Isomorfismo istituzionale e rivoluzione culturale
4.1.3. QUESTIONE NAZIONALE E POLITICA RELIGIOSA
L’avvento del blocco sovietico decretò il temporaneo congelamento dei conflitti nazionali e territoriali. I rapporti fra le “democrazie po- polari” e l’Unione Sovietica vennero regolati da una rete di trattati bilaterali di amicizia e cooperazione economico-culturale. L’ultimo di essi venne firmato nel 1949 da Cecoslovacchia e Ungheria, dopo che il governo di Praga aveva accettato su pressione sovietica di rivedere la propria politica discriminatoria nei confronti della minoranza un- gherese. I conflitti etnici che avevano contraddistinto i decenni prece- denti lasciarono il posto a politiche di integrazione delle minoranze in Bulgaria nei confronti dei turchi e in Romania degli ungheresi (nel 1952, dietro suggerimento sovietico, le autorità concessero una mode- sta autonomia amministrativa alla comunità seclero-ungherese della Transilvania)13. La Cecoslovacchia si limitò a revocare le discrimina-
zioni in vigore contro tedeschi e ungheresi, sopprimendo tuttavia l’autonomia slovacca concessa dopo la guerra. Nonostante la propa- ganda ufficiale affermasse che le tensioni nazionali erano dovute allo sfruttamento capitalistico e si sarebbero automaticamente stemperate con l’instaurazione del socialismo, il fattore nazionale condizionò i rapporti bilaterali tra paesi “fratelli” durante tutta la guerra fredda. Nei primi anni Stalin manipolò l’orgoglio nazionale e le rivendicazio- ni territoriali negli Stati dell’Europa orientale con l’obiettivo di for- giare una nuova cultura popolare «nazionale nella forma, socialista nel contenuto»14.
In Europa orientale la rivoluzione culturale dello stalinismo im- plicò una rilettura radicale del passato nazionale dei singoli popoli. Gli storici ricevettero il compito di indagare ed esaltare eroi popo-
lari ed eventi sociali quali le rivolte contadine del Medioevo, la libe- razione dei servi della gleba nell’Ottocento e lo sviluppo del movi- mento operaio e socialista, mentre le tradizioni nazionali e religiose vennero integrate nella nuova narrativa storica solo se ritenute com- patibili con il principio della fratellanza slava e l’idea di progresso sociale. Il nazionalismo – inteso come chiave interpretativa della formazione e dello sviluppo delle nazioni dell’Europa orientale – venne scalzato dal concetto marxista di lotta di classe. Guerre e sommovimenti politici di ogni epoca furono rielaborati dalla nuova storiografia ufficiale come un’incessante lotta transnazionale condot- ta dal proletariato urbano e dal bracciantato successivamente contro il feudalesimo e la borghesia.
I regimi dell’Europa orientale seguirono una politica religiosa dif- ferenziata, facendo propria la duttilità mostrata da Stalin durante la Seconda guerra mondiale nei confronti della Chiesa ortodossa russa. Nonostante l’obiettivo finale restasse una società secolarizzata, l’esem- pio sovietico insegnava che lo sradicamento della religione richiede non solo tempo ed energia, ma anche la collaborazione della popola- zione. I regimi dell’Europa orientale tentarono di venire a patti so- prattutto con la confessione ortodossa – prevalente in Bulgaria e in Romania e abbracciata da quasi la metà della popolazione in Jugo- slavia – e con le Chiese protestanti, che contavano numerosi fedeli in Ungheria, Cecoslovacchia e Romania e che sin dall’età della riforma luterana si erano caratterizzate come comunità religiose nazionali, an- che se legate all’Europa occidentale. Nel caso romeno e in quello bulgaro le Chiese ortodosse locali ereditavano una tradizione di “sin- tonia” fra religione e Stato (in base all’assunto che ogni regime espri- me la volontà divina) di antica matrice storico-culturale15, mentre in
Jugoslavia molti popi ortodossi avevano addirittura combattuto nelle file dei partigiani. Come ha osservato Fejt ˝o, nonostante le repressioni che portarono all’arresto di alcune centinaia di popi e fedeli contrari a seguire la linea del regime, la scarsità di legami spirituali e diploma- tici dell’ortodossia con l’Occidente rendeva tale confessione un allea- to naturale del regime, intento ad allargare la sua base di sostegno16.
In Romania il patriarca Justinian Marina (1948-77), allineato sulle po- sizioni ufficiali del partito, svolse un ruolo chiave nell’integrazione politica del mondo ortodosso. Nel 1948 la gerarchia ortodossa rome- na collaborò con le autorità statali nello scioglimento forzato del cul- to greco-cattolico, un atto che pose fine con violenza allo scisma della fine del XVII secolo e decretò l’inizio di una dura persecuzione per
centinaia di sacerdoti e monaci e dei loro 1,5 milioni di fedeli17. In
la pace” condotta dai regimi comunisti, sottoscrivendo e propagan- dando l’appello di Stoccolma del 1950 e le successive campagne con- tro l’uso delle armi atomiche. Soprattutto in Romania, la gerarchia ortodossa svolse anche un efficace ruolo di controllo e influenza sul- l’emigrazione politica romena, che pure era assai ostile al comuni- smo.
Un caso particolare fu rappresentato dalla comunità musulmana jugoslava. Nonostante la Costituzione del 1946 ammettesse la libertà di culto, nello stesso anno vennero aboliti i tribunali islamici, furono chiuse le mekteb (scuole elementari dove si insegnavano le basi della religione islamica e del Corano) e abolite le tekke (luogo d’incontro e preghiera dei sufi). Nel 1952 furono messi fuorilegge gli ordini dervi- sci. Nonostante tutti i divieti imposti dall’alto, non mancarono gruppi che pubblicavano clandestinamente testi islamici, la cui diffusione re- stò ufficialmente bandita fino al 1964. Fu concessa soltanto l’esistenza di un’associazione islamica, posta sotto il controllo statale. Secondo Noel Malcolm, soprattutto in Bosnia il dilemma dell’identità musul- mana (religiosa, etnica o nazionale?) rimase largamente irrisolto, no- nostante la posizione ufficiale affermasse che i musulmani «non han- no ancora deciso la loro identità nazionale»18, e si sarebbero gra-
dualmente identificati con i croati o i serbi.
Le persecuzioni più acute furono subite, pur con una certa diffe- renziazione, dalle Chiese cattoliche, legate da un vincolo di fedeltà al Vaticano. I regimi comunisti denunciarono ovunque i concordati sti- pulati nel periodo interbellico con la Santa Sede, disponendo la chiu- sura delle scuole, delle associazioni indipendenti e degli organi di stampa cattolici. Nel 1949 le autorità vaticane reagirono alle repres- sioni con la scomunica dei fedeli e dei religiosi che appoggiavano le idee comuniste. Particolarmente dura fu la posizione assunta in Un- gheria dal regime comunista nei confronti dei cattolici, che formava- no quasi i due terzi della popolazione e dal 1945 erano guidati da un primate combattivo e intransigente, József Mindszenty. Questi critica- va pubblicamente non solo le misure restrittive imposte dalle autorità, come l’esproprio delle terre appartenenti alla Chiesa e lo scioglimento delle associazioni cattoliche, ma anche il sistema politico e sociale in via di edificazione. Dopo l’instaurazione della dittatura monopartitica Mindszenty rimase l’unico ostacolo alla sovietizzazione del paese. Ar- restato nel dicembre 1948 e ripetutamente torturato, fu condannato all’ergastolo l’anno successivo con l’accusa di cospirazione antistata- le19. La persecuzione continuò negli anni successivi con la chiusura
ogni attività pastorale pubblica e l’arresto di molte centinaia di preti e fedeli.
Ancora più brutale fu la politica anticattolica adottata in Cecoslo- vacchia nonostante l’arcivescovo di Praga, Josef Beran, avesse adottato inizialmente una posizione più conciliante nei confronti del comuni- smo. Beran fu arrestato nel giugno 1949 e, pur senza subire alcun pro- cesso, ridotto al silenzio fino al 1963. Nel marzo 1950 venne ordinata la chiusura di tutti i seminari e, il mese dopo, le forze di sicurezza invasero i conventi. Preti e monaci furono espulsi e concentrati in al- cuni di essi, e in seguito trasferiti nei campi di lavoro forzato. I comu- nisti cecoslovacchi cercarono di intimidire la Chiesa cattolica inscenan- do, nel gennaio 1951, processi politici ai vescovi Ján Vojtaˇsˇsák e Mi- chal Buzalka. Nell’aprile 1950 il regime ordinò la dissoluzione della Chiesa greco-cattolica e costrinse i suoi fedeli ad affiliarsi alla Chiesa ortodossa. I credenti mal tolleravano il divieto dell’osservanza dei riti religiosi e il rifiuto dell’ateismo di Stato si avvertì soprattutto nell’am- bito slovacco, dove le tradizioni cattoliche erano più forti20.
In Romania, dove gli oltre 1,5 milioni di cattolici erano divisi in tre comunità nazionali (romeni, tedeschi e, soprattutto, ungheresi), la persecuzione della Chiesa cattolica assunse un carattere etnico. Il ve- scovo di Alba Iulia, Áron Márton, appartenente alla comunità unghe- rese e inviso da tempo al regime, fu arrestato nel 1949 e condannato due anni dopo con l’accusa di complotto antistatale21. Mentre in Ce-
coslovacchia e soprattutto in Romania il regime tentò di creare i pre- supposti per uno scisma con l’appoggio statale alla costituzione di ge- rarchie ecclesiastiche alternative a quelle nominate dalla Santa Sede (in Romania un prete scomunicato istituì nell’aprile 1950 un Comita- to d’azione incaricato di preparare la nascita di un movimento cattoli- co nazionale)22, in Polonia il partito comunista seguì una politica di
doppio binario. Da un lato promosse nel 1947 la creazione di un’as- sociazione cattolica secolare filocomunista (Pax, disciolta nel 1956) e arrestò centinaia di preti e monaci ritenuti ostili, dall’altro concesse alla Chiesa uno spazio pubblico impensabile altrove (l’università cat- tolica di Lublino), la conservazione dei monasteri e dei seminari ve- scovili e, infine, organi di stampa di orientamento cattolico. Il regime di Bierut sfruttò in chiave nazionalista anche la contesa apertasi con l’episcopato tedesco dopo l’attribuzione alla Polonia dei territori ex tedeschi. Nell’aprile 1950 il governo comunista e la Chiesa cattolica, guidata dall’arcivescovo di Varsavia, Stefan Wyszy ´nski, firmarono un accordo – osteggiato dalla Santa Sede – che assicurava spazi e fondi per l’eduzione cattolica nel sistema scolastico e una limitata autono- mia dell’associazionismo cattolico in cambio dell’adesione alle campa-
gne per la pace. A differenza dell’accordo firmato nell’agosto 1950 dai pochi esponenti ancora in libertà della Conferenza episcopale un- gherese (che segnò un’importante vittoria del regime sulla resistenza cattolica), quello polacco garantiva ampi margini di libertà religiosa che il mondo cattolico non tardò a sfruttare.
La persecuzione più capillare e violenta colpì, tuttavia, gli aderen- ti alle sette neoprotestanti e ai movimenti millenaristici fioriti sponta- neamente fra la popolazione in tutta l’Europa sovietizzata e nella stes- sa URSS23. I pellegrinaggi e le appararizioni di santi attorno a luoghi
di culto improvvisati testimoniavano l’esplosione di fede visionaria con la quale il mondo rurale rispondeva alla crisi scatenata dall’attac- co ai suoi valori tradizionali24.