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IL REGNO SHS / JUGOSLAVIA

I nuovi Stati: Cecoslovacchia e Jugoslavia

1.4.2. IL REGNO SHS / JUGOSLAVIA

Il regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS), proclamato il primo di-

cembre 1918 sotto la dinastia serba dei Karad–ord–evi ´c, nacque come unione di due regni indipendenti, Serbia e Montenegro, ai quali si

unirono territori austriaci (Slovenia e Dalmazia), regioni propria- mente ungheresi (Vojvodina), territori formalmente ungheresi ma largamente autonomi (Croazia-Slavonia) e, infine, territori sottoposti ad amministrazione congiunta austro-ungarica (Bosnia-Erzegovina, dal 1908). Nel 1931, il territorio di 248.000 km2 era abitato da cir-

ca 14 milioni di persone. Le nazionalità più numerose erano quella serba (39%), croata (23%), slovena (8%), slavo-musulmana di Bo- snia, ovvero “bosgnacca”, secondo la tassonomia oggi in vigore (6,5%), macedone (5,5%) e montenegrina (2,7%). Ad esse si ag- giungevano oltre un milione di tedeschi e ungheresi della Vojvodina e del Banato, quasi mezzo milione di albanesi del Kosovo, 300.000 bulgari e altrettanti turchi, e quasi 100.000 tra romeni, slovacchi, ruteni, ebrei e rom. Alla divisione etnolinguistica si aggiungeva quella confessionale: il 48% della popolazione si professava di fede cristiano-ortodossa, il 37% cattolica, l’11% musulmana. Fin dalla nascita, avvenuta in circostanze diplomatiche fortunose alla fine della Prima guerra mondiale, il regno SHS si trovò ad affrontare

molti e acuti problemi. Come osserva John R. Lampe, le autorità non solo si trovarono a dover governare un mosaico di fedi e na- zionalità, ma anche, e soprattutto, a tentare di unificare le entità

storiche che componevano il nuovo Stato. Analogamente al Piemon-

te nell’Italia unita, grandi responsabilità ricadevano sulla Serbia, che avrebbe dovuto armonizzare una dozzina di lingue e culture, sei zone doganali, cinque valute e quattro sistemi amministrativi e ferroviari44. Sebbene molti studiosi considerino la costituzione del

regno SHS uno sbocco naturale del panslavismo prebellico degli in-

tellettuali, Francesco Privitera afferma che proprio l’élite politica serba esitò almeno fino all’accordo di Corfù (luglio 1917) ad annet- tere i territori asburgici situati a nord del Danubio. La generazione di serbi che aveva più fortemente creduto nell’ideale jugoslavista era stata decimata dalla guerra. Nel 1918-19, poi, le trattative sulla sistemazione statale con i croati e gli sloveni, da un lato, e la mi- naccia italiana alla Dalmazia, dall’altro, convinsero la classe politica serba a riconoscere la realtà del nuovo Stato: in una visione tuttavia angusta, “panserba”, dell’ideale jugoslavista45. Il quadro politico

degli anni venti rifletteva le contraddizioni di partenza. Il 28 giugno 1921 (giorno di san Vito, anniversario della battaglia di Kosovo Polje del 1389, ma anche dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, nel 1914), dopo un lungo dibattito, l’Assemblea costi- tuente approvò a maggioranza semplice una Costituzione centraliz- zatrice, modellata su quella belga del 1830. Al re spettava il con- trollo sulle forze armate e sui prefetti, mentre lo Stato assunse for-

malmente la forma di una monarchia costituzionale, con un Parla- mento unicamerale eletto ogni quattro anni e un sistema proporzio- nale a suffragio universale solo maschile.

Fino al 1928 la vita politica si svolse sui binari di un parlamen- tarismo talora assai turbolento46. Alle elezioni del 1920 per l’As-

semblea costituente il partito comunista jugoslavo emerse come la principale forza antisistema, con il 12,4% dei voti e quasi 60 depu- tati. L’anno seguente, tuttavia, esso venne dichiarato fuorilegge e fino alla Seconda guerra mondiale i suoi dirigenti – operanti in clandestinità – combinarono l’attività terroristica con tentativi di agire legalmente dietro copertura sindacale47. I risultati furono

scarsi fino al novembre 1940, quando il giovane Josip Broz, detto Tito, divenne segretario generale del PCJ sulla base di una piattafor-

ma “jugoslavista” di rispetto delle nazionalità. La crisi dello Stato favorì l’aumento del consenso per il movimento comunista, che di lì a poco sarebbe divenuto il fulcro della resistenza militare all’inva- sione italo-tedesca.

Poiché tutti gli altri partiti si identificavano fortemente con un gruppo nazionale, le coalizioni di governo degli anni rifletterono non tanto l’adesione a questo o a quel progetto politico, quanto la capaci- tà dei premier di stringere accordi personali con il notabilato croato, sloveno o musulmano. Alle elezioni parlamentari del 1923 i partiti serbi ottennero oltre il 40% dei voti, contro il 22% del principale partito di opposizione, quello contadino croato di Stjepan Radi´c, di ispirazione repubblicana e federalista. Un conflitto attraverso la stessa comunità serba, divisa fra srbijanci (serbi della vecchia Serbia preju- goslava, aderenti al partito radicale) e preˇcanci (serbi della Vojvodina, elettori del partito democratico). Gli altri gruppi nazionali, in partico- lare i musulmani e gli sloveni, erano impegnati in un’opera di conti- nua mediazione, mentre l’esercito restava saldamente nelle mani dei serbi, che fornivano oltre il 95% degli ufficiali. Nel 1924-25 la lotta politica conobbe una nuova escalation, con l’“aventino” parlamentare dei croati, aggravato dall’arresto del loro leader. Questi fu accusato di alto tradimento per aver pubblicamente sostenuto che i croati non erano schiavi nella monarchia asburgica e i serbi non li avevano per- ciò liberati. Radi´c boicottò le successive elezioni. Allo scontro fronta- le, tuttavia, seguì un tentativo di compromesso serbo-croato con il primo governo di coalizione.

Sul finire del decennio, la lotta fra i due principali gruppi politici si inasprì fino a toccare un punto di non ritorno. Nel giugno 1928, durante una seduta parlamentare, un deputato radicale montenegrino

sparò in Parlamento sul gruppo contadino croato, uccidendo Radi´c e altri due parlamentari. Il re Alessandro approfittò del grave episodio per sciogliere un Parlamento divenuto ingovernabile e introdurre la dittatura regia (6 gennaio 1929). Per sottolineare l’esigenza di unifi- care il paese, esso venne denominato ufficialmente “Jugoslavia” (ov- vero regno degli slavi del Sud). Insieme al Parlamento centrale ven- nero sciolte le assemblee elettive locali, sospesa la libertà di stampa, messi al bando i sokoli (circoli sportivi assai popolari) croati e slove- ni. Nel 1931 una nuova Costituzione abolì le divisioni territoriali as- burgiche e il paese venne diviso in nove distretti (banovine), ammini- strati da un prefetto nominato dal governo centrale. Sei delle nuove unità amministrative avevano una maggioranza serba, un fatto che venne interpretato dai croati come un tentativo di affermare una su- premazia illegittima. Il sistema politico uscì rivoluzionato dal nuovo quadro istituzionale: il Parlamento era limitato a una Camera di me- ra ratifica delle leggi, mentre i partiti vennero ammessi alle elezioni solo se non fondati su base regionale (il che spinse molti di essi a boicottare il voto)48.

Il 9 ottobre 1934, quando le turbolenze economiche e sociali in- dussero il re a smantellare la dittatura personale, un sicario del movi- mento terroristico Ustaˇsa (Ribelli), diretto dal suolo italiano dal poli- tico nazionalista croato Ante Paveli´c, uccise a Marsiglia il re Alessan- dro e il ministro degli Esteri francese, Louis Barthou. L’attentato contribuì paradossalmente a sbloccare lo stallo politico in cui il paese era precipitato nel 1928-29. Il reggente, principe Paolo, ristabilì con- dizioni minime di pluralismo, stabilizzò la situazione finanziaria, cercò un accordo con i principali movimenti di opposizione e relazioni più distese con i vicini, in particolare l’Ungheria e la Bulgaria, mentre l’o- rientamento politico del regime virava verso destra senza assumere, tuttavia, tratti dittatoriali. Nel 1938 il capo del governo, l’economista Milan Stojadinovi´c, stipulò con il Vaticano un concordato che equi- parava giuridicamente la Chiesa cattolica a quella ortodossa: un atto importante, in seguito revocato per le proteste del clero ortodosso. Nell’agosto 1939, infine, il riavvicinamento serbo-croato partorì un “compromesso” (Sporazum) di grande peso istituzionale con la crea- zione di un dipartimento autonomo di Croazia, comprendente quasi un terzo del paese e popolato al 77% da croati e al 20% da serbi. La Jugoslavia sembrava avviarsi verso una struttura simile a quella della duplice monarchia austro-ungherese e il leader del partito contadino croato, Vladko Maˇcek, entrò nel governo jugoslavo come vicepresi- dente del Consiglio49.

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