Gli Stati indipendenti emersi sulle rovine degli imperi erano, in buo- na misura, creature diplomatiche frutto sia di nozioni approssimative, sia di spiriti velleitari. Le loro frontiere non tenevano spesso conto della realtà etnografica, delle consuetudini storiche e del buon senso strategico. La vita politica interna fu dominata, soprattutto tra il 1918-22 e negli anni trenta, da turbolenze economiche, sociali ed et- niche che portarono ovunque entro il 1934, tranne che in Cecoslo- vacchia, allo smantellamento delle forme democratiche di tipo occi- dentale e alla creazione di regimi autoritari, presidenziali, o di monar- chie semiassolute. Nell’Europa orientale del periodo interbellico doz- zine di regioni e città contese dal nome generalmente impronunciabi- le divennero familiari all’opinione pubblica europea, che imparò a co- noscere questa regione come patria dei più inguaribili nazionalisti moderni. Dopo il 1945 si diffuse fra gli specialisti l’opinione che l’in- tera opera di pace di Versailles avesse generato una serie di “Stati falliti” in partenza.
Sarebbe tuttavia un errore giudicare con il senno di poi, alla luce della Seconda guerra mondiale, l’evoluzione storica dell’Europa orientale nel periodo interbellico come solo il preludio di un’inevita- bile catastrofe. Hugh Seton-Watson ammonì per tempo che entrambe le guerre mondiali erano scoppiate in Europa orientale e per l’Europa orientale, ma i loro protagonisti principali non erano stati le popola- zioni e i governi coinvolti, ma gli interessi strategici delle potenze eu- ropee96. Nel 1974 Joseph Rothschild ebbe a precisare sul ruolo dei
movimenti di estrema destra e i regimi autoritari degli anni trenta:
Essi non vollero o non poterono imitare il dinamismo totalitario di Hitler. Il loro approccio alla politica era essenzialmente bucrocratico e conservatore o, al massimo, tecnocratico e oligarchico. Senza progettare alcuna ideologia di massa, non riuscirono o rifiutarono addirittura di carpire il sostegno popola- re. Nonostante la sonora retorica della “mano pesante”, si rivelarono meschi- ni, fragili, spesso irresoluti e generalmente demoralizzanti97.
I regimi politici e gli ordinamenti sociali affermatisi nella regione dopo il 1918 non possono venire facilmente inclusi, come la storio- grafia ufficiale tendeva a fare nell’Europa orientale comunista, nella categoria «fascismo»98, e non ebbero un carattere totale, almeno sino
allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Differenziare i movimen- ti di estrema destra sorti in Europa orientale negli anni venti e trenta
e i regimi collaborazionisti dal fascismo italiano e dal nazismo tedesco non significa sottovalutare le spinte, le tentazioni e le pulsioni di do- minio e odio etnorazziale che animarono partiti politici dall’influenza pubblica crescente99; e non significa neppure aderire alla tesi, assai
in voga nelle nuove storiografie nazionali postcomuniste, di un nazio- nalismo, razzismo e/o antisemitismo puramente mimetico, frutto di adattamento a modelli culturali stranieri (in primo luogo, all’eugeneti- ca e alla biopolitica di ispirazione tedesca, francese e italiana)100. Ri-
valutare criticamente il ventennio interbellico, la capacità di consoli- damento e i motivi dello sfaldamento del sistema di Stati creati a Versailles significa piuttosto cercare di comprendere l’originale coesi- stenza, nell’Europa orientale degli anni venti e trenta, del “vecchio” mondo degli imperi multinazionali e delle nuove realtà nazionali, con il loro corredo di ideologie e proclami.
I rapporti interetnici rappresentano un terreno di analisi partico- larmente istruttivo. Contrariamente a quanto percepito dal senso sto- rico comune, essere tedeschi nella regione dei Sudeti, ungheresi in Transilvania ed ebrei in Ungheria o in Polonia non rappresentò affat- to una condizione intollerabile fra le due guerre. Nonostante le di- scriminazioni giuridiche e le ancora più frequenti vessazioni informa- li, la vita quotidiana delle popolazioni minoritarie era regolata sotto molti aspetti da un sistema di norme plurisecolare e reciprocamente accettato. Alla chiusura di una scuola pubblica si reagiva con una raccolta di fondi per aprirne una confessionale; a un’ingiuria, con una denuncia pubblica; alla perdita di un incarico pubblico per motivi et- nici, con l’apertura di un’attività commerciale. L’inviolabilità della proprietà privata fu sfidata, ma non annullata dalle riforme agrarie a carattere “etnico” del primo dopoguerra. Fino al 1938-39 molte delle principali città cecoslovacche, jugoslave, polacche e romene conserva- rono intatta la propria popolazione, la propria struttura sociale e la propria tipica cultura, scandita da rituali e abitudini propriamente borghesi. Solo la Seconda guerra mondiale, l’occupazione tedesca e l’avvento dei regimi comunisti avrebbero spazzato via in appena un decennio questo consolidato equilibrio sociale.
Negli Stati indipendenti dell’Europa orientale l’arbitrio statale e poliziesco si mescolava a spazi di libertà impensabili nel cinquanten- nio successivo, anche per quanto riguarda la sfera culturale. Chiun- que si trovi a sfogliare quotidiani e riviste dell’epoca resterà stupito dall’apertura e dalla ricchezza del dibattito politico e sociale, possi- bile non solo grazie alla (talvolta relativa) libertà di stampa, ma an- che grazie all’assenza di meccanismi di autocensura nei giornalisti e
negli intellettuali. L’eredità forse più positiva del ventennio interbel- lico, soprattutto alla luce della successiva egemonia tedesca e dei tentativi di sovietizzazione dopo il 1948, fu costituita dall’affermarsi nell’Europa centro-orientale postimperiale di una cultura politica di massa, al centro della quale stava lo Stato nazionale indipendente. Tale cultura e tale retaggio avrebbero assunto un’importanza vitale dopo il 1989, al momento della ricostruzione di comunità nazionali sovrane101. Il fallimento di Versailles deve essere attribuito a una
combinazione di fattori interni ed esterni. Il peso di questi ultimi fu probabilmente maggiore di quanto sospettato dai critici coevi delle “democrazie impossibili”.