La nazionalizzazione dello spazio e i conti col passato
3.1.1. UN ’ EUROPA “ SEMPLIFICATA ”
La nazionalizzazione dello spazio e i conti col passato
3.1.1. UN’EUROPA “SEMPLIFICATA”
In buona parte dell’Europa orientale la fine della guerra si accompa- gnò alla semplificazione etnica del territorio e dello spazio sociale. L’uso strumentale che le potenze revisioniste avevano fatto della que- stione delle minoranze alla Società delle nazioni indusse non solo l’URSS ma anche gli alleati occidentali a smantellare il sistema giuridi-
co dedito alla loro protezione. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (dicembre 1948), nel quadro dell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU) si affermò un nuovo modello di difesa dei
diritti umani, che venivano ora accordati ai singoli e non collettiva-
mente a comunità linguistiche, nazionali o religiose1. Sin dal 1943-44
esisteva fra gli Alleati un accordo sull’opportunità che nelle regioni postimperiali i confini politici coincidessero finalmente con quelli et- nici, dando vita a spazi nazionali omogenei2. Tony Judt ha osservato:
«Alla fine della prima guerra mondiale si reinventarono e ridisegnaro- no i confini, mentre i popoli furono in genere lasciati dove si trovava- no. Dopo il 1945 accadde il contrario: [...] le frontiere rimasero so- stanzialmente inalterate, mentre furono spostate le persone»3. Il con-
testo storico-sociale e i metodi, mutuati spesso da quelli delle depor- tazioni staliniane dei “popoli nemici”, ne condizionarono l’esito: mol- te regioni dell’Europa orientale si nazionalizzarono in maniera estre- mamente rapida e brutale4.
Dal 1939 al 1950 circa 30 milioni di esteuropei subirono diverse forme di “pulizia etnica”: dallo scambio di popolazione al trasferi- mento coatto, dalla deportazione in campi di lavoro all’annientamen- to fisico in conseguenza di eccidi. Secondo stime prudenti, il proces-
so causò oltre un milione di vittime civili, soprattutto fra le popola- zioni tedesche. La campagna di espulsioni più massiccia, che colpì le comunità tedesche della Polonia, della Jugoslavia e della Cecoslovac- chia (in tutto oltre 10 milioni di persone, di cui 7 dalla sola Polonia), ebbe a modello il trasferimento di greci e turchi sancito dalla conven- zione di Losanna (1923). Durante gli incontri del 1944-45 sul futuro assetto politico e territoriale dell’Europa, Stalin, Churchill e Roosevelt invocarono più volte questo precedente5. Polonia e Cecoslovacchia
non attesero il via libera dato dagli Alleati alla conferenza di Potsdam (luglio 1945) al “rimpatrio” della popolazione di lingua tedesca, giu- dicata collettivamente responsabile per la catastrofe bellica. Nella pri- ma metà dell’anno una campagna di espulsioni selvagge ridisegnò ra- dicalmente la mappa etnica dei Sudeti, della Prussia orientale, della Slesia e della Pomerania, dove pochi furono i tedeschi autorizzati a restare in quanto riconosciuti «antifascisti attivi»6.
Nel 1946-47 metà della popolazione tedesca, circa 200.000 perso- ne accusate di collaborazionismo, fu allontanata dall’Ungheria. In Ro- mania non si procedette a un’espulsione sistematica ma nel 1944-45 un terzo della popolazione tedesca, pari a circa 200.000 persone, ab- bandonò il paese per rifugiarsi nella zona di occupazione occidentale dell’ex Reich. In Jugoslavia l’espulsione si accompagnò a forme parti- colarmente brutali di pulizia etnica. Le comunità italofone dell’Istria e della Dalmazia incontrarono un destino simile a quello delle popo- lazioni di lingua tedesca. La punizione del collaborazionismo corro- borò qui il tentativo delle nuove classi dirigenti locali di eliminare l’antica borghesia urbana. Nonostante gli Alleati non disponessero al- cuna misura di ritorsione collettiva nei loro confronti, le gravi discri- minazioni politiche, economiche e nazionali imposte dalle nuove au- torità jugoslave comuniste indussero la quasi totalità della popolazio- ne, circa 250.000 persone, a preferire l’esodo in Italia7. Le minoranze
ungheresi presenti in Romania (1,5 milioni) e Jugoslavia (500.000) riuscirono a evitare l’espulsione e vennero presto integrate nei nuovi regimi politici, dai quali ottennero un sostanziale rispetto dei propri diritti linguistici e culturali. Gli oltre 600.000 ungheresi della Ceco- slovacchia subirono fino al 1948 discriminazioni analoghe a quelle previste per i tedeschi. Nel corso del 1945 vennero promulgati 13 de- creti presidenziali (noti come decreti Beneˇs) che codificarono giuridi- camente la discriminazione della minoranza ungherese, assimilata nel- la sua responsabilità collettiva a quella tedesca8. L’obiettivo congiun-
to di Praga e Bratislava si spostò dall’iniziale punizione dei “colpevo- li” alla definizione di misure intese a colpire intere categorie di perso-
ne “indesiderabili”. Il 2 agosto venne reso noto il decreto 33 sulla revoca della citttadinanza su base etnica; il primo ottobre, il decreto 88 sull’obbligo generale al lavoro laddove lo richiedesse «l’interesse economico della repubblica»; e infine, il 25 ottobre 1945, il decreto 108 sulla confisca di ogni proprietà alle minoranze da espellere9. Più
fortunati furono gli oltre 800.000 turchi della Bulgaria, ai quali il lo- cale partito comunista, rinnegando il nazionalismo di Stato degli anni trenta, applicò negli anni quaranta e cinquanta una politica di inclu- sione e discriminazione positiva10.
Il trattamento delle minoranze dipese soprattutto da due fattori: il giudizio sovietico sul comportamento passato della comunità minori- taria e la collocazione geopolitica degli Stati coinvolti nel conflitto. A differenza che nel caso dei tedeschi, si esitò a disporre il trasferimen- to nei confini degli Stati titolari degli ungheresi di Transilvania, Slo- vacchia e Jugoslavia e soprattutto degli ucraini delle regioni orientali della Polonia. Nel primo caso pesava non solo l’impossibilità, da par- te ungherese, di accogliere in un paese distrutto oltre 2 milioni di profughi, ma anche la volontà sovietica di tenere a freno il nazionali- smo in entrambi i paesi, lasciando un’importante minoranza unghere- se in Romania. Nel secondo, Stalin operò esclusivamente in base a considerazioni di sicurezza nazionale. Nel settembre 1944 il governo filocomunista polacco firmò, con le autorità sovietiche, un accordo che autorizzava lo scambio delle popolazioni polacca e ucraina nei territori ceduti dalla Polonia all’URSS. Quasi 2 milioni di polacchi ven-
nero scambiati con mezzo milione di ucraini tra acute difficoltà mate- riali ed esplosioni di odio etnico11. Nei territori orientali polacchi lo
stato di guerra non dichiarato fra le due nazionalità, che parlavano lingue e dialetti simili, derivava da complessi contrasti politici. Il forte movimento nazionalista ucraino illegale aveva la propria base proprio nei territori ex polacchi. Nel 1939 molti ucraini accolsero i soldati sovietici come liberatori dal dominio polacco, anche se pochi anni dopo, nel 1943-44, una loro parte giunse a collaborare con l’esercito nazista per fermare l’avanzata dell’Armata rossa. A queste scelte si sommavano contrasti religiosi (fra cattolici, uniati e ortodossi) e, non da ultimo, anche sociali. La rimozione dei polacchi da una città come Leopoli significò l’eliminazione di un pezzo di borghesia centro-euro- pea. La tensione durò fino all’aprile 1947 quando, a scambio di po- polazione ormai completato, il governo polacco decise di deportare oltreconfine gli ucraini di etnia lemko rimasti in Polonia (circa 200.000), accusati di collaborare con la resistenza anticomunista e an- tipolacca ucraina. Il piano, denominato Akcja Wis/la (operazione Vi-
stola) venne attuato nel maggio-giugno 1947 con l’assistenza militare sovietica e cecoslovacca e portò all’espulsione coatta di 140.000 per- sone12. Secondo Orest Subtelny, nel caso del conflitto polacco-ucrai-
no le due parti perseguivano obiettivi assai diversi: come i cecoslovac- chi, anche i polacchi volevano creare uno Stato “nazionale”. Le auto- rità sovietiche, per contro, non intendevano trasformare le regioni ucraine in un’area monoetnica e rimpiazzarono spesso la popolazione polacca con coloni provenienti soprattutto dalla Russia europea13.
Alla semplificazione etnica dell’Europa orientale collaborarono forze politiche diverse sul piano ideologico. In Polonia e soprattutto in Cecoslovacchia la vendetta nei confronti dei tedeschi e degli un- gheresi rispecchiava il sentire comune della popolazione e di tutti i partiti politici: dai gruppi borghesi rappresentati da Beneˇs fino ai più alti dirigenti del partito comunista. In Polonia ebbe l’incarico di mi- nistro per i Territori Recuperati il leader comunista polacco, W/ladi-
s/law Gomu/lka. In Ungheria l’arco politico, invece, si divise: la puni-
zione collettiva dei tedeschi venne propugnata dai comunisti e dal partito nazional-contadino, una formazione di sinistra che raccoglieva parte degli intellettuali vicini al movimento populista degli anni tren- ta, mentre vi si opposero i moderati, alcuni socialdemocratici e la Chiesa cattolica guidata dal cardinale József Mindszenty (egli stesso di origine tedesca). In Romania e in Bulgaria, infine, fino all’instaura- zione dei regimi comunisti la gestione della questione nazionale op- pose le forze di sinistra, favorevoli all’integrazione delle minoranze in cambio della loro lealtà politica, e quelle di destra, che guardavano con simpatia a soluzioni di tipo “cecoslovacco”14.
L’Europa orientale del dopoguerra fu segnata dall’annichilimento delle comunità ebraiche. Nel 1945 rimaneva in vita un milione di ebrei contro gli oltre 5 dell’inizio del conflitto. Gli ebrei scomparvero nella quasi totalità dai paesi baltici, dalla Cecoslovacchia e dalla Jugo- slavia, mentre le comunità più rilevanti rimasero, seppure decimate: quelle romena e polacca, con oltre 300.000 persone, e quella unghe- rese, con circa 200.000. Budapest restò l’unica grande comunità ebraica urbana dell’Europa orientale sopravvissuta alla Shoah15. La
sconfitta del fascismo non portò all’estinzione del pregiudizio antise- mita. Nell’immediato dopoguerra si assisté alla comparsa di quello che il filosofo Bibó definì, in un saggio dedicato alla condizione degli ebrei ungheresi, un «neoantisemitismo» che combinava i più tradizio- nali motivi politico-culturali con la rozza xenofobia prepolitica e con l’invidia sociale cavalcate dai movimenti comunisti16. In diverse loca-
pogrom, che indussero decine di migliaia di persone a emigrare in Occidente o nella neocostituita patria del movimento sionista, lo Sta- to d’Israele, creato nel maggio 1948 grazie al sostegno dell’Unione Sovietica. La drastica diminuzione della diaspora ebraica nelle aree multietniche dell’Europa orientale significò la sparizione di un grup- po sociale intellettualmente dotato, economicamente dinamico, aperto alle influenze occidentali e alle sfide della modernità17. Secondo
Mark Kramer, la strategia di pulizia etnica portata avanti dopo il 1945 contribuì a conferire all’Europa orientale una stabilità etnica conformista che favorì la presa del potere dei partiti comunisti legati all’Unione Sovietica18. Al tempo stesso, alimentò soprattutto nei rap-
porti ceco-tedeschi una spirale di odio e recriminazioni i cui effetti sono visibili ancora oggi.