L’Europa orientale nella sfera di influenza sovietica
3.2.3. RIVOLUZIONE A TAPPE ? DEMOCRAZIE POPOLARI E SOVIETIZZAZIONE
«Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occu- pa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno im- pone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente»39. La confidenza fatta da Stalin
nell’aprile 1945 alla delegazione jugoslava in visita a Mosca, riportata da Milovan –Dilas nelle sue celebri Conversazioni con Stalin (1962), viene spesso invocata per dimostrare l’inevitabilità dell’instaurazione di regimi politici di tipo sovietico in Europa orientale. La storiografia discute da decenni sul grado di pianificazione dell’egemonia sovietica e gli eventuali margini di manovra dei paesi occupati dall’Armata ros- sa. Secondo Hugh Seton-Watson e Zbigniew Brzezinski, fino dal 1944-45 Stalin puntava a creare una situazione rivoluzionaria che gli consentisse di soggiogare militarmente e politicamente buona parte dell’Europa. L’URSS avrebbe attuato un preciso piano di estensione
della propria influenza inteso a eliminare qualunque forma di opposi- zione interna40. Le truppe e i consiglieri politico-militari sovietici sul
campo si comportarono in tal senso e ottennero l’immediata distru- zione di gran parte dell’opposizione. In Cecoslovacchia, Ungheria e Romania i sovietici ottennero per i partiti comunisti locali il controllo dei dicasteri cruciali: Interno, con le forze di polizia e gli apparati di sicurezza, Propaganda e Istruzione. Ovunque venne data grande im- portanza al monopolio sulle organizzazioni giovanili.
François Fejt ˝o ha sostenuto che nella concezione strategica sovie- tica l’esigenza di sicurezza interna prevaleva sulla spinta espansiva e che Stalin prevedeva per questi paesi una fase di transizione medio- lunga di “democrazia popolare”41. I dirigenti sovietici intendevano
ze socialiste e borghesi nei fronti popolari di Francia e Spagna negli anni trenta. Questo modello venne ripreso e ampliato per la forma- zione, dopo l’aggressione nazista all’URSS, di fronti nazionali, che in-
cludevano anche i monarchici. Contrariamente alle aspettative dei co- munisti esteuropei di una rapida presa del potere sul modello della “dittatura del proletariato”, le istruzioni fornite nel 1943-44 dal Di- partimento per le relazioni internazionali del PCUS, guidato da Dimi-
trov e dall’ucraino Manuil’skij, prevedevano governi retti da coalizio- ni parlamentari e riforme agrarie moderate, intese a espropriare i lati- fondisti criminali di guerra ma non la piccola e media proprietà. An- cora nel 1946, soprattutto in Polonia, Stalin raccomandò prudenza, nella convinzione che la peculiare situazione del paese, materialmente distrutto e privato delle sue tradizionali élite, favorisse una transizio- ne graduale e pacifica al socialismo.
Lo schema interpretativo di una fase democratica autentica, alla quale seguì una sovietizzazione violenta e imposta dall’esterno, pro- posto negli anni cinquanta da Fejt ˝o e accettato da numerosi autori, era modellato sulla Cecoslovacchia postbellica, in cui una coalizione governava, con il partito comunista in posizione eminente ma non egemone. Secondo Brzezinski, tuttavia, i sovietici utilizzarono l’e- spressione “democrazia popolare” per distinguere i sistemi politici da essi patrocinati e offrire così ai paesi caduti sotto il loro controllo una nuova struttura politico-economica, né borghese, né socialista, ma in tensione dinamica dalla prima verso la seconda. Secondo lo storico russo Leonid Gibianskij, il concetto di democrazia popolare venne strumentalmente utilizzato da Stalin per ingannare l’Occidente e i partiti non comunisti dell’Europa orientale42. Joseph Rothschild offre
una visione più articolata. L’Unione Sovietica avrebbe inteso le de- mocrazie popolari come una particolare categoria storico-evolutiva a metà strada fra l’“arretrato” Occidente e la più avanzata URSS. Con
ciò la leadership staliniana raggiunse due obiettivi: giustificò la dipen- denza politica e ideologica di quei paesi dall’URSSe creò le condizioni
per poter intervenire nel caso le politiche qui attuate venissero giudi- cate un arretramento «controrivoluzionario» rispetto allo stadio di sviluppo già raggiunto43.
Per descrivere i rivolgimenti politici e sociali intervenuti nel se- condo dopoguerra in Europa orientale si utilizza frequentemente il termine “sovietizzazione”, che condensa impropriamente fenomeni storici diversi: l’espansione militare sovietica del 1944-45, la creazione di regimi comunisti in Europa orientale e l’integrazione socioculturale di quest’area nello spazio sovietico. In realtà, il termine sovietizzazio- ne si addice più propriamente ai territori annessi e/o militarmente oc-
cupati dall’URSS nel periodo 1939-45 (Estonia, Lettonia, Lituania,
Bessarabia e Bucovina settentrionale romene, Carelia finlandese, Prus- sia orientale tedesca, Galizia orientale e Belarus occidentale polacca, Ucraina subcarpatica cecoslovacca). Qui il potere sovietico si impose durante la guerra con tempi rapidi e metodi brutali: espropri, colletti- vizzazione agricola e deportazione di parte della popolazione preesi- stente. Sovietizzazione resta, tuttavia, un termine inadeguato al fine di descrivere la complessa e talvolta contraddittoria sequenza di cambia- menti intervenuti fra il 1945 e il 1948 in Europa orientale. La conqui- sta del potere da parte dei comunisti non fu predeterminata da un singolo piano valido per tutta la regione, ma ebbe luogo attraverso una serie di tappe intermedie come prodotto finale di tre spinte: la pressione sovietica e dei partiti comunisti locali sugli eventi politici; la resistenza delle forze non comuniste, appoggiate solo a intermittenza dall’Occidente, e il deteriorarsi dei rapporti tra gli Alleati, che con- dusse alla creazione di blocchi politico-militari contrapposti.
L’obiettivo di Stalin non era, nel breve periodo, il raggiungimento della rivoluzione politica e sociale, quanto, piuttosto, «il controllo dei nuovi governi dell’Europa centro-orientale, dai quali dovevano essere banditi, o confinati all’impotenza, uomini politici anti-sovietici o filo- occidentali»44. Nelle parole del leader comunista tedesco Walter Ul-
bricht, «tutto deve sembrare democratico ma dobbiamo avere tutto sotto il nostro controllo»45. Il problema della sicurezza militare so-
vietica come fattore cruciale dell’espansione politica viene ribadito nell’analisi di Kramer. La decisione di Stalin di incoraggiare la forma- zione di regimi di tipo sovietico sarebbe stata influenzata da una serie di considerazioni tattiche, più che ideologiche. L’Europa orientale rappresentava per la direzione sovietica un’unica fascia di sicurezza; i conflitti territoriali e nazionali nella regione vennero congelati a parti- re dal 1947. La priorità sovietica divenne la stabilizzazione dei confini europei e del nuovo assetto statale e sociopolitico. Un’importanza particolare rivestirono sul piano militare e strategico la Germania, la Polonia e la Cecoslovacchia. Questo asse sarebbe divenuto, negli anni cinquanta, il nucleo industriale più sviluppato e insieme il fronte set- tentrionale delle truppe del Patto di Varsavia, contrapposto alla Ger- mania Occidentale. Da un punto di vista politico, l’URSS occupò nel
1945 il vuoto di egemonia lasciato dalla Germania sconfitta; a diffe- renza del periodo interbellico, l’Unione Sovietica era ora in grado di stabilire un dominio effettivo e duraturo sulla regione. I partiti comu- nisti erano generalmente usciti rafforzati dalla guerra, le leadership locali si mostravano fedeli a Mosca e in molti casi facevano ritorno in patria dopo un lungo periodo di emigrazione in URSS. L’atteggiamen-
to degli occidentali, infine, fu contraddistinto da rassegnazione e in- differenza, come emerge dal loro comportamento verso la rivolta di Varsavia (1944) e, soprattutto, dalla rinuncia a raggiungere per primi la capitale cecoslovacca Praga (maggio 1945)46.
I paesi dell’Europa orientale subirono, almeno fino al 1947, un trattamento diversificato da parte sovietica anche in considerazione della situazione politica locale. In Jugoslavia e in Albania, grazie al contributo militare prestato alla resistenza, i partiti comunisti nazio- nali guidati da Tito e da Hoxha ottennero sin dal 1945 il monopolio del potere, eliminarono senza esitazione gli avversari politici e avvia- rono subito la statalizzazione dell’economia47. In Bulgaria (9 settem-
bre 1944) e Romania (6 marzo 1945), monarchie nelle quali i partiti comunisti si contrapponevano a forze “borghesi” e nazional-contadi- ne di una certa consistenza, i sovietici ottennero la formazione di go- verni nei quali il partito comunista deteneva alcuni ministeri chiave, come quello degli Interni e della Giustizia. Gli occidentali tentarono senza successo di influire sulla politica locale attraverso le Commis- sioni di controllo. Nel caso polacco, per molti versi simile a quelli bulgaro e romeno ma contraddistinto dalla peculiare importanza del paese nella visione di Stalin, l’intervento sovietico assunse un caratte- re molto più diretto e violento: la Polonia doveva assumere un ca- rattere socialista, innanzitutto per garantire la sicurezza sovietica48.
In Ungheria e soprattutto in Cecoslovacchia, infine, l’URSS autorizzò
la creazione di genuine coalizioni antifasciste, con ampia ed effettiva rappresentanza di partiti non comunisti, in seguito a libere elezioni. Rispetto al resto dell’Europa orientale, qui la presa del potere politi- co venne ritardata di alcuni anni e attuata con autentici colpi di Sta- to. Nel valutare il processo di sovietizzazione dell’Europa orientale occorre tenere anche conto dei cambiamenti interni nell’Unione So- vietica postbellica. Molti dirigenti sovietici ritennero necessario sog- giogare l’Europa orientale (il cui relativo benessere milioni di soldati dell’Armata rossa avevano potuto constatare con i propri occhi) an- che per prevenire un backlash ideologico nella stessa URSS49.