania Ovest, considerata dal mondo occidentale l’unico Stato tedesco legittimo. Secondo la dottrina elaborata nel 1955 dal diplomatico Walter Hallstein, Bonn non avrebbe riconosciuto – a eccezione di quello sovietico – i go-

verni che intrattenessero rapporti diplomatici con Berlino Est. Se per il riconoscimento reciproco si dovette attendere l’Ostpolitik, promossa a partire dal 1969 dal cancelliere socialdemocratico ed ex sindaco di Berlino Ovest, Willy Brandt, la stabilizzazione del regi- me comunista tedesco-orientale costituì la priorità della politica di Ulbricht. Quella che Mary Fulbrook definisce la «normalizzazione» del regime, negli anni sessanta e settanta, costituì una complessa transizione verso un «totalitarismo inclusivo», tollerato e interioriz- zato dalla grande maggioranza della popolazione56. Nonostante la

crisi economica che colpì la RDT alla fine degli anni sessanta, con-

tribuendo all’avvicendamento al vertice fra l’anziano Ulbricht ed Erich Honecker, il decennio offrì a una popolazione stanca di con- flitti e privazioni una prospettiva di modernizzazione e moderato benessere. Nel 1970 oltre il 70% dei tedesco-orientali abitava in città e oltre la metà di essi possedeva un televisore, un frigorifero e una lavatrice: percentuali assai più elevate che in qualunque altro paese socialista57. Al tempo stesso, il regime di Berlino Est si av-

viava a diventare, sotto il profilo ideologico, un modello di immo- bilismo e rigidità. La polizia politica operava in stretta simbiosi con le autorità sovietiche e si affermò come la più occhiuta ed efficien- te del blocco orientale.

5.3.2. IL SOCIALISMO AL DI FUORI DEL BLOCCO: JUGOSLAVIA E ALBANIA

Negli anni sessanta l’unità del blocco socialista intorno all’Unione So- vietica, messa alla prova dall’eresia jugoslava e dalla rivoluzione un- gherese, si ruppe definitivamente a seguito del deterioramento dei rapporti fra il PCUS e il partito cinese. Si trattava di dissidi ideologici

(Pechino accusava Mosca di revisionismo rispetto alla via maestra del leninismo nel processo di distensione con l’Occidente), strategici (Mosca non appoggiò Pechino nel conflitto con l’India) ed economi- ci. Mao avviò nel 1958 la politica del «grande balzo in avanti» e la collettivizzazione integrale dell’agricoltura, un esperimento che costò la vita, entro il 1961, a decine di milioni di persone. Nel 1960 i sovie- tici ritirarono i propri consiglieri dalla Cina; l’anno seguente i cinesi definirono la leadership sovietica «un gruppo revisionista traditore» e i sovietici replicarono bollando Mao e i suoi seguaci come avventuri- sti e nazionalisti. Nel 1962 i due partiti ruppero i rapporti e nel 1969 il conflitto fra i due principali paesi comunisti degenerò in uno scon- tro armato sul fiume Ussuri. Il conflitto sino-sovietico, in cui Tito

non si schierò dalla parte di Mosca, contribuì a porre fine alla ri- conciliazione di Mosca con Belgrado. Al VIICongresso della Lega dei

comunisti jugoslavi (aprile 1958) Tito rilanciò il modello di autoge- stione economica attraverso un programma di riforme che i sovietici condannarono come revisioniste al XXI Congresso del PCUS, nel gen-

naio 1959. Il raffreddamento dei rapporti non si trasformò, tuttavia, in una seconda guerra fredda all’interno del campo socialista. Nei primi anni sessanta Chruˇsˇcëv riavvicinò la Jugoslavia al blocco sovie- tico e, nei decenni successivi, il rapporto Mosca-Belgrado si sarebbe stabilizzato su livelli accettabili di cooperazione economica e, in misu- ra più limitata, politica. In generale, i periodi di conflitto coincisero in Jugoslavia con l’accentuazione delle dinamiche riformatrici interne, mentre a ogni riconciliazione con Mosca seguiva una stretta repressi- va sul piano ideologico58.

Sul piano socioeconomico il modello jugoslavo si affermò come un esempio invidiato dagli altri paesi dell’Europa orientale. Dopo lo smantellamento delle strutture gerarchiche e piramidali di tipo sovie- tico e la creazione di consigli operai e comitati di gestione elettivi, che elaboravano nelle imprese i piani di lavoro, decidevano sul rein- vestimento dei profitti e regolamentavano la differenziazione salariale in base alla produttività, nel 1957-65 una serie di provvedimenti legi- slativi creò le premesse di un effettivo decentramento amministrativo. La gestione degli apparati burocratici (fatta eccezione per una man- ciata di ministeri, primo fra tutti la Difesa) fu trasferita alle repubbli- che, mentre il management delle imprese ottenne una libertà quasi as- soluta sull’allocazione dei profitti. Sotto la categoria «proprietà socia- le» furono riversati i beni di proprietà collettiva, cooperativa e quelli delle fabbriche autogestite, eliminando il concetto di proprietà statale perfino in relazione al demanio. Il controllo statale fu limitato ai set- tori della difesa nazionale e degli investimenti infrastrutturali, dello sviluppo regionale, della ricerca scientifica, alla politica dei prezzi, in- fluenzata tramite l’acquisto e la vendita di scorte di merci, e nella ge- stione del commercio estero e dello scambio di valuta59.

La Costituzione promulgata nell’aprile 1963 fu soprannominata anche “Carta dell’autogestione”, mentre la riforma economica varata nel 1965 su ispirazione del teorico e numero due del regime, Kardelj, liberalizzò buona parte dei prezzi, accentuò ulteriormente l’autono- mia gestionale a tutti i livelli e in tutti i settori produttivi e soprattut- to abolì il sostegno statale alle aziende improduttive, una misura che avrebbe provocato l’emergere di una forte disoccupazione e dure cri- tiche nelle repubbliche meridionali, le principali beneficiarie del fon- do di solidarietà federale. Visitando la Jugoslavia nell’estate 1959, il

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