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La Corte e i c.d “culti acattolici”: uno stimolo (indiretto) per le riforme

La prima generazione: il caso della Corte costituzionale italiana

4. L’entrata in funzione della Corte costituzionale: il punto di svolta della transizione “sostanziale”

4.3. La Corte e i c.d “culti acattolici”: uno stimolo (indiretto) per le riforme

L’avvento del Fascismo segnò l’inizio di tempi particolarmente duri per le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Il primo provvedimento legislativo adottato dal regime per quel che riguardava le minoranze religiose fu la legge 1159/1929, recante “Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi”. Va detto come, in realtà, tale legge venne accolta con una certa soddisfazione dai rappresentanti delle confessioni diverse da quella cattolica, dal momento che erano state recepite nel testo alcune delle richieste formulate, in particolare, dalla Tavola valdese nella primavera del 1929371.

Tale soddisfazione era tuttavia destinata a scemare rapidamente: le norme di attuazione della legge del 1929 (emanate con r.d. 289/1930), il nuovo Codice penale, il TULPS, nonché i Regi decreti legge 884/1932 e 1080/1932 determinarono infatti una notevole compressione delle libertà garantite ai culti acattolici. Fra le varie limitazioni previste dal r.d. 289, si può ricordare, ad esempio, l’art. 1, il quale stabiliva che l’apertura di un tempio dovesse essere richiesta da un ministro approvato e dovesse essere autorizzata con decreto reale, previa dimostrazione che il tempio “fosse necessario per soddisfare effettivi bisogni religiosi di importanti nuclei di fedeli” e “fornito di mezzi sufficienti per sostenere le spese di amministrazione”. E’ stato opportunamente evidenziato come “a parte l’ampiezza di apprezzamento che poteva esserci nel valutare se esistessero o meno questi requisiti, restava fissato che non potesse venire aperto il tempio dove non ci fosse già un importante nucleo di fedeli, che avesse effettivi bisogni religiosi”372. Il Codice Rocco stabiliva, poi, al pari di ciò che era previsto relativamente alla religione dello Stato, che l’offesa ad una religione diversa da quella cattolica mediante vilipendio di persone o cose ovvero attraverso il turbamento delle funzioni religiose costituiva delitto, ma la pena era diminuita (art. 406). Un altro esempio eclatante delle limitazioni delle libertà garantite ai culti acattolici è dato dall’art. 18 TULPS, il quale costituirà “per decenni… lo strumento per vietare e perseguire anche le riunioni di preghiera o di culto in case private”373. Esso, infatti, affermava che era “considerata pubblica anche

370

Si rinvia al par. 4.5. 371

Era stata, infatti, introdotta, l’espressione “culti ammessi” in luogo di “culti tollerati” (ritenuta offensiva), era stata riconosciuta la possibilità, per i ministri dei diversi culti, di celebrare matrimoni con effetti civili, ed inoltre veniva consentito a tali religioni di avere ministri del culto “riconosciuti” (cfr. LONG G., Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, il Mulino, Bologna, 1991, pag. 22 ss.).

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JEMOLO A.C., Le libertà garantite dagli artt. 8, 19, 21 della Costituzione, in Dir. eccl., 1952, pag. 409. 373

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una riunione che, sebbene indetta in forma privata, tuttavia per il luogo in cui sarà tenuta o per il numero delle persone che dovranno intervenirvi, o per lo scopo o l’oggetto di essa, ha carattere di riunione non privata”. Con i Regi decreti 884 e 1080 del 1932, inoltre, la titolarità della politica dei culti acattolici passò dal Ministro della Giustizia al Ministro dell’Interno: questa scelta, come si mostrerà a breve, comportò una serie di conseguenze negative in capo a tali confessioni.

A completamento dei provvedimenti “di sfavore” nei confronti delle religioni diverse da quella cattolica, si può, poi, menzionare la circolare 600/158 del 9 aprile 1935, diramata ai prefetti dal Ministero dell’Interno, nella quale si vietava “l’esercizio di qualsiasi attività religiosa ai pentecostali, ritenendo il loro culto non compatibile con le limitazioni imposte dall’art. 1 della legge sui culti ammessi”374; a tale circolare, se ne aggiunsero presto altre due (la n. 441/027713 del 22 agosto 1939 e la n. 441/02977 del 13 marzo 1940), volte ad intensificare le indagini nei confronti dei pentecostali, nonché a colpire i “Testimoni di Geova” e gli “Studenti della Bibbia”375. Per quel che riguarda la persecuzione delle minoranze si ricordano, infine, le leggi razziali del 1938.

E’ stato osservato che nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente “gli interventi diretti a una migliore garanzia delle minoranze religiose furono dettati più dalla volontà di reagire al recente passato… che non a organizzare un chiaro quadro di riferimento per il futuro sviluppo del pluralismo religioso in Italia”376. Per tale motivo vennero eliminati i riferimenti sia ai “principi” (poiché non poteva spettare agli organi di polizia la valutazione sul merito dei principi di una fede religiosa) sia all’“ordine pubblico” (in quanto criterio troppo evanescente ed idoneo ad essere utilizzato come pretesto per vietare determinate manifestazioni religiose)377.

L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che riconosce in modo inequivocabile l’eguaglianza di tutte le religioni dinanzi alla legge (art. 8) e il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa quale essa sia (art. 19), segnò una forte discontinuità rispetto alla ricordata politica persecutoria portata avanti dal regime fascista nei confronti delle confessioni diverse da quella cattolica. Tale discontinuità, tuttavia, rimase per diversi anni solamente formale, poiché di fatto i culti acattolici continuarono a trovarsi in una posizione particolarmente difficile: la continuità dello Stato, insomma, si affermava con forza anche in questo ambito378.

Per la verità, segnali positivi erano provenuti dalla magistratura, la quale, in controtendenza rispetto al proprio orientamento generale, aveva considerato gli artt. 8 e 19 norme precettive di immediata applicazione379. Da parte del Ministro dell’Interno380, tuttavia, si registrò un notevole ostruzionismo, volto, in particolare, a mantenere la disciplina sui culti ammessi del 1929-1930 e a 27-28.

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PEYROT G., Provvedimenti ostativi dell’autorità di polizia e garanzie costituzionali per il libero esercizio dei culti ammessi, in Dir. eccl., 1951, pag. 204., dove si può trovare anche il testo della circolare.

375

Anche in questo caso il testo delle circolari può essere letto in PEYROT G., Provvedimenti ostativi dell’autorità di polizia e garanzie costituzionali per il libero esercizio dei culti ammessi, cit., pag. 204 ss.

376

GUAZZAROTTI A., Giudici e minoranze religiose, Giuffrè, Milano, 2001, pag. 15. 377 Sui dibattiti in Assemblea costituente cfr. altresì L

ONG G., Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, il Mulino, Bologna, 1990; FALZONE V., La Costituzione ed i culti non cattolici, Giuffrè, Milano, 1953, pag. 23 ss.

378 J

EMOLO A.C., Le libertà garantite dagli artt. 8, 19, 21 della Costituzione, cit., pag. 415, afferma che “il Ministro degl’Interni e in obbedienza a sue disposizioni le autorità di pubbl. sicurezza non hanno dato alcuna attuazione a queste norme [artt. 8 e 19 Cost.], e tutto è rimasto com’era tra il 1929 ed il 1943…”.

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Si rinvia al par. 3.3.2. Sul dibattito norme programmatiche – norme precettive relativamente agli artt. 8 e 19, oltre alle pronunce già ricordate, si veda FALZONE V., La Costituzione ed i culti non cattolici, cit., pag. 50 ss.

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Ministro a cui continuava a spettare la titolarità della politica sui culti acattolici. LONG G., Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, cit., pag. 35, ricorda come “tutto ciò che riguarda i “culti” è riservato al Ministero dell’Interno e neppure i Presidenti del Consiglio intervengono in questo argomento. Più che una delega, si potrebbe parlare di una “prerogativa”…; e questa sensazione è confermata dal dato storico che mai il Ministero dell’Interno è stato affidato… ad un ministro non democristiano”.

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ritardare (se non evitare) la stipula delle intese con le confessioni diverse da quella cattolica, prevista, invece, dall’art. 8 c. 3 Cost. L’obiezione con cui veniva impedita la stipula delle intese si fondava sul metodo. I rappresentanti dei culti acattolici, infatti, sostenevano che per raggiungere un’intesa fosse necessario aprire delle trattative bilaterali, e a tal fine, a partire dal 1948, vennero presentati al Governo una serie di appelli e di proposte. Il Ministero dell’Interno, tuttavia, rispondeva che le confessioni diverse da quella cattolica erano libere di presentare “concrete proposte al Ministero dell’Interno, il quale le avrebbe fatto oggetto di esame ed avrebbe proposto le necessarie intese e, quindi, il provvedimento legislativo”. In ogni caso – continuava il Ministero – non bisognava dimenticarsi che “esiste[va] già una regolamentazione (legge 24 giugno 1929, n. 1159, e regolamento 28 febbraio 1930, n. 289) dei culti acattolici”381. La strategia, insomma, era chiaramente all’insegna dell’unilateralità: era il Ministro, infatti, una volta ricevuta la proposta, a decidere se e quando emanare un’intesa, con il risultato di riuscire a mantenere invariata la legislazione vigente.

Al fine di sbloccare una situazione che, rebus sic stantibus, sembrava destinata a protrarsi a tempo indeterminato, nel 1955 fu “provocatoriamente”382 presentato un progetto di legge, sottoscritto da La Malfa e da altri deputati laici, finalizzato non solo a stabilire “precise disposizioni” relativamente alle procedure mediante cui stipulare le intese, ma anche ad abrogare la disciplina sui culti ammessi383.

“Se le minoranze religiose non trovarono “accesso” alla soluzione politica, lo trovarono rispetto a quella “giurisdizionale””384: l’entrata in funzione della Corte costituzionale, infatti, aprì “un’altra via, diversa dal defatigante ricorso al Governo e al Parlamento, per ottenere la caduta delle norme più limitative della libertà dei culti”385. La sentenza 1/1956, pur non riguardando direttamente le confessioni minoritarie, risultò essere di estrema rilevanza, poiché sanciva il principio per cui anche le norme anteriori alla Costituzioni potevano essere oggetto del sindacato di costituzionalità.

A tale pronuncia si aggiunsero, poi, le sentenze 45/1957 e 59/1958. Nella prima di queste due decisioni il giudice delle leggi dichiarò l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 25 TULPS, nella parte che implicava l’obbligo del preavviso per le funzioni, cerimonie o pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico, in quanto in contrasto con l’art. 17 Cost. L’Avvocatura dello Stato, al fine di dimostrare la legittimità costituzionale dell’art. 25, aveva fatto riferimento al criterio di specialità, sostenendo che l’art. 17 Cost. si riferiva “alle riunioni di qualsiasi tipo, ed [era] pertanto di carattere generale”. Secondo l’Avvocatura, l’art. 25 sopravviveva all’art. 17 Cost. “non potendo una norma di carattere generale derogare alle norme speciali anteriori”. La Corte, tuttavia, smontava tale ragionamento ritenendo che l’art. 17 “si ispira[sse] a così elevate e fondamentali esigenze della vita sociale da assumere necessariamente una portata ed efficacia generalissima, tali da non consentire la possibilità di regimi speciali”. L’Avvocatura, poi, sempre al fine di dimostrare la legittimità dell’art. 25 TULPS, richiamava l’art. 19 Cost.386, e da

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Lettera del Ministro Scelba del 31 maggio 1952. 382 Così G

UAZZAROTTI A., Giudici e minoranze religiose, cit., pag. 17. 383

Camera dei Deputati, II legislatura, proposta di legge n. 2432 “Sull’esercizio dei diritti di libertà religiosa e sulla regolamentazione dei rapporti correnti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica”, annunziata il 21 luglio 1956. Tale proposta, come detto, sanciva l’abrogazione della legislazione sui culti ammessi, lasciando in vigore alcune norme non ritenute in contrasto con i principi costituzionali; la procedura per la stipula delle intese, poi, era volta a sancire la bilateralità delle trattative e a limitare le “prerogative” del Ministro degli Interni (cfr. LONG G., Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, cit., pag. 37 ss.).

384

GUAZZAROTTI A., Giudici e minoranze religiose, cit., pag. 18. 385

LONG G., Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, cit., pag. 39.

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questo deduceva che “l’obbligo del preavviso [doveva] intendersi preordinato ad accertare se nei singoli casi le funzioni e pratiche religiose che si intend[evano] compiere nei luoghi a ciò destinati, e quindi anche semplicemente aperti al pubblico, preved[evano] o meno riti contrari al buon costume, e ciò ai fini della facoltà conferita alla autorità di pubblica sicurezza di vietarne il compimento”. Anche di fronte a tale argomentazione la Corte costituzionale rispondeva in modo lapidario che “la regola che si vorrebbe dedurre da siffatta interpretazione, cioè che ad ogni limitazione posta ad una libertà costituzionale debba implicitamente corrispondere il potere di un controllo preventivo dell’autorità di pubblica sicurezza, non sussiste nel nostro ordinamento”.

Se si considera che la norma dell’art. 25 “era stata più volte utilizzata per interrompere e vietare funzioni religiose anche in case private e che era avvertita come uno dei più pesanti limiti alla libertà religiosa”387, si può comprendere come tale pronuncia del giudice delle leggi risultava essere sintomatica del fatto che i tempi erano davvero cambiati.

Di notevole importanza fu, poi, anche la sentenza 59/1958. Con tale pronuncia la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale, in quanto contrastanti con gli artt. 8 e 19 Cost., dell’art. 1 del r.d. 289/1930 (in quanto richiedeva l’autorizzazione governativa per l’apertura di templi od oratori, oltre che per gli effetti civili, anche per l’esercizio del culto) e dell’art. 2 dello stesso decreto (che sottoponeva l’esercizio della facoltà di tenere cerimonie religiose e compiere altri atti di culto negli edifici aperti al culto alla condizione che la riunione fosse presieduta o autorizzata da un ministro di culto la cui nomina fosse stata approvata dal Ministro competente)388.

Nel dichiarare l’incostituzionalità di tali norme, la Corte respinge, innanzitutto, l’argomento, sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, della carenza legislativa che seguirebbe alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali articoli. Secondo il giudice costituzionale, da un lato il libero esercizio del culto trova riconoscimento e limite nella Costituzione, in particolare nell’art. 19, “con precetti contenenti una ben chiara e concreta disciplina, dall’altro i rapporti delle confessioni acattoliche con lo Stato, in difetto di altre norme da emanarsi a seguito di intese, continuano ad essere regolati dalle norme vigenti, nella parte che ne rimane in vita, in quanto non importa lesione della libertà di culto costituzionalmente garantita”. In termini più generali, poi, la Corte afferma che il suo potere “di dichiarare la illegittimità costituzionale delle leggi non può trovare ostacolo nella carenza legislativa che, in ordine a dati rapporti, possa derivarne”, e che “spetta alla saggezza del legislatore, sensibile all’impulso che naturalmente proviene dalle sentenze di questa Corte, di eliminarla nel modo più sollecito ed opportuno”. Queste ultime considerazioni risultano di particolare interesse, soprattutto alla luce del fatto che una delle critiche più frequenti mosse nei confronti del giudice delle leggi è stata proprio quella di una sua un’eccessiva “prudenza” della dichiarazione di illegittimità costituzionale per timore di creare lacune legislative.

E’ senz’altro vero che le due sentenze sopra citate non risolsero certo tutti i problemi delle minoranze religiose, ma non si può negare come esse dichiararono l’incostituzionalità di alcune fra le norme che avevano permesso in passato “i maggiori abusi e di cui veniva chiesta con più forza l’abrogazione”389. Le pronunce della Corte costituzionale, inoltre, ebbero il merito non solo di allentare la pressione delle confessioni religiose per il raggiungimento delle intese, ma anche di propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. 387

LONG G., Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, cit., pag. 40.

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Viene, invece, dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 1159/1929, che stabilisce che l’obbligo di notificare le nomine dei ministri dei culti acattolici al Ministro competente per l’approvazione è da ritenersi sancito se e in quanto da tali nomine la confessione religiosa miri a far dipendere determinati effetti nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale; tale articolo prevede, inoltre, che non possa essere riconosciuto nessun effetto civile agli atti dei ministri di culto non approvati.

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LONG G., Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, cit., pag. 40.

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rendere meno intensa la politica repressiva da parte del Governo. In effetti, i primi risultati non tardarono ad arrivare. Nel 1961 il Governo aveva presentato in Parlamento un disegno di legge relativo all’istituzione di un fondo per l’assicurazione di invalidità e vecchiaia per il clero cattolico; alla proposta, formulata in sede di commissione, di estendere il provvedimento ai ministri degli altri culti, l’allora Ministro degli Interni Scelba rispose (presentando un proprio disegno di legge) che esso doveva essere limitato ai soli ministri del culto “approvati” e che, in ogni caso, dovevano essere esclusi quelli israelitici poiché ad essi si applicava il r.d. 1731/30 che poneva la loro previdenza a carico delle comunità e dell’Unione. A questo punto “le confessioni evangeliche tentarono… di utilizzare il provvedimento legislativo per sperimentare l’istituto delle intese; ed ottennero la presentazione di emendamenti che prevedevano l’iscrizione al fondo di tutti i ministri di culto, approvati o meno, delle confessioni che avessero stipulato a tal fine apposita intesa”390. Sebbene con qualche difficoltà, Governo e culti acattolici raggiunsero l’accordo, che prevedeva che l’estensione della previdenza ai ministri delle confessioni diverse da quella cattolica fosse subordinata ad un’apposita intesa. E’ stato opportunamente sottolineato che “le “piccole intese” previdenziali non costituiscono… una diretta applicazione dell’art. 8, terzo comma, Cost… In quel momento storico, costituirono però una interessante apertura”391.

Con il suo intervento, quindi, la Corte costituzionale non solo espulse dall’ordinamento alcune delle norme più limitative della libertà religiosa per le confessioni diverse da quella cattolica, ma indirettamente diede anche un impulso al legislatore affinché emanasse provvedimenti a favore dei culti acattolici (concretizzatisi nelle “piccole intese previdenziali”).

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