Gli anni del terrore
4.3.1. LE PURGHE NEL PARTITO
Fra il 1944-45 e il 1948 i partiti comunisti dell’Europa orientale si trasformarono da minuscoli gruppi clandestini in movimenti che rap- presentavano il 5-10% della popolazione adulta, una percentuale as- sai più alta che nella stessa URSS. Il partito cecoslovacco arrivò al mo-
mento della conquista del potere a 2 milioni di iscritti, quello polacco si attestò a 1,5 milioni, quelli romeno, ungherese e bulgaro sfioravano il milione di aderenti. I comunisti provenivano da ogni strato sociale, anche se tra di essi gli operai e i funzionari pubblici prevalevano net- tamente sui contadini e gli intellettuali. Nella logica che contraddi- stingueva il tardo stalinismo, dietro tale forza numerica doveva ne- cessariamente celarsi l’opera di infiltrazione del nemico. Il sospetto non era del tutto ingiustificato: il partito aveva generosamente accolto in Ungheria e in Romania decine di migliaia di fascisti, politicizzati e sufficientemente ricattabili, in Cecoslovacchia i socialdemocratici, fieri delle proprie tradizioni e ostili al comunismo; ovunque la tessera dava accesso a un posto di lavoro, a un alloggio, a un sussidio.
A partire dalla primavera del 1948 i partiti avviarono attraverso le Commissioni centrali di controllo – autentici organi di polizia interna – un’azione di verifica degli iscritti sulla base del passato politico e
delle condizioni sociali. Per diversi anni nuove ammissioni furono bloccate per ridurre il numero dei comunisti e ridare al partito una parvenza di avanguardia rivoluzionaria. Entro il 1953, i partiti perse- ro circa un terzo dei propri iscritti: il livello precedente alle epurazio- ni sarebbe stato raggiunto e superato solo all’inizio degli anni sessan- ta52. La fase successiva, l’epurazione interna dei nuovi vertici al pote-
re, si scatenò a partire dall’estate 1948, in seguito all’espulsione della Jugoslavia dal Kominform. La purga colpì diverse categorie di poten- ziali oppositori: “deviazionisti” di destra (nel caso dei socialdemocra- tici), seguaci di Tito e “nazionalisti”. In agosto il temuto ministro del- l’Interno ungherese László Rajk, l’organizzatore della persecuzione degli avversari politici, fu destinato agli Affari Esteri, un incarico as- sai meno prestigioso nei sistemi di tipo sovietico: era la prima tappa della sua caduta in disgrazia. Nel maggio 1949 Rajk fu arrestato, sot- toposto a un processo farsa radiotrasmesso in diretta e costretto a confessare un presunto complotto ordito con il Vaticano, Tito e gli Stati Uniti per rovesciare il governo comunista. La sua condanna a morte, eseguita il 15 ottobre, dette il via a una campagna di epurazio- ni che negli anni successivi costò la vita a un’ottantina di dirigenti comunisti e socialdemocratici e a decine di alti quadri dell’esercito. Altre centinaia di dirigenti e intellettuali furono arrestati o internati in campi di lavoro fino al 1954: fra di essi vi era anche il futuro lea- der comunista János Kádár, succeduto a Rajk come ministro dell’In- terno53.
In Bulgaria, la vittima più illustre dei processi farsa fu Traiˇco Ko- stov, membro dell’Ufficio politico e influente quanto popolare re- sponsabile economico della segreteria. Nel dicembre 1949 Kostov, dopo essere stato emarginato dal potere e arrestato, subì un processo il cui copione somigliava a quello di Rajk. Torturato ripetutamente per essersi rifiutato di confessare i crimini contestatigli, Kostov ce- dette durante un secondo processo pubblico, al termine del quale fu condannato a morte. Come corollario del processo, fino al 1953 furo- no istituiti numerosi altri procedimenti contro alti funzionari, militari e ingegneri accusati di sabotaggio54. L’Albania, particolarmente col-
pita nei propri interessi politici ed economici dallo strappo jugoslavo, precedette anche in questo caso gli alleati maggiori: Koçi Xoxe, dal 1945 spietato ministro dell’Interno, venne destituito nel settembre 1948 e condannato a morte nel giugno successivo in seguito a un processo pubblico che, nelle accuse (“titoismo”, collaborazione segre- ta con gli imperialisti) e nella coreografia, fornì da esempio ai proce- dimenti orchestrati nel resto del blocco sovietico. Nel 1949-50 ulte-
riori purghe decimarono il Comitato centrale del partito e l’assemblea parlamentare55.
In Romania e in Polonia le attenzioni degli inquisitori si concen- trarono, fino al 1952, su dirigenti sospettati di osteggiare la linea di radicalizzazione socioeconomica e l’emulazione del modello culturale sovietico. La prima vittima di questa campagna, che non portò a pro- cessi pubblici, fu nell’aprile 1948 il romeno Lucre,tiu P˘atr˘a¸scanu, av- vocato e ministro della Giustizia. La sua opposizione alla bolscevizza- zione del partito e la netta presa di posizione in favore della maggio- ranza romena in Transilvania furono considerate dal vertice multietni- co del partito un atto di lesa maestà rispetto alla linea di rigido inter- nazionalismo e rispetto dei diritti delle minoranze promossa dai co- munisti romeni. Dopo sei anni di prigione trascorsi in isolamento, P˘a- tr˘a¸scanu, che si era rifiutato di ammettere i propri errori, venne pro- cessato e condannato a morte nell’aprile 195456.
In Polonia l’epurazione colpì il segretario generale Gomu/lka, ac-
cusato nel 1948 dal Comitato centrale del partito di “deviazionismo nazionalistico di destra” per la sua azione antiucraina svolta nel 1945-47 come ministro per i Territori Recuperati. La sua caduta, cal- deggiata dai sovietici (che lo sostituirono con un dirigente senza per- sonalità, Boles/law Bierut), provocò l’arresto di centinaia di funzionari
e di suoi sostenitori. Destituito da ogni incarico pubblico nel novem- bre 1949, Gomu/lka fu arrestato il 2 agosto 1951 e sottoposto a cu-
stodia cautelare sino al 195457. Le autorità polacche mantennero cio-
nonostante una linea di basso profilo e non organizzarono alcun pro- cesso ai dirigenti incarcerati. L’attenzione delle forze di sicurezza si rivolse, piuttosto, contro i gruppi che resistevano in armi: militanti del disciolto partito socialista, ufficiali dell’esercito tornati dall’Occi- dente e contadini contrari alla collettivizzazione. La Commissione straordinaria per la lotta contro gli abusi e il sabotaggio dal 1945 al 1954 decretò per via amministrativa l’internamento ai lavori forzati di 84.000 persone. Nel 1952 si contavano nel paese quasi 50.000 prigio- nieri politici58.
In Cecoslovacchia, infine, sin dal 1949 le epurazioni si intrecciaro- no agli sviluppi del caso Rajk. Decise a scovare il “Rajk cecoslovac- co”, le autorità di Praga e Bratislava avviarono una campagna di re- pressione che investì dirigenti accusati di nazionalismo slovacco, come il ministro degli Esteri, Vladimír Clementis, e il presidente del Consiglio nazionale slovacco, Gustáv Husák, oltre a funzionari so- spettati di collusione con gli occidentali e i “trockisti”. Nel 1951 le accuse, basate su confessioni estorte nelle quali il sospetto si trasfor- mava regolarmente in colpa, raggiunsero il segretario generale del
partito, Rudolf Slánsk´y, e numerosi altri esponenti della gerarchia co- munista, molti dei quali di origine ebraica. Questo aspetto, sino a quel momento secondario, assunse un’importanza cruciale nel 1952 con la preparazione del processo poi intentato in novembre al “grup- po” guidato, secondo l’accusa, dallo stesso Slánsk´y. L’origine ebraica di quasi tutti i 14 imputati, 13 dei quali giustiziati, fu pesantemente sottolineata dall’accusa e ripresa dagli organi di stampa59.
Dopo lo scoppio della guerra fredda, nella propaganda dell’URSS e
dei suoi satelliti comparve un concetto che divenne presto sinonimo di antisemitismo: la lotta al “sionismo” come movimento politico e al “cosmopolitismo”, un atteggiamento mentale contrapposto al patriot- tismo socialista e del quale gli ebrei erano ritenuti i principali latori. I toni infamanti della campagna antisionista richiamano la propaganda antisemita nell’Europa orientale tra le due guerre e si collocano nel contesto dell’offensiva antiebraica condotta da Stalin sin dal 1948 con lo scioglimento del Comitato antifascista ebraico. Per qualche anno dopo la fine della guerra il Cremlino mantenne nei confronti della questione ebraica un atteggiamento flessibile. Nel maggio 1948, l’U- nione Sovietica riconobbe, prima al mondo, il neocostituito Stato d’I- sraele, seguita dai satelliti. Decine di migliaia di ebrei polacchi, un- gheresi, bulgari e romeni, molti dei quali appartenenti al movimento sionista perseguitato dalle autorità comuniste, furono autorizzati (ta- lora incoraggiati) a emigrare verso la loro nuova patria60. L’attacco
alle comunità ebraiche raggiunse il culmine nell’inverno 1952-53 in seguito al processo di Mosca ai “medici ebrei” accusati di aver atten- tato alla salute del dittatore sovietico. Secondo alcune fonti (non suf- fragate, tuttavia, da prove documentarie inoppugnabili), prima di mo- rire Stalin avrebbe progettato una purga generalizzata della popola- zione ebraica e addirittura la deportazione in Siberia degli ebrei di Mosca e Leningrado61. Secondo Jonathan Brent e Vladimir P. Nau-
mov, lungi dall’essere il prodotto azzardato di un leader paranoico, il complotto dei medici si integrò in un «sistema cospiratorio» elabora- to e gestito con fredda razionalità62.
Alle epurazioni antisemite si univa l’indebolimento delle posizioni del responsabile della sicurezza sovietica, Lavrentij Berija, incaricato delle nomine dei capi degli organi di sicurezza in tutta l’Europa orientale sovietizzata. La campagna antisionista si estese dunque alla Romania, dove Ana Pauker venne destituita dal Politburo nel maggio 1952 e arrestata nel febbraio 1953. La rovina della Pauker provocò diverse centinaia di arresti che coinvolsero i ministeri in cui si sospet- tava l’esistenza di “filiere ebraiche” (Esteri, Finanze, Commercio este- ro) e anche gli organi di partito (in particolare la sezione quadri e
l’apparato della propaganda)63. Come ha dimostrato il suo biografo,
Robert Levy, la vera “colpa” della Pauker, in contrasto con la sua identità di comunista “a-nazionale”, fu di aver aiutato dopo il 1948 i suoi correligionari (ella stessa, sebbene atea, era figlia di un rabbino ortodosso) a espatriare verso Israele per sfuggire a un regime che sentivano ostile. L’emigrazione degli ebrei dall’Europa orientale co- stituiva peraltro un preciso indirizzo politico sovietico. Come respon- sabile dell’Agricoltura nel 1950-51, la Pauker aveva inoltre tentato di frenare la dissennata campagna di collettivizzazione, dimostrando maggiore sensibilità alle sofferenze dei contadini rispetto al suo rivale e successore in quella funzione, Nicolae Ceau¸sescu.
In Ungheria, dove gli ebrei restavano ben rappresentati nella nuo- va élite, nonostante gli ammonimenti di Stalin a “nazionalizzarne” la composizione, all’inizio del 1953 vennero arrestati e segretamente condannati a dure pene detentive i responsabili di origine ebraica dei servizi di sicurezza (Államvédelmi Hatóság – ÁVH), guidati da Gábor
Péter64. La morte di Stalin interruppe immediatamente la catena di
arresti e confessioni. Gli attacchi pubblici al “cosmopolitismo ebrai- co” cessarono e gli imputati vennero rimessi in libertà o posti agli arresti domiciliari. L’antisemitismo sparì dunque come argomento di propaganda, ma il rapporto dei regimi comunisti con le piccole co- munità ebraiche sopravvissute al genocidio e all’emigrazione restò ambiguo. Nel luglio 1955, un rapporto riservato sulla condizione de- gli ebrei nel blocco sovietico del Political Department del World Je- wish Congress sosteneva che i regimi comunisti avevano disarticolato le tradizionali strutture comunitarie (scuole, ospedali, circoli e asso- ciazioni culturali). Le comunità ebraiche pativano «un impoverimen- to materiale superiore rispetto al resto della popolazione», dovuto alla sistematica esclusione dei loro membri dal commercio e dalla piccola industria, nei quali detenevano tradizionalmente un ruolo importante65.