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La ventinovesima maqāma: quella di al-Narūl

Raccontò al-Nāṣir b. Fattāḥ:

Viaggiai con alcuni servi nella terra di Narūl per comprare del ferro. Non vi trovai che solo due fabbri e un gruppo di altri due. Erano però tutti di scarso valore. Mi si strinse allora il cuore per la mancanza di un compagno. Mi accaddè quindi di passare presso il luogo dei mendicanti. Vi vidi l’abile, il letterato, l’ingegnoso e

l’astuto. Acquistai da loro degli aneddoti brillanti e dei versi sublimi. Mi si schiuse allora il cuore alla loro vicinanza. Infine desiderai parlare con loro e discutere. Dibattei riguardo all’esercizio delle coppe della letteratura e della poesia. Richiamavamo aneddotti e aneddoti di meraviglie e storie. Non smettemmo sino a quando vedemmo lo schiarire del giorno.

Quando mi proposi di separarmi, trovai allora che era una questione insopportabile. Mi colse il pianto e la svenevolezza. Mi impegnai però a sopportare il dolore.

Li salutai. Le lacrime scorrevano come torrenti. Il dispiacere era da me trainato come uno strascico.

Quando mi divisi da loro vidi uno shaykh suggerire al figlio. Diceva: «Oh figlio mio, devi essere molto silenzioso. Guardati dal superfluo se dovrai rispondere ad un emiro prepotente che non distingue nella collera gli ignobili dai buoni e che non distingue tra il freddo ed il caldo. Se sarai interrogato con numerose parole non rispondere che con una parola che colpisce nel segno. Non volgerti in sua presenza a destra o a sinistra. Non guardare i volti di chi possiede la bellezza. Siediti come se su di te fosse un coltello. Non giocare con le mani. Quando esci dal suo cospetto non rivelare ciò che hai sentito o visto. Non dire a nessuno ciò che gli hai raccontato».

Disse il ragazzo: «Mi ha comunicato ciò l’orecchio della coscienza, il quale all’elevatezza morale è il più nobile incitatore. Padre mio, abbiamo bisogno di un po’ di dirham e di un po’ di dīnār per versarli ai cortigiani e ai servitori dell’emiro».

Disse: «Hai dimenticato quanto ha riferito il capo famoso quando lo incontrammo e lui era sulle sponde di un bacino? Non aveva detto: “troverai un mercante che commercia nel ferro che ti darà il denaro che vorrai giacchè gli sono procurate – per tua foruna – vittorie attraverso le più basse azioni, gioie e molti profitti”?»

Mi dissi: “Hai un buon auspicio da questa indicazione”. Andai innanzi a lui e lo salutai. Accettò il mio saluto con la coda dell’occhio e non si voltò verso di me come se avessi sottratto qualcosa dalle sue mani.

Gli chiesi: «Non potrei essereti compagno aiutandoti nello svolgere l’inganno?»

Rispose: «a condizione che tu sia più ubbidiente di un calzolaio e non venga da te recato danno».

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Dissi: «Ti sarò più ubbidiente di una moglie proba al marito. Sarò più vile e spregevole di una scarpa».

Disse: «Cammina innanzi a me e trai profitto dalle mie parole. Guardati da chi ti segue e dammi ciò che possiedi in via precauzionale».

Gli diedi quanto possedevo in quel tempo: mille monete rosse del conio di Shāh Jahān129. Andammo quindi alla casa dell’emiro della città. Entrammo al suo cospetto il giorno della festa. Ci diede il benvenuto e ci fu chiesto allora il motivo del nostro ritorno.

Rispose lo shaykh: «Veniamo fuggendo dagli infedeli dalle montagne innevate in cerca del vostro aiuto».

Guardò il ragazzo coi suoi occhi. Fu sedotto allora dalla sua educazione, bellezza e fascino.

Dissse allo shaykh: «Potessi tu lasciare tuo figlio presso di noi a istruire i nostri figli e servi. Poiché vedo in lui l’educazione di miglior diletto e profonda ampiezza».

Rispose lo shaykh: «Oh emiro, io sono uno shaykh anziano non ho chi mi assiste. Nel bisogno non mi serve che questo ragazzo – per il quale ho speso la vita nell’istruirlo e per il quale ho dilapidato il mio denaro nell’educarlo. Ha però delle deficenze le quali temo non siano ammesse dall’infallibile giudizio dell’emiro. Tra queste:

Quando divene oggetto di passione, tende ad ammalare.

Se per caso fiuta l’amore, e non ne prova, colpisce ciò con l’infamia. Sé accrescesse la sua passione non sarebbero convenienti le sue risposte.

Se apprezzasse una poesia, e le sue rime, ne dissiperebbe l’efficacia».

Disse allora l’emiro: «Non ti sia chiusa la bocca. Questa è una lode in forma di critica. Le tue parole non sono però che come quelle del detto ricorrente: è un pretesto o un asino130

129 Shāh Jahān è il sultano Shah Jahan (1000/1592-1076/1666) 130

“A laki ʿidhr am himār”è un proverbio yemenita che si rifarebbe alla narrazione di Juḥā (Khalīl

Ḥunā Tādiris, 2006, pag. 167). Nella narrazione un uomo chiede a Juḥā di prestargli il suo asino. Juḥa

nega, dicendo che la bestia non è presso di lui. Udito però il raglio dell’asino da dentro la casa, l’uomo chiede a Juḥā: “è forse un pretesto o un asino?”.

Lo shaykh non proferì alcunché come se qualcuno lo tenesse a freno. Ordinò l’emiro che gli fossero consegnate mille monete rosse e inoltre gemme ambite. Ci lasciò nel tempo della sera.

Ci accordammo di passare la notte nella moschea del paese e di partire l’indomani mattina. Non me ne accorsi quand’ecco: lo shaykh si dileguò portando con sé il figlio mettendo le scarpe sotto il suo guanciale. Aveva scritto di suo pugno lì accanto:

“io sono Abū al-Ẓafar l’indiano. Beato è chi si è svegliato per caso”.

Mi destai dunque e il mio cuore era divenuto triste e indisposto. Piangevo e recitavo non avessi preso il tale per amico131.

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