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Bāʿabūd nelle Maqāmāt-i Hindī

La vita di Bāʿabūd pare condividere qualche elemento in comune con il narratore della sua maqāma. Entrambi sono yemeniti ed entrambi sono giunti, attraversando probabilmente l’Oceano Indiano, in India a Surat. Nelle narrazioni il narratore comunica inoltre un sentimento di continuo sconforto che potrebbe essere quella dell’espatriato dell’autore generato dal suo esser straniero in India. Nella prima maqāma riferisce riguardo la condizione di dissidio nell’essere lontano dalla terra natale affermando di avere un desiderio tale come “come l’emigrato il rimpatrio”. Tale condizione di sconforto è affermata nella trentaduesima maqāma dove si afferma che una certa terra era talmente perfetta che “là lo straniero dimenticava la gente e la terra natale”. Nella seconda maqāma il fatto di esser straniero è presentato come una pena quando una donna riferisce al marito: “Se non fosse che sei uno straniero ti avrei fatto ciò che ti avrebbe portato a necessitare un medico”. Il seppellimento di un morto straniero, infine, è l’espediente impiegato con successo da Abū al-Ẓafar per commuovere i suoi uditori: “Chi di voi è capace di piangere, destini una somma alla sepoltura di questo morto straniero” (maqāma 10).

Una serie di riferimenti allo Yemen, terra d’origine di Bāʿabūd, trovano inoltre spazio all’interno della raccolta. Come ha sottolineato Masʿūd ʿAmshūsh (ʿAmshūsh, 2005, pag. 3), Bāʿabūd si riferisce probabilmente a delle tribù beduine che attraversavano le valli dell’Haḍramawt all’inizio della settima maqāma: “si propagarono i beduini nella maggior parte delle valli. Superarono i valichi e diffusero le guerre”. Nella trentesima maqāma viene compiuto un elogio al centro di studi del

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Quanto a timor di Dio, lealtà, fede e religiosità non ho visto nessuno come le genti di un paese di cui ho dimenticato il nome, ma di cui non si è cancellata ai miei occhi la forma. È circondato da due valli. Una si chiama al-ʿAydīd e in essa ogni dotto è nobile. L’altra è chiamata al-Naʿīr nel quale si riunisce ogni buona azione e bontà. Lei è locata in mezzo a queste due e, desiderano il suo bene le anime come per lo sposo. Vicino a lei vi sono altri paesi nei quali si riunisce e si accumula ogni grazia».

Il nome Tarīm non compare ma, come ha sottolineato lo studioso della letteratura

ḥaḍramī – Masʿūd ʿAmshūsh – le due valli circondano tale città.

Un più generale riferimento allo Yemen lo si può riconoscere nella descrizione della carestia e dell’aridità del suolo che spinge al-Nāṣir b. al-Fattāḥ a viaggiare in alcune maqāma (6, 13, 17, 35) come spinse numerosi Ḥaḍramī – e forse anche Bāʿabūd – all’interno dell’Oceano Indiano.

Se, infine, Bāʿabūd ebbe un certo impiego nelle milizie del Gujarat (al-

Ḥabashī, 1999, pag. 12), si potrebbe spiegare l’attenzione – inedita nel genere – per il

mondo militare che si può riscontrare in più maqāma. Nell’undicesima maqāma i compagni di Bāʿabūd chiedono consiglio a un uomo su come poter essere arruolati. L’uomo li illumina allora sulla misera vita che gli attenderà:

Chi ha cercato di entrare in quest’esercito ha fatto fallire Iddio i suoi intenti. Chi lo invidiava ha goduto così del suo male. Il suo oppositore ha avuto successo. Ciò che è di lui bello non vale alcuni suoi orrori. Il suo guadagno non è sufficiente per la sua esiguità alle sue perdite. La sua letizia è l’amarezza. Il suo sonno è la veglia. La sua acqua è il fango. La sua terra è il letame. La sua aria è una nube di polvere. Il suo avanzare è il suo regredire.

Nella quinta maqāma degli uomini chiedono a Dio che per l’ospitalità ricevuta dia lui delle armi: “Pregarono allora per lui, per il tempo ameno, per il cibo della sincerità e della fedeltà, che angeli portassero sulle loro ali superbe armature ed equipaggiamenti”. Nella trentaquattresima maqāma descrive la formazione di spedizione armata per la consegna di denaro da parte di un governante: “Gli diede dieci cavalli di quelli intelligenti e tutto ciò che necessitava in armi e armamenti. Gli ordinò di prendere ciò che voleva o che gli fosse utile”. Nella venticinquesima

maqāma descrive una prigione e spiega come al-Nāṣir b. al-Fattāḥ, travestito da sorvegliante, riesce a infiltrarsi e a far involontariamente fuggire Abū al-Ẓafar:

Mi portò il destino a passare per la roccaforte di al-Qawalīr. La vidi allora come se stesse in compagnia delle stelle e nascosta dalle nuvole, o come se ambisse sapere cosa c’era nella tavola del destino decretato. Si era allontanata nel cielo la sua altezza al punto che erano uguali il suo suolo e i suoi lampadari. Era imperscrutabile alla ricerca e a colui che indaga. Era eretta sui più stretti percorsi, e nei luoghi più aspri. Volli andarci per osservare ciò che vi era. Mi dissero: «A nessuno è permesso entrarci, né di sostarci, né di abitarci giacché, quando il re è in collera con qualcuno, lo invia al suo wālī perché venga imprigionato nelle sue altezze». Offrii allora un po’ del mio denaro ad alcuni servi del wālī e mi fu messo il vestito dell’addetto al carcere. Mi disse: «Entra con animo sereno». Quando entrai, rabbrividì la mia pelle poiché all’apparenza era l’indulgenza, ma nel suo interno, nel suo cuore, era il tormento. Vidi uomini con capelli e unghie lunghe come morti, solo che le tombe non avevano mangiato i loro corpi.

Nella trentatreesima maqāma descrive un fallito assedio:

Inviò dunque uno squadrone militare ma non si vidi più nessuno tornare da quel villaggio. Continuarono a essere inviati truppa dopo truppa e lui gli sgominava al punto che furono imponenti presso la gente le perdite.

Al-Nāṣir b. al-Fattāḥ e descritto all’inizio di alcune maqāma con milizie e autorità militari (maqāma 21 e 38). Abū al-Ẓafar è descritto nelle maqāma 23, 31 e 32 come quello che guida le milizie: “sono Abū al-Ẓafar l’indiano e non v’è in questo paese se non il mio popolo e i miei soldati” (maqāma 23), “io sono Abū al-Ẓafar l’indiano e quante volte ho guidato le milizie, ho posseduto abissini” (maqāma 32), “io sono Abū al-Ẓafar: l’indiano famoso […] sono il signore degli indiani e il capo delle milizie” (maqāma 31). Nella ventisettesima maqāma viene descritta una guerra contro i kharijiti: “Non cessammo di far piombare dal cielo grandine come pezzi di montagne. Furono annientati le cavalcature, i cammelli e gli uomini del nemico”. Nella quarantatreesima maqāma la fuga del narratore dalla città è dettata

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dall’imminente arrivo di un esercito: “il nemico è sulle loro tracce”. Un ulteriore richiamo alla vita militare, infine, è presentato dalle proposte avanzate da alcuni emiri di reclutare dei soldati (maqāma 7, 9): “arruolati nell’esercito e vai a far parte di quelli che pianificano e progettano” (maqāma 9).

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