Il disgelo e le sue contraddizion
4.4.2. IL RIAVVICINAMENTO MOSCA BELGRADO E LA NASCITA DEL PATTO DI VARSAVIA
La morte di Stalin impose ai nuovi vertici sovietici e alle potenze oc- cidentali un ripensamento delle rispettive strategie politico-diplomati- che. La fine della guerra di Corea allontanò la prospettiva di un con- flitto armato Est-Ovest, aprendo la strada alla ripresa, ancorché assai limitata, degli scambi commerciali e culturali. La distensione avrebbe prodotto un primo risultato nel luglio 1955 quando a Ginevra i capi di Stato e di governo delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale si riunirono per discutere le questioni del disarmo e dei rapporti tra i blocchi. Sebbene la conferenza si concludesse senza ac- cordi concreti, lo “spirito di Ginevra” avviò una nuova era nei rap- porti internazionali. Nel frattempo, nell’autunno 1954 si raggiungeva un compromesso su una crisi locale dalle implicazioni europee quale la contesa italo-jugoslava su Trieste. L’Italia riacquistò la piena sovra- nità sul capoluogo giuliano e la cosiddetta Zona A89.
Mentre l’Europa occidentale si andava dotando di strutture di in- tegrazione politica ed economica (nel 1957, con i trattati di Roma, nacque il Mercato comune europeo), Chruˇs ˇcëv dovette constatare che il blocco sovietico mancava di una reale integrazione e che nel conflitto con Tito l’embargo economico e la pressione ideologica non avevano, così, potuto sortire alcun effetto. A partire dalla fine del 1953 Mosca iniziò a preparare segretamente il riavvicinamento alla Jugoslavia. Il 26 maggio 1955 Chruˇs ˇcëv visitò Belgrado per fare ammenda e riconoscere il modello jugoslavo, che rappresentava or- mai un’alternativa appetibile. La diversità dello sviluppo politico ed economico era stata promossa da Tito a partire dal 1950 come con- trattacco ideologico allo stalinismo. Il suo cardine era l’abbandono dell’economia di comando attraverso l’autogestione operaia annun- ciata nel marzo di quell’anno, la deburocratizzazione della pianifica- zione economica tramite l’istituzione dei consigli operai elettivi nelle fabbriche, e la trasformazione della proprietà da statale a “sociale”. Nel 1953 Tito abbandonò la collettivizzazione agricola, anticipando molte delle autocritiche che sarebbero state formulate dai leader esteuropei negli anni a venire, e il 13 gennaio dello stesso anno la Jugoslavia adottò una nuova Costituzione che istituiva i Consigli dei
produttori, formati da rappresentanti eletti dai cittadini operanti nei diversi settori economici. Alle sei repubbliche componenti la Federa- zione venne formalmente concesso un maggior controllo sui propri affari interni e solo settori essenziali quali la difesa, la sicurezza e la politica estera rimasero di competenza del governo centrale. Come sottolinea Lampe, tuttavia, in assenza di decreti attuativi il decen- tramento affermato nel testo costituzionale rimase largamente disat- teso90.
In politica estera, la diversità jugoslava si espresse in una rete tra- sversale di alleanze e contatti. Nel 1953 Jugoslavia, Grecia e Turchia firmarono il Patto balcanico, sostituito nel 1954 da un più organico patto di alleanza. Nel 1955 Tito si fece anche promotore di un movi- mento transnazionale che raccolse decine di paesi “non allineati” del- l’Asia e dell’Africa, guidati dall’Egitto di Nasser e dall’Indonesia di Sukarno. I confini del liberalismo ideologico di Tito si rivelarono pre- sto assai più angusti. Nel 1954 Milovan Dilas, ex braccio destro di Tito e ideologo di spicco dello stalinismo jugoslavo degli anni qua- ranta, fu emarginato e arrestato per aver pubblicato una serie di arti- coli in cui criticava duramente il sistema comunista. Questi scritti avrebbero costituito la base del libro Nova klasa (La nuova classe), pubblicato negli Stati Uniti e in diversi paesi europei nel 1957 e subi- to riconosciuto come una delle analisi più penetranti del nuovo si- stema di potere. Secondo Dilas, il comunismo in Europa orientale non era affatto egualitario e ciò che l’ex politico montenegrino chia- mava sprezzantemente «capitalismo di Stato» aveva portato alla crea- zione di una nuova classe di privilegiati, un’oligarchia di burocrati di partito legati ai vantaggi materiali dalla loro posizione91.
Il riavvicinamento a Belgrado colse l’Unione Sovietica in un mo- mento di fibrillazione politica che si ripercosse sugli alleati più fragili e in particolare sull’Ungheria. Nel febbraio 1955 il capo del governo, Malenkov, che dopo la condanna a morte di Berija era rimasto il principale sostenitore del disarmo nucleare, della liberalizzazione in- terna e dell’industria dei beni di consumo, fu costretto a dimettersi per la sua vicinanza a Berija. Imre Nagy fu costretto a dimettersi, a sua volta, nel marzo 1955, sostituito dal giovane András Heged ˝us, un protetto di Rákosi gradito ai sovietici. Nagy fu espulso dal partito nel dicembre 1955 e, mentre gli stalinisti riprendevano le repressioni po- litiche e sociali, intorno all’ex primo ministro caduto in disgrazia si coalizzarono le forze intellettuali che pochi mesi dopo, saldandosi con la protesta studentesca e il malcontento operaio, avrebbero ali- mentato la grande rivolta antisovietica.
Nel maggio 1955 tre eventi in rapida successione accelerarono l’avvio di una più stretta integrazione militare del blocco socialista. Il 6 maggio la Germania Ovest entrò nella NATO. Il 14 maggio fu an-
nunciata la creazione del Patto di Varsavia, i cui otto membri (URSS,
Polonia, RDT, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania,
ma quest’ultima se ne ritirò nel 1968) si impegnavano alla reciproca difesa nel rispetto della sovranità nazionale. Il patto venne concepito come una struttura speculare all’alleanza militare del blocco occiden- tale, anche se la sua creazione soddisfaceva l’esigenza di assicurare il collegamento con la madrepatria delle truppe sovietiche stanziate in Ungheria e Romania dopo che, il 15 maggio, il trattato fondamentale firmato con l’Austria (divenuta uno Stato sovrano impegnato alla «neutralità perpetua») aveva disposto il ritiro del contingente sovieti- co dall’Austria orientale92. Al Patto di Varsavia e al Comecon, riatti-
vato nel 1954 dopo quasi cinque anni, mancavano prospettive strate- giche di lungo periodo. Nei primi anni i sovietici cercarono di uti- lizzare il primo come strumento di pressione per ottenere una smilita- rizzazione della guerra fredda; mentre l’organo di coordinamento economico soffriva, da un lato, della non convertibilità delle valute e, dall’altro, per l’assenza di specializzazione produttiva fra i paesi par- tecipanti. Verso la metà degli anni cinquanta l’Europa orientale e la stessa Unione Sovietica attraversavano un momento di grave difficol- tà. L’unità forzata forgiata da Stalin entrò in crisi dopo la sua morte. Chruˇsˇcëv capiva la necessità della competizione pacifica con il blocco occidentale, ma restava legato alla nomenklatura stalinista. Sul piano politico la destalinizzazione procedeva in modo contraddittorio (Un- gheria, Polonia, Bulgaria e Jugoslavia) o non procedeva affatto (Ceco- slovacchia, Romania, RDT e Albania). In campo economico, il rallenta-
mento della collettivizzazione fu percepito come un arretramento temporaneo, senza analizzare le conseguenze sociali dello svuotamen- to delle campagne e l’afflusso caotico di milioni di persone in città sovraffollate e prive di servizi. Secondo Mark Pittaway, verso la metà degli anni cinquanta «le basi sociali del potere comunista in tutta la regione apparivano pressoché inesistenti»93. Sulle difficoltà di orga-
nizzare il consenso su basi totalitarie si innestò nel 1956 l’onda d’urto provocata dal XX Congresso del PCUS.