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LA BULGARIA AI MARGINI DELL ’ IMPERO DI HITLER

Gli alleati/satelliti del Reich

2.5.3. LA BULGARIA AI MARGINI DELL ’ IMPERO DI HITLER

La Bulgaria trascorse i primi quattro anni di guerra in una condizione privilegiata di relativa tranquillità. Dopo l’acquisizione della Dobrugia meridionale nell’estate del 1940, l’occupazione della Macedonia e del- la Tracia occidentale in seguito alla sconfitta della Jugoslavia e della Grecia, nel maggio 1941, suscitò un’ondata di entusiasmo generale. Come nel 1877-78, il paese aveva realizzato il proprio programma di espansione e si presentava come lo Stato più forte dei Balcani. In cambio di una dipendenza economica quasi totale dalla Germania, la Bulgaria venne autorizzata a non partecipare con proprie truppe alla campagna antisovietica dell’Asse, di cui pure faceva parte dal primo marzo 1941, e a limitarsi a garantire assistenza tecnica e medica alla Germania e ai suoi alleati. Secondo Barbara Jelavich, i tedeschi teme- vano il sentimento filorusso della popolazione, un fattore storico-cul- turale che distingueva nettamente la Bulgaria dagli altri loro satelli- ti74. La Bulgaria restò anche l’unico alleato del Reich a non dichiara-

re guerra all’URSS (una cortesia diplomatica che Mosca non avrebbe

dimenticato), mentre fu costretta a proclamare simbolicamente le ostilità con le potenze occidentali. Gli sporadici bombardamenti su Sofia e altre città bulgare restarono a lungo l’unica conseguenza della partecipazione del paese al conflitto.

In politica interna re Boris III, salito al trono nel 1934, aveva in-

staurato un regime dai tratti autoritari e nazionalisti, senza tuttavia dotarlo di un contenuto ideologico fascista. Fino alla sua morte, avve- nuta nell’agosto 1943, Boris ingaggiò, al contrario, un duro conflitto con le fazioni di estrema destra. Dopo la sua morte venne istituita una reggenza (il nuovo sovrano, Simeone, aveva appena sei anni). Il Parlamento continuò a funzionare sino alla svolta del 1944 e l’opposi- zione individuale, non organizzata in partiti e movimenti strutturati, venne tollerata, analogamente al caso romeno. Nelle file dell’opposi- zione in esilio, la forza principale restava l’Unione agraria dell’ex lea- der Stambolijski, divisa in due fazioni. A differenza dei confratelli un- gherese e romeno, il partito comunista era ben organizzato e dotato di una base sociale (10.000 attivisti nel 1941, oltre a circa 20.000 sim-

patizzanti riuniti nell’organizzazione giovanile). Fino al 1944, tuttavia, esso si rivelò incapace di organizzare una resistenza che andasse al di là di qualche sabotaggio e attentato. Mentre in Jugoslavia era in corso una violenta occupazione e lo Stato si era disintegrato, la popolazione appoggiava una guerra che la Bulgaria non stava combattendo75.

La stabilità del regime di Boris fu minata, piuttosto, dalla poco oculata gestione della questione nazionale nei territori incorporati. In Macedonia l’amministrazione bulgara venne dapprima accolta con fa- vore dalla popolazione, esasperata del dominio serbo/jugoslavo. La massiccia campagna di alfabetizzazione e bulgarizzazione, unita all’e- stensione della propria giurisdizione sulle parrocchie ortodosse del territorio decisa dal Santo Sinodo di Sofia, le alienarono, invece, le simpatie dei macedoni. Nel settembre 1941 un’ampia rivolta popolare partita dalla Tracia occidentale, popolata in maggioranza da greci, si estese alla Macedonia. Il conflitto causò circa 15.000 morti; altre 100.000 persone vennero espulse e si rifugiarono nelle zone di occu- pazione tedesca e italiana. Discriminazioni linguistiche e culturali ven- nero attuate anche nei confronti dell’ampia minoranza musulmana di origine turca, accusata di promuovere l’ideologia kemalista76. Analo-

gamente ai movimenti comunisti operanti in altre zone di conflitto (Trieste e l’Istria, i Sudeti, la Transilvania, la Galizia), i comunisti bul- gari si trovarono in grave imbarazzo nel rispondere alla sfida naziona- lista. Molti di essi erano sinceramente convinti dell’identità bulgara della popolazione macedone. Fino agli anni trenta, lo stesso Komin- tern aveva predicato l’autonomia, o l’indipendenza, della provincia dalla Jugoslavia e dalla Grecia e sostenuto gli interessi dell’elemento bulgaro. La politica dei “fronti nazionali” e lo scioglimento del Ko- mintern, nel 1943, segnarono un cambio di orientamento anche sulle questioni territoriali. Quando, nel 1944, i partigiani jugoslavi presero il controllo della Macedonia con il sostegno di Mosca, l’affiliazione statale della regione si decise sul campo e ai comunisti bulgari di Di- mitrov non restò che prendere atto della realtà77.

La questione ebraica non aveva, in Bulgaria, un’importanza para- gonabile a quella negli altri paesi dell’area, fatta eccezione per la Ju- goslavia. I 50.000 ebrei bulgari rappresentavano un fattore secondario rispetto al milione di turchi e alle centinaia di migliaia di macedoni e greci che resistevano al tentativo di assimilazione. In coerenza con una linea di relativa autonomia rispetto alla Germania, nella primave- ra del 1943 il governo bulgaro prestò ascolto alle proteste della Chie- sa ortodossa e dell’opposizione parlamentare e decise di non aderire alla richiesta tedesca di deportare gli ebrei, limitandosi ad assegnarli a battaglioni di lavoro forzato. La comunità ebraica bulgara poté così

preservarsi nella propria interezza: un caso unico in Europa orientale. Meno noto è, invece, che l’11 marzo 1943, con una serie di azioni pianificate e coordinate, il governo di Sofia iniziò a deportare gli ebrei della Macedonia e della Grecia, ancora privi di cittadinanza bulgara e soggetti a discriminazioni fin dal 1941. In meno di venti giorni, oltre 7.000 vennero concentrati e deportati a Treblinka, dove venne annientata l’intera comunità sefardita macedone78.

Nel 1943-44 il peggioramento della situazione militare indusse l’é- lite conservatrice bulgara a tentare di uscire dal conflitto. Oltre alla scarsità di contatti con il mondo occidentale, che li distingueva dai colleghi romeni e dagli ungheresi, i politici bulgari faticavano ad ac- cettare come ineluttabile la perdita di territori. I partiti di centro-de- stra si ritrovarono, così, in una posizione di netto svantaggio rispetto ai comunisti quando, nell’agosto-settembre 1944, la sorte della Bulga- ria conobbe una svolta radicale. La capitolazione romena del 23 ago- sto mise in allarme le autorità bulgare e il 2 settembre venne formato un nuovo gabinetto, guidato dall’agrario filo-occidentale Kosta Mura- viev, che ritirò immediatamente la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Il 5 settembre, tuttavia, l’URSS dichiarò

guerra alla Bulgaria e, tre giorni dopo, Sofia veniva invasa dalle trup- pe sovietiche senza consultazione preventiva con gli alleati occidenta- li. Il governo ordinò all’esercito di non resistere e ruppe le relazioni con la Germania. Il Fronte della patria, un’organizzazione antifascista dominata dal partito comunista, fondata nel 1944, entrò allora in azione con scioperi e manifestazioni e il 9 settembre prese il potere utilizzando ampiamente le forze di polizia e l’esercito, che interveniva per la prima volta nel conflitto a fianco dell’Armata rossa, contro i tedeschi in ritirata. La capitolazione degli agrari di fronte al predomi- nio sovietico si accompagnò presto alla repressione dei dissidenti. Dopo la Jugoslavia e l’Albania, la Bulgaria fu il terzo paese sul quale all’inizio del 1945 il partito comunista aveva già affermato un forte controllo politico e militare.

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