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LA “ GRANDE ROMANIA ”

Vincitori e sconfitti: Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria

1.5.2. LA “ GRANDE ROMANIA ”

La Romania uscì dal primo conflitto mondiale come uno dei princi- pali beneficiari del nuovo assetto europeo. Dopo aver assunto inizial- mente, pur alleata degli imperi centrali, una posizione di neutralità, nel 1916 cambiò alleanza e, seguendo l’esempio italiano, entrò in guerra a fianco della Russia e dell’Intesa. Quest’ultima promise allo Stato balcanico le regioni ungheresi della Transilvania e del Banato. La disfatta militare subita in autunno, alla quale seguì l’occupazione militare di Bucarest, costrinse tuttavia re Ferdinando, salito al trono nel 1914, a firmare nel dicembre 1916 una pace separata con l’Au- stria-Ungheria e la Germania. Pochi pensavano che, due anni più tar- di, gli imperi centrali avrebbero deposto le armi e la Romania sareb- be entrata in possesso di ampi territori appartenenti all’Ungheria (Transilvania, Banato e Maramure¸s), all’ex impero zarista (Bessara- bia), all’Austria (Bucovina) e alla Bulgaria (Dobrugia meridionale, detta anche Cadrilater).

Particolarmente importante fu l’incorporazione dei territori ex un- gheresi (oltre 100.000 km2, sui 295.000 complessivi della “Grande

Romania”), economicamente sviluppati e abitati da più di 5 milioni di persone, oltre la metà delle quali di origine romena. Fino al 1920 la Transilvania venne amministrata da un governo provvisorio con sede a Sibiu e successivamente a Cluj. In seguito, però, l’autonomia di cui i nuovi territori avevano goduto in un primo tempo venne cancellata

dalle autorità centrali in nome della costruzione di uno Stato “unita- rio e indivisibile”, come prescriveva la nuova Costituzione approvata nel 1923.

La Romania era e rimase sino alla fine della Seconda guerra mondiale uno Stato multinazionale e multiconfessionale: secondo il censimento del 1930, il 72% dei 18 milioni di abitanti si dichiarava di nazionalità romena, l’8% ungherese, il 4% rispettivamente tede- sco ed ebreo, il 3,2% ucraino o ruteno, il 2,3% russo, il 2% bulga- ro e rom; esistevano poi importanti comunità serbe, armene e slo- vacche nei territori ex ungheresi, turche in Dobrugia, tatare e ga- gauze in Bessarabia56. In Transilvania e nel Banato quasi tutte le

principali città avevano una salda maggioranza ungherese o tedesca, mentre in Moldavia e Bessarabia grandi comunità ebraiche popola- vano non solo i centri urbani (ad esempio Ia¸si e Chi¸sin ˘au, dove gli ebrei formavano quasi la metà della popolazione), ma anche le cam- pagne, come nella Galizia polacca57. I trattati di pace segnarono

una svolta nei rapporti con la sempre più vasta comunità ebraica (quasi 800.000 persone alla fine degli anni trenta): su pressione in- ternazionale la Costituzione del 1923 riconobbe automaticamente la cittadinanza romena a quegli ebrei cui era stata precedentemente negata e che venivano considerati apolidi, privi di qualunque diritto civile e politico. Anche sul piano religioso la “Grande Romania” conobbe profonde trasformazioni. Accanto alla religione cristiano- ortodossa si rafforzarono diversi culti minoritari: quello romano-cat- tolico, praticato da ungheresi, tedeschi e anche romeni e quelli evangelico-luterano e calvinista, praticati dagli ungheresi o dalla stessa popolazione romena. Il culto greco-cattolico (uniate, ovvero “unito a Roma”) era praticato da 1,5 milioni di romeni transilvani e riuniva buona parte dell’élite politica locale. L’arcivescovado di Blaj svolgeva dal Settecento un ruolo fondamentale nell’acculturazione e nella presa di coscienza nazionale dei romeni. Il rapporto fra le principali confessioni “romene” era viziato da incomprensioni che andavano oltre le differenze teologiche e implicavano la delicata questione del rapporto fra religione e politica. Per quanto devoti al- l’idea nazionale romena, i greco-cattolici, fedeli al papa di Roma e già vicini alla corte asburgica viennese, venivano pubblicamente so- spettati di una visione troppo laica. Come scrisse nel 1930 un noto intellettuale vicino alla destra radicale, Nae Ionescu, solo un orto- dosso poteva definirsi un «autentico» romeno, in quanto avrebbe così condiviso i valori fondanti dell’identità nazionale58. Tale con-

mondiale, con l’unificazione forzata della Chiesa uniate in quella ortodossa, decretata nel 1948 su ispirazione sovietica.

L’era interbellica rappresentò per la Romania un periodo com- plesso, ricordato per lo slancio economico che l’unificazione dette alla modernizzazione e all’urbanizzazione del paese (la capitale Bucarest raddoppiò il numero dei suoi abitanti, raggiungendo nel 1941 gli 800.000 e meritandosi l’appellativo di “piccola Parigi”), ma anche per le irrisolte contraddizioni legate all’incapacità dello Stato romeno di integrare i suoi nuovi cittadini. La Costituzione del 1923 definiva lo Stato una monarchia costituzionale, dotata di un Parlamento bicame- rale. La Camera bassa veniva eletta a suffragio universale maschile, mentre il Senato constava di membri designati dalla famiglia reale e da diversi organi culturali, economici e religiosi. Il ventennio conobbe tre grandi periodi di governo: liberale nel 1922-28, nazional-contadi- no nel 1928-32 e nuovamente liberale fino al 1938. I principali partiti riflettevano, nella loro composizione e negli obiettivi, le grandi diver- sità regionali. Il partito nazionale liberale (PNL), guidato dalla famiglia

Br˘atianu, aveva la sua base elettorale fra la borghesia finanziaria e in- dustriale della capitale. Nel primo periodo di governo (1922-28), che seguì un triennio di caos politico e sociale, i liberali si proposero di centralizzare lo Stato, sopprimendo le autonomie locali e conducendo una politica minoritaria fortemente discriminatoria soprattutto nei confronti degli ungheresi, duramente colpiti dalla riforma agraria del 1921. Il loro principale avversario rimase sino alla fine degli anni trenta il partito nazionale contadino (PN ‚T), guidato da Iuliu Maniu e

creato nel 1926 dalla fusione del partito nazionale romeno, attivo nel- la Transilvania asburgica, e di quello contadino della Bessarabia. Mentre i liberali cercavano una soluzione all’arretratezza del paese in una politica economica autarchica e nel rafforzamento dell’industria nazionale, il governo di Maniu praticò una politica liberoscambista, favorevole all’ingresso di capitale e tecnologia stranieri nella fragile economia romena59. I nazional-contadini, inoltre, corressero le stortu-

re centralizzatrici con la riforma amministrativa del 1929 e cercarono un accordo con le minoranze nazionali, dimostrandosi sensibili alla difficile integrazione dei territori ex asburgici in uno Stato dotato di una cultura amministrativa decisamente più primitiva.

Accanto al partito popolare del generale Alexandru Av ˘arescu, di orientamento centrista ed elettoralmente rilevante solo negli anni venti, e ai partiti che rappresentavano le minoranze nazionali (un- gherese, tedesca, ebraica), a partire dal 1931 conquistò uno spazio parlamentare l’estrema destra, con la Lega per la difesa cristiano-na- zionale, fondata nel 1923 dal giurista Alexandru C. Cuza. Ad essa,

nella seconda metà degli anni trenta, si sarebbe afficancata la ben più consistente e radicale Guardia di ferro (fino al 1930, Legione dell’arcangelo Gabriele), un partito-movimento carismatico paramili- tare fondato da un leader studentesco vicino a Cuza, Corneliu Zelea Codreanu. Tra le sue parole d’ordine si trovano riferimenti alla spiri- tualità ortodossa e alla cultura ultranazionalista e antisemita tipica della pubblicistica di estrema destra del periodo, ma anche una sen- sibilità sociale simile a quella del populismo russo ottocentesco del- l’“andata al popolo”. I legionari romeni costituivano – caso unico nell’Europa orientale interbellica – un movimento realmente antisi- stema, che praticava l’assassinio politico nei confronti degli avversari e al tempo stesso denunciava la drammatica situazione sociale di un paese in cui l’80% della popolazione viveva nelle campagne, spesso in condizioni di assoluta miseria60.

Nessuno spazio aveva, invece, nella vita politica romena il partito comunista (PdCR), nato nel maggio 1921 da una scissione del partito

socialista romeno e membro del Komintern. Il PdCR era un autentico

partito di minoranze (quasi tre quarti dei dirigenti e oltre la metà dei militanti: in particolare ungheresi, ebrei, ucraini e bulgari). Nei suoi congressi clandestini, dopo la messa al bando del 1924, esso condan- nò l’annessione imperialista della Transilvania e della Bessarabia, re- gione, quest’ultima, per la quale richiedeva il diritto di secessione dal- la “Grande Romania”. Tale posizione aggravò il totale isolamento po- litico e sociale dei comunisti e dei loro simpatizzanti, e pregiudicò una loro possibilità di ripresa anche in seguito alla crisi economica: al massimo essi raggiunsero il 5,8% dei voti e i 5 seggi parlamentari conquistati dal Blocco operaio-contadino nel 193161. Il tentativo

compiuto nel 1933-34 di allestire un Fronte popolare antifascista (au- torizzato dalle autorità), in collaborazione con il movimento agrario progressista guidato dall’ex latifondista Petru Groza, si risolse in un fallimento, e sino alla svolta del 1944 il movimento comunista clande- stino restò marginale, addirittura “estraneo”, secondo uno storico ro- meno, all’evoluzione politica e sociale del paese62.

La vita politica si caratterizzò per la sua asprezza e per la reazione violenta ai frequenti arbìtri da parte delle autorità, soprattutto nelle zone recentemente acquisite. L’instabilità può essere misurata non solo dall’elevato numero di elezioni nazionali (nove dal 1919 al 1937), ma anche dalla fragilità di molti governi, sfiduciati nel corso della le- gislatura in favore di altri esecutivi dotati di maggioranze alternative. Grazie alle risorse amministrative di cui disponeva (brogli, intimida- zioni, manipolazione delle liste elettorali) e alla legge elettorale (che assegnava i due terzi dei seggi alla formazione che avesse raggiunto il

40%), ogni nuovo governo era in grado di vincere le elezioni succes- sive. Il sistema funzionò sino alla consultazione del 1937. Non è quindi esagerato definire il sistema politico romeno tra le due guerre una “democrazia mimata”, dai tratti sempre più autoritari63.

Negli anni trenta le vicende politiche si intrecciarono, da un lato, con le conseguenze della crisi economica mondiale, che spinsero i go- verni liberali post 1933 a legarsi economicamente alla Germania; dal- l’altro, con il controverso ruolo svolto dalla Corona. Dal 1927 quella romena era una monarchia zoppicante. Al rispettato re Ferdinando non poté succedere il figlio Carol, costretto a rinunciare al trono da un legame sentimentale, scandaloso per l’epoca, con una cortigiana ebrea, Elena Lupescu. Suo figlio Mihai venne proclamato re a sette anni di età sotto un consiglio di reggenza formato dallo zio, dal pa- triarca ortodosso e dal presidente della Corte di cassazione. Nel 1930, tuttavia, Carol tornò in patria e si fece proclamare sovrano. A partire dal 1933 le autorità tentarono inutilmente di combattere per via re- pressiva il rafforzamento dell’estrema destra, ma arresti e condanne crearono un’aura di martirio attorno ai leader del movimento. Co- dreanu e altri tredici militanti vennero assassinati a sangue freddo nel 1938, ancor prima fu ucciso il primo ministro Ion G. Duca, ma la Guardia di ferro conquistò molti dei più brillanti intellettuali romeni. Lo spostamento a destra dell’opinione pubblica influenzava le scelte dei partiti e creava tensioni crescenti con le popolazioni non romene. Esso si accompagnò a una stretta nelle politiche di minoranza: le principali associazioni professionali (avvocati, medici, farmacisti) esclusero dai loro ordini gli ebrei e, in alcuni casi, gli ungheresi. Il culmine della crisi politica venne toccato alle elezioni del dicembre 1937 quando, per la prima volta dal 1920, nessuno dei partiti riuscì a ottenere il quorum del 40% necessario al premio di maggioranza. Il movimento di Codreanu, denominato Totul pentru ¸Tar˘a (Tutto per la patria) raccolse il 16% e l’estrema destra, oltre un quarto dei voti complessivi64. Nel febbraio 1938 re Carol IIuscì dall’impasse e, attra-

verso una dittatura personale legittimata da una nuova Costituzione, tentò di costruire uno Stato corporativo modellato su quelli italiano e portoghese. Dopo lo scioglimento dei partiti, nel Parlamento risultò rappresentato un solo gruppo, il Fronte della rinascita nazionale, do- tato di una sezione ungherese, mentre alla minoranza tedesca veniva concesso di riunirsi nel Volksbund, una lega di orientamento naziona- lista sostenuta da Berlino.

Fino alla crisi politico-diplomatica dell’estate 1940, quando grazie all’intervento diplomatico tedesco (e soprattutto italiano) l’Ungheria

riottenne la metà settentrionale della Transilvania, l’Unione Sovietica annetteva la Bessarabia in virtù del patto Ribbentrop-Molotov e la Bulgaria rioccupava la Dobrugia, i governi romeni compirono una difficile opera di mediazione di interessi incompatibili. In politica estera continuarono la linea filo-occidentale del capo indiscusso della diplomazia romena interbellica, Nicolae Titulescu, ma alla fine non poterono resistere alla pressione politica ed economica tedesca. Sul piano interno essi si distinsero per una cruenta lotta all’opposizione di estrema destra ma per molti versi seguirono la sua agenda politica: nel 1939 un provvedimento restrittivo privò dei diritti di cittadinanza quasi 270.000 ebrei che l’avevano acquisita in seguito alla Prima guerra mondiale65.

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