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L ’ UNGHERIA DI HORTHY

Vincitori e sconfitti: Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria

1.5.3. L ’ UNGHERIA DI HORTHY

Fra l’ottobre 1918 e il giugno 1920 l’Ungheria attraversò un periodo convulso. Alla sconfitta militare riconosciuta nell’armistizio di Pado- va (3 novembre 1918) si accompagnò una rivoluzione democratica che portò alla proclamazione della repubblica66. L’inverno 1918-19

fu segnato dalla passività del governo nazionale guidato dal conte Mihály Károlyi: le nuove autorità smobilitarono l’esercito e consenti- rono alle truppe romene, cecoslovacche e serbe di penetrare in pro- fondità nel paese, contando ingenuamente sul rispetto delle linee di demarcazione fissate dalla convenzione di Belgrado del 13 novembre. Solo il 21 marzo Károlyi decise di opporsi a una nota indirizzata al governo di Budapest dall’Intesa che confermava la dissoluzione del- l’Ungheria storica e la riduzione di due terzi del territorio del paese; il capo del governo si ritirò e cedette la guida del paese alle forze socialdemocratiche e comuniste. Il nuovo esecutivo assunse la deno- minazione di Repubblica dei consigli e instaurò immediatamente una dittatura del proletariato ispirata al modello sovietico. Il suo leader di fatto divenne il commissario comunista agli Esteri, Béla Kun. L’e- sperimento rivoluzionario durò appena 133 giorni, ma influenzò l’in- tera vicenda storica ungherese nel trentennio successivo. In poche settimane i comunisti approvarono una radicale riforma agraria, che prevedeva la soppressione della media-grande proprietà, la creazione di cooperative e la confisca delle terre di proprietà ecclesiastica; na- zionalizzarono i trasporti; statalizzarono centinaia di imprese, banche e scuole; aumentarono drasticamente i salari operai; soppressero ogni discriminazione sessuale. La dittatura era tuttavia osteggiata soprat- tutto dalla popolazione contadina. Le corti popolari straordinarie al-

lestite in provincia emisero centinaia di condanne a morte nei con- fronti di latifondisti e affittuari, mentre bande armate legate al go- verno terrorizzavano le campagne67.

Fu paradossalmente un argomento nazionalista, la proclamazione della difesa del suolo della patria, a garantire alla repubblica di Kun un temporaneo consenso da parte dei ceti operai. Nel maggio-giugno 1919 l’Armata rossa ungherese, composta da operai e minatori, rioc- cupò ampia parte della Slovacchia, ma in estate la reazione cecoslo- vacca, sostenuta da truppe francesi e dall’attacco sferrato dalla Roma- nia sulla linea del fiume Tibisco, determinò il crollo del fronte inter- no. Il primo agosto, su pressione dei socialdemocratici, Kun si dimise e nei mesi seguenti centinaia di esponenti comunisti ripararono con lui a Vienna e in seguito in URSS, mentre Budapest veniva occupata

dalle truppe romene e dalla città di Szeged il Comitato antibolscevi- co, sostenuto dall’Intesa e guidato dall’ammiraglio Miklós Horthy e dal conte Pál Teleki, organizzava la resistenza militare e progettava la presa del potere. Questa si realizzò il 16 novembre, con l’ingresso di Horthy alla guida dell’Armata nazionale in una Budapest appena sgomberata dalle truppe romene di occupazione. Nell’autunno-inver- no 1919 il cosiddetto “terrore bianco” portò all’uccisione di alcune migliaia di persone e all’arresto temporaneo di 70.000. Il partito co- munista ungherese venne dichiarato illegale e i suoi esponenti rimasti in Ungheria sottoposti a vessazioni poliziesche. Poiché all’esperimen- to democratico e poi alla Repubblica dei consigli avevano preso parte numerosi politici e intellettuali di origine ebraica, la campagna di re- pressione assunse presto un carattere antisemita. Il primo provvedi- mento antiebraico fu preso nel settembre 1920 (numerus clausus), quando una legge fissò un limite del 6%, corrispondente alla percen- tuale nazionale, per l’iscrizione degli israeliti alle università. Il provve- dimento, disatteso soprattutto negli atenei di provincia, desiderosi di aumentare le proprie matricole, fu revocato otto anni dopo68.

Il consolidamento politico iniziò con le elezioni del gennaio 1920. La vittoria dei piccoli proprietari e dei cristiano-sociali sortì un governo il cui primo provvedimento fu una riforma agraria mo- derata, intesa a dar vita a una classe media contadina. Il 28 feb- braio fu approvata una nuova Costituzione. Essa restaurava la mo- narchia benché priva di un sovrano: il tentativo dell’erede al trono Carlo IV di far ritorno nel paese fu bloccato dall’esercito. Il 4 giu-

gno, infine, il reggente Horthy firmò il trattato di pace che riduce- va il paese a dimensioni trascurabili (da quasi 300.000 a 93.000 km2 e meno di 8 milioni di abitanti) e imponeva all’Ungheria il pa-

effettivi69. L’Ungheria, gravemente impoverita da un punto di vista

demografico (ai caduti in guerra si aggiunsero le vittime dall’epide- mia di influenza spagnola e l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi dai territori perduti), restò isolata sul piano internazionale fino al 1923, anno del suo ingresso nella Società delle nazioni. La tradizionale struttura economica, in cui industria e agricoltura si completavano e sostenevano reciprocamente, venne disarticolata con la perdita del 70% della capacità produttiva e delle più impor- tanti zone minerarie e forestali. Il paese si trasformò improvvisa- mente da impero multinazionale in piccolo Stato quasi omogeneo dal punto di vista etnico (7% di tedeschi, 2% di slovacchi: mino- ranze peraltro in via di assimilazione), con un’importante comunità ebraica residente soprattutto a Budapest (23% della popolazione cittadina). Nonostante il carattere dichiaratamente “cristiano” del regime, le divisioni religiose (il 60% della popolazione cattolico, un terzo protestante, il 6% israelita) si sovrapposero sempre alle ten- sioni esistenti fra i “legittimisti”, nostalgici dell’impero asburgico cattolico, e l’élite calvinista di orientamento indipendentista e anti- tedesco.

Dal 1920 e fino all’autunno 1944 protagonista assoluto della vita politica fu il reggente Horthy, che dette vita a un regime definito da uno storico ungherese “parlamentarismo limitato da tratti autoritari”, in cui il rapporto governo-Parlamento era regolato, come nel caso ita- liano dello Statuto albertino, dalle stesse leggi varate nel 184870. Il

sistema bicamerale di stampo oligarchico presieduto da Horthy era distante dal populismo fascista come dalla democrazia di tipo occi- dentale. Era, piuttosto, un notabilato dai connotati “neobarocchi” – già le formule di saluto definivano la posizione sociale dell’interlocu- tore – e anacronistico71. Il pluralismo partitico era riconosciuto (a

eccezione del partito comunista) ma entro limiti precisi: le organizza- zioni del non trascurabile partito socialdemocratico (15% a livello na- zionale nel 1922; 39% a Budapest) potevano operare solo nei centri urbani. La catastrofe del Trianon era addebitata da Horthy e dai suoi seguaci (István Bethlen, primo ministro nel 1921-31; Teleki, primo ministro nel 1920-21 e nel 1939-41 ma eminenza grigia del regime per un ventennio)72 al ruolo distruttivo giocato dalle masse popolari

rimaste senza guida politica nel 1918-19. In questo giudizio si me- scolavano l’elitarismo tipico della classe nobiliare ungherese, il pre- giudizio antisemita di chi considerava la sconfitta bellica frutto di oscuri complotti e il realismo di chi giudicava lo sviluppo civile della popolazione ancora distante dalla comprensione della politica intesa come responsabilità collettiva. La legge elettorale del 1922 privò qua-

si un milione di persone del diritto di voto attraverso il ristabilimento di quote censuarie che escludevano braccianti e operai non specia- lizzati, oltre alle persone prive di titolo di studio. Il voto palese nelle campagne e nei piccoli centri urbani forniva alle autorità l’opportuni- tà di intimidire gli elettori e manipolare i dati. L’opposizione di estre- ma destra non riuscì a intaccare il predominio del partito di governo, un raggruppamento cristiano-nazionale che si rivolgeva alle classi me- die e deteneva circa i due terzi dei seggi fino al 1939, quando le mo- difiche introdotte alla legge elettorale (voto segreto ovunque e suf- fragio universale maschile) consentirono agli estremisti di conquistare quasi il 20% dei voti.

Negli anni venti, Bethlen si prefisse il consolidamento economico del paese. L’apparato pubblico venne drasticamente ridotto, al costo di generare malcontento e scioperi. Dopo che nel 1923 l’iperinflazio- ne costrinse il governo a chiedere un prestito internazionale per 250 milioni di corone d’oro (al 7,5% annuo) e a svalutare la divisa nazio- nale, nel gennaio 1927 fu introdotta una nuova moneta, il peng ˝o. La stabilizzazione finanziaria e la ripresa del commercio stimolarono l’e- conomia e nel 1929, alla vigilia della crisi mondiale, l’Ungheria rag- giunse il 74% della media europea del reddito pro capite, un valore mai più ottenuto nel corso del Novecento. La recessione colpì l’Un- gheria meno duramente di altri paesi: il PIL ungherese scese nel 1933

del 7% rispetto a quello pre crisi, contro un calo del 15% in Ceco- slovacchia, del 14% in Jugoslavia e dell’11% in Romania73. La poli-

tica estera fu inizialmente improntata, con sufficiente pragmatismo, alla non dichiarata volontà di rivedere i trattati di Versailles. Dal 1926-27, attraverso accordi di amicizia con Belgrado e Roma, l’Un- gheria tentò di uscire dall’isolamento impostole dalla Francia attra- verso la Piccola Intesa. Nel 1928-29 seguirono accordi con Polonia e Austria, rette da sistemi politici semiautoritari simili a quello unghere- se, e un tentativo fallito di intesa in chiave revisionista con la Germa- nia del cancelliere Stresemann. Dal 1933 l’ascesa dei nazionalsocialisti tedeschi stimolò un ulteriore cambio di orientamento: dall’Italia, giu- dicata oscillante e poco assertiva, alla Germania di Hitler74. Il primo

ministro, Gyula Gömbös, che nei primi anni trenta stava tentando senza troppo successo di fascistizzare il sistema, nel 1934 rinunciò al- l’obiettivo della ricostituzione del territorio ungherese pre Versailles in cambio della sola metà dei territori perduti, definiti sulla base di criteri etnografici e militari. Tale programma “minimo” di revisione, che l’Ungheria avrebbe parzialmente realizzato con il decisivo appog- gio tedesco (e italiano) nel 1938-41, riscuoteva un consenso quasi

unanime nella società ungherese, inclusa l’opposizione di sinistra (so- cialdemocratici, liberalradicali).

La convinzione di aver subito a Versailles un torto intollerabile impedì al paese di prevedere i rischi che avrebbero comportato l’al- leanza politica con le potenze totalitarie e la dipendenza economica nei loro confronti. Nella seconda metà degli anni trenta l’involuzione politica del sistema, con il restringimento degli spazi di critica da si- nistra e la crescente influenza della destra radicale sulle politiche go- vernative, si accompagnò a un programma di interventismo economi- co di tipo dirigista, lanciato nel 1938 per modernizzare l’industria e le infrastrutture, e potenziare l’esercito (da 35.000 effettivi nel 1925 a 110.000 nel 1940)75. I programmi dei governi guidati nel 1938-41 da

Kálmán Darányi, Béla Imrédy e Pál Teleki, che pure comprendevano interventi sociali importanti, come la costruzione di migliaia di alloggi popolari, l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore, con ri- poso garantito la domenica, e l’estensione del trattamento pensioni- stico a operai e contadini, accentuarono i tratti antiliberali del siste- ma. Dopo il 1937 nella politica governativa riemerse, dopo un de- cennio di sostanziale tolleranza, un orientamento antisemita. Il gover- no Imrédy, in particolare, introdusse nel 1939 quote etniche nelle professioni e approvò una riforma agraria che distribuiva a contadini poveri di nazionalità ungherese oltre 200.000 ettari espropriati a 5.000 proprietari e grandi affittuari di origine ebraica.

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