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L ’ ECOSISTEMA STALINISTA

Isomorfismo istituzionale e rivoluzione culturale

4.1.2. L ’ ECOSISTEMA STALINISTA

Negli anni che precedettero la morte di Stalin il complesso di norme, valori e simboli, che David L. Hoffmann definisce l’«ecosistema cul- turale» dello stalinismo, si stabilì in un’Europa orientale al culmine della guerra fredda e lasciò tracce che sopravvissero alla morte del dittatore sovietico4. Mai come tra il 1949 e il 1953 il sistema delle

comunicazioni (documenti d’archivio, giornali, programmi radiofoni- ci, cartellonistica) di una così vasta area d’Europa fu dominato dal- l’impulso ideologico e dall’ansia di uniformità. Nei titoli dei giornali, nei cinematografi e nelle case del popolo, perfino nelle riviste umori- stiche, dominavano ovunque gli stessi temi e personaggi. La pianifica- zione culturale non si limitava a censurare le informazioni destinate al pubblico, ma plasmava anche lo stile dei giornali, offrendo al lettore un’interpretazione omnicomprensiva della realtà. Nella sfera pubblica, nelle assemblee di partito e nei dibattiti politici la gente comune si trovava di fronte a una neolingua impregnata di ideologia: l’Occiden- te era invariabilmente “marcio”, “decadente”, “imperialista”; la classe operaia, “avanguardia” del socialismo, conduceva una lotta incessante contro il nemico esterno (l’imperialismo) e interno. Si trattava dei “residui del capitalismo”: la piccola e media borghesia; i kulaki, con- tadini il cui reato consisteva nel possedere troppa terra; i “sabotatori” del progresso economico. I nuovi regimi intervennero anche sulla to- ponomastica: l’antica città transilvana di Bra¸sov (in tedesco Kron- stadt) fu ribattezzata nel 1950 Ora¸sul Stalin (Città di Stalin) e recupe- rò il proprio nome solo un decennio più tardi.

Stalin e i leader comunisti locali (l’ungherese Rákosi, che si con- quistò presto il titolo di «miglior discepolo di Stalin», o il bulgaro ˇCervenkov, il quale splendeva della «luce riflessa del culto della per- sonalità di Stalin»5) erano venerati come creature soprannaturali, a

eccezione forse del polacco Bierut, oggetto di attenzioni più sobrie. I loro genetliaci erano celebrati con sfarzo; il loro profilo, immortalato in innumerevoli creazioni artistiche: poesie, romanzi, dipinti, statue6.

Nelle fabbriche nazionalizzate spuntarono ovunque “lavoratori d’as- salto” e stakanovisti, operai che stabilivano record di produzione e diventavano eroi celebrati dalla stampa. Le aziende di città e regioni lontane si impegnavano in “gare socialiste”, organizzate in vista delle

festività ufficiali: oltre al primo maggio, il 7 novembre e i diversi an- niversari della liberazione dal fascismo.

La società e la cultura sovietiche divennero oggetto in Europa orientale di un’emulazione parossistica. La scienza sovietica godeva di un primato indiscutibile; ogni scoperta o innovazione tecnologica (in campo medico, biofisico, atomico) proveniente da Mosca era ce- lebrata come la dimostrazione della superiorità del modello di svi- luppo socialista, mentre analoghi risultati ottenuti nei paesi occiden- tali erano ignorati o derisi. Gli intellettuali vennero irreggimentati in associazioni professionali altamente politicizzate quale l’Unione degli scrittori; agli artisti venne consentito di aderire a una sola dottrina estetica, il “realismo socialista” di ispirazione sovietica. Come teoriz- zato fin dal 1934 da Andrej ˇZdanov, esso richiedeva «una rappre- sentazione veridica, storicamente concreta della realtà nel suo svi- luppo rivoluzionario». La pittura astratta, la poesia simbolista, la musica dodecafonica e, naturalmente, il jazz – tipico prodotto di importazione capitalista – furono banditi e i loro maggiori interpreti perseguitati a norma di legge o costretti a rinnegare i propri canoni artistici.

La stalinizzazione investì in modo radicale il sistema dell’istruzio- ne. A partire dall’anno scolastico 1948-49 l’educazione e la ricerca fu- rono rivoluzionate per conformarle al modello sovietico. Vennero create, o profondamente riformate, le accademie delle scienze i cui istituti di ricerca, epurati del personale indesiderato e sottoposte a un rigido controllo statale, godevano di un assoluto monopolio sulla creazione e la diffusione della cultura umanistica e delle scienze so- ciali. Le università furono ridotte, secondo il modello sovietico, a luo- ghi di insegnamento superiore senza funzioni di ricerca. Nella selezio- ne degli studenti, sino all’inizio degli anni sessanta restò in vigore il criterio dell’ammissione differenziata secondo criteri di classe. L’ac- cesso all’istruzione superiore, soprattutto nelle materie ritenute mag- giormente “ideologiche” (storia, filosofia, diritto, economia), era riser- vato a chi proveniva da una famiglia classificata come “operaia” o “contadina povera”. La lingua latina, la sociologia e la psicanalisi fu- rono eliminate dal curriculum scolastico. L’apprendimento della lin- gua russa si affiancò e spesso soppiantò a ogni livello, dalle scuole elementari all’università, quello delle lingue di comunicazione tradi- zionalmente utilizzate dalle classi colte, il francese e il tedesco; men- tre le materie tecnico-scientifiche sfidavano il tradizionale primato delle discipline umanistiche in Europa centro-orientale. Lo studio comparativo intrapreso da John Connelly sull’evoluzione dei sistemi universitari polacco, tedesco orientale e cecoslovacco negli anni cin-

quanta mostra tuttavia una resistenza culturale particolarmente forte in Polonia da parte della comunità accademica, la cui solidarietà cor- porativa ebbe spesso la meglio sui dettami ideologici7.

L’età dello stalinismo maturo determinò anche una riorganizza- zione dello spazio amministrativo e l’applicazione dell’utopia rivolu- zionaria all’urbanistica. A partire dal 1949, le riforme territoriali so- stituirono il modello prefettizio francese con quello sovietico, dispo- sto su tre livelli (comune, distretto, regione). I confini delle capitali vennero allargati mediante l’assorbimento degli insediamenti confi- nanti. L’obiettivo era di trasformarle in metropoli e agglomerazioni urbane, che funzionassero come vettori di modernizzazione e conte- nitori di una classe operaia in rapida espansione. Nei piani regola- tori, il sobrio razionalismo di ispirazione occidentale dell’epoca in- terbellica lasciò il posto al gigantismo neoclassico di impronta stali- niana, simbolizzato da realizzazioni quali il Palazzo della cultura e della scienza di Varsavia, l’arteria denominata Stalinallee di Berlino Est e la sede centrale della stampa di Bucarest (Casa Scânteii)8.

Antiche città di grande importanza, centri universitari e residenze vescovili furono declassati per motivi politici a “villaggi”, destinati a una rapida decadenza.

Enormi investimenti, al contrario, furono stanziati per edificare nuove “città socialiste”9 (Nowa Huta in Polonia, costruita a pochi

chilometri dalla borghese e conservatrice Cracovia; Sztálinváros – oggi Dunaújváros – in Ungheria; Stalinstadt, presso la frontiera tede- sco-polacca, vicino a Francoforte sull’Oder), complessi urbani multi- funzionali progettati, seguendo ancora una volta il modello sovietico, attorno a nuovi stabilimenti industriali con l’idea di trasformarli in avamposti (e i loro abitanti in pionieri) del socialismo. Nelle nuove città e nei quartieri operai ai margini delle capitali il regime speri- mentava con maggiore audacia il proprio modello di società. La pro- grammazione del tempo libero coinvolgeva la quasi totalità della po- polazione, attraverso le organizzazioni di massa, nelle attività ricreati- ve gradite al regime: gli sport, con una preferenza per quelli collettivi e in particolare il calcio, considerato il passatempo ideale delle masse popolari. Gli sport individuali, soprattutto il tennis, furono margina- lizzati perché ritenuti “aristocratici”. Lo storico che ha studiato la creazione della prima “città socialista” ungherese rileva tuttavia che negli anni cinquanta Sztálinváros somigliava ben poco all’ordinato fa- lansterio rivoluzionario progettato dalle autorità. Fra le decine di mi- gliaia di nuovi abitanti predominavano gli “elementi declassati” (gio- vani teppisti, prostitute e piccoli delinquenti di ogni sorta)10. Le pro-

teste sociali erano all’ordine del giorno in una città che nel novembre 1956 avrebbe tentato di resistere armi in pugno all’invasione sovieti- ca. Per ovviare alle conseguenze del disagio sociale e prevenire l’e- mergere del malcontento, all’educazione politica obbligatoria a ogni età e livello professionale venne assegnata una grande importanza. Per molti cittadini, soprattutto di origine contadina, le fondamenta ideologiche del socialismo non superavano i confini di una generica pedagogia di stampo illuminista. I corsi di igiene insegnavano alla gente a lavarsi le mani e i denti, le lezioni di puericultura spiegavano alle mamme lavoratrici come combinare le due attività, mentre nelle case della cultura gli attivisti di partito illustravano l’origine dell’uma- nità, tentando di convincere il pubblico della superiorità scientifica del darwinismo sul creazionismo.

L’Europa orientale della guerra fredda era isolata dall’Occidente non solo fisicamente, attraverso la chiusura delle frontiere e il rifiuto da parte delle autorità di rilasciare passaporti e visti, ma anche da un punto di vista culturale. Le ambasciate occidentali furono costrette a ridurre al minimo il personale e l’attività diplomatica. In molte capi- tali vennero chiusi i centri culturali e le biblioteche gestite da un pae- se occidentale. Perfino la corrispondenza e le linee telefoniche, sotto- poste a un rigido controllo, funzionarono a intervalli fino alla metà degli anni cinquanta. I confini restarono a lungo quasi impenetrabili all’interno dello stesso blocco sovietico. Famiglie e amici che la guer- ra aveva diviso attesero anni, talvolta decenni, prima di potersi nuo- vamente incontrare.

L’unico contatto assicurato con il mondo esterno, tra mille rischi personali e difficoltà tecniche di ricezione, rimase l’ascolto delle radio occidentali che diffondevano programmi politici e di intrattenimento nelle varie lingue nazionali. La più nota di esse, Radio Free Europe (RFE), iniziò a trasmettere su onde corte il 4 luglio 1950 verso la Ce-

coslovacchia da Monaco di Baviera. I programmi, curati da un appa- rato di centinaia di giornalisti e tecnici, erano finanziati dal Congresso statunitense (fino al 1971 direttamente attraverso la CIA)11. La guerra

ideologica Est-Ovest correva sull’etere. A Praga funzionò dal 1950 al 1968 un’emittente clandestina finanziata dai governi comunisti del- l’Europa occidentale e gestita da esponenti del partito comunista ita- liano, riparati in Cecoslovacchia dopo il 1948. I suoi programmi in lingua italiana (Oggi in Italia) offrivano un’informazione alternativa alle trasmissioni ufficiali ed erano ascoltati negli anni cinquanta da milioni di persone anche nel nostro paese e fra le comunità di emi- grati italiani dell’Europa occidentale12.

Agli occhi delle élite comuniste – la “nuova classe” descritta dallo jugoslavo Dilas – l’Unione Sovietica non rappresentava solo il centro di un impero militare e politico, ma anche il culmine di una nuova civiltà. Nei primi anni del socialismo le migliaia di giovani, in gran parte di origine operaia e contadina, inviati da tutta l’Europa orienta- le a istruirsi nelle università di Mosca e Leningrado, si sentivano par- te di un’avanguardia politica e culturale incaricata di veicolare il mes- saggio dei nuovi tempi. A Mosca, divenuta il crocevia culturale e di- plomatico del blocco sovietico, si incontravano le nuove classi diri- genti dell’Europa orientale: politici in missione, intellettuali e funzio- nari di partito in corso d’aggiornamento, borsisti universitari, econo- misti e artisti.

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