La seconda generazione: il caso del Tribunale costituzionale spagnolo
3. Le quattro linee d’intervento del Tribunale costituzionale per garantire una “transition in action”
3.2. Il Tribunale costituzionale e le norme precostituzional
3.2.3. La questione delle norme precostituzionali nella giurisprudenza (qualitativamente rilevante) del Tribunale costituzionale
E’ stato affermato come il Tribunale costituzionale spagnolo si sia occupato di un numero non particolarmente elevato di norme precostituzionali, e di come queste non abbiano coinvolto materie di grande rilievo613. Si tratta di una osservazione che pare essere solo in parte condivisibile. Da un lato non si può non riscontrare come, nel termine di tre mesi dalla data di costituzione del Tribunal constitucional stabilito dalla legge organica614, fossero stati presentati solamente due ricorsi di incostituzionalità aventi ad oggetto norme precostituzionali, peraltro emanate nel corso del periodo di transizione “formale”, dunque successive alla morte di Franco. Ciò pare spiegarsi soltanto facendo riferimento ad una volontà delle forze politiche e del Governo di non fare “tabula rasa” delle leggi anteriori, ma di procedere con una certa gradualità alla loro rimozione. A ciò si aggiunge il fatto che anche la cuestión de incostitucionalidad venne sollevata dai giudici comuni in un numero piuttosto ristretto di casi. Spesso, infatti, essi decidevano di applicare la norma precostituzionale, non ritenendo direttamente applicabili determinate disposizioni della Costituzione. Ciò accadeva poiché, nonostante l’ampia e completa disciplina costituzionale
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Tale decisione non venne prese all’unanimità: nella sua dissenting opinion, infatti, il giudice Rubio Llorente sostenne che l’incostituzionalità e l’abrogazione erano “istituti giuridici distinti, le cui differenze non potevano essere abolite mediante il ricorso ad un concetto ibrido e contradditorio come quello della “incostituzionalità sopravvenuta””. Per tale motivo, l’unico criterio “chiaro ed univoco” consisteva nell’attribuire ai giudici comuni la competenza esclusiva a risolvere il contrasto tra le leggi precostituzionali e la Costituzione (dichiarando nel caso l’abrogazione), mentre il Tribunale costituzionale, in modo altrettanto esclusivo, era tenuto ad occuparsi delle norme postcostituzionali (dichiarando nel caso l’illegittimità costituzionale).
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GARCÍA DE ENTERRÍA E., La Constitución como norma y el Tribunal constitucional, cit., pag. 91. 609
ARAGON REYES M., La sentencia del Tribunal constitucional sobre leyes relativas al regimen local, anteriores a la Constitución, cit., pag. 193.
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CARROZZA P., Alcuni problemi della giustizia costituzionale in Spagna, cit., pag. 1122. 611 P
AREJO ALFONSO L., La Constitución y las leyes preconstitucionales. El problema de la derogación y la llamada incostitucionalidad sobrevenida, cit., pag. 205.
612 Sul caso italiano si rinvia al Cap. 2 par. 4.2. 613
ROLLA G., Indirizzo politico e Tribunale costituzionale in Spagna, cit., pag. 217 ss. 614
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dell’organizzazione del “poder judicial” e la rapida approvazione della legge organica sul Consiglio generale del potere giudiziario, la magistratura spagnola, formatasi sotto il Franchismo, non aveva ancora assorbito i principi che fondavano la nuova Costituzione, e si dimostrava dunque non sempre “sensibile”615 alla problematica della eliminazione della legislazione anteriore in contrasto con le norme costituzionali. In altri casi, invece, i giudici non sollevavano la questione di incostituzionalità al Tribunale per il motivo opposto, vale a dire poiché decidevano di dichiarare l’abrogazione della norma precostituzionale, dando dunque essi stessi immediata applicazione alle disposizioni della Costituzione616. Più in generale, il fatto che il Tribunale costituzionale si sia occupato di un numero piuttosto limitato di norme precostituzionali pare essere dovuto altresì agli effetti prodotti dal primo comma della Disposizione abrogativa della Costituzione spagnola, il quale, come ricordato, aveva previsto l’abrogazione espressa delle Leggi fondamentali franchiste. In ultimo, non va dimenticato che già nel corso del periodo 1975-1978 vennero emanate diverse leggi volte a tutelare l’esercizio dei diritti fondamentali, ed inoltre furono modificati alcuni articoli del codice penale al fine di renderli maggiormente conformi alla nuova realtà sociale e politica617.
Se invece che un’analisi di tipo meramente quantitativo si decide di prendere in esame l’aspetto qualitativo delle leggi anteriori oggetto delle pronunce del giudice costituzionale dovranno essere effettuate considerazioni diverse: in tal senso pare, infatti, difficilmente condivisibile l’opinione – ricordata poc’anzi – secondo cui le norme precostituzionali non hanno coinvolto materie di particolare rilievo. Da un’analisi della giurisprudenza costituzionale, emergono, infatti, diverse pronunce del Tribunale costituzionale di estremo interesse, nella quali esso ha verificato che le norme precostituzionali non fossero in contrasto con le disposizioni della Costituzione che sanciscono diritti e libertà fondamentali. Di seguito verranno proposti tre esempi.
a) La sentenza 11/1981 sul diritto di sciopero
Durante il regime franchista lo sciopero non trovava alcuna forma di tutela: esso, infatti, non solo non era riconosciuto né dalla Carta del Lavoro né dalla Carta degli Spagnoli, ma veniva considerato espressamente come un reato dal Codice penale del 1944 (art. 222).
Negli anni Sessanta e Settanta si registrarono alcune aperture da parte del regime in tale ambito, ma fu soltanto nel pieno del processo di transizione democratica che si giunse all’approvazione del Real Decreto Ley 17/1977 sulle Relazioni di Lavoro, provvedimento finalizzato a disciplinare “il diritto di sciopero e i conflitti collettivi di lavoro”. Pur trattandosi di una prima importante forma di protezione, tale norma, promulgata quando ancora i sindacati non erano stati legalizzati, prevedeva una disciplina piuttosto restrittiva, e non a caso è stata definita una “legislazione “antisciopero”618.
In seguito alla promulgazione della Costituzione del 1978, si registravano due opinioni opposte in riferimento alla sorte del decreto legge 17/1977. Secondo alcuni Autori esso era stato
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CARROZZA P., Alcuni problemi della giustizia costituzionale in Spagna, cit., pag. 1126. L’Autore ricorda, poi, il parere 1/1979 del Procuratore generale dello Stato, il quale, “a seguito delle richieste di chiarimenti presentategli dai vari procuratori generali presso le corti d’appello, ha avuto modo di precisare che il carattere “indeterminato” e “generale” della… clausola abrogativa espressa non fa venir meno la vigenza di tutte le disposizioni anteriori contrastanti con la Costituzione qualora si tratti di principi generali la cui applicazione richiede un’ulteriore attività di attuazione legislativa. L’aspetto sconcertante di tali affermazioni consiste nel fatto che gli esempi offerti dal Procuratore generale si riferiscono non solo ai “principi informatori” dei rapporti sociali ed economici, ma anche a “principi” e “diritti” proclamati negli artt. 14-29, cui la Costituzione stessa riconosce immediata vincolatività e azionabilità…” (pag. 1119).
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Alcune pronunce dei giudici comuni in cui viene data immediata applicazione alle disposizioni costituzionali sono ricordate da GARCÍA DE ENTERRÍA E., La Constitución como norma y el Tribunal constitucional, cit., pagg. 76-77. 617
Si rinvia al par. 3.3.1. 618
PALOMEQUE LÓPEZ M.C., El derecho constitucional de huelga y su regulación en España, in Derecho del trabajo y razón crítica, Varona, Salamanca, 2004, pag. 139.
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implicitamente abrogato in ragione della sua incompatibilità con la nuova Carta costituzionale619, mentre altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritenevano che tale decreto fosse vigente e potesse essere applicato620. Oltre al principale problema avente ad oggetto la compatibilità del contenuto del decreto con la Costituzione, l’altra questione particolarmente delicata verteva intorno al fatto se fosse ammissibile o meno che la legge regolatrice del diritto di sciopero fosse una norma precostituzionale e non una legge organica, così come richiesto dall’art. 81 Cost.
La questione venne risolta dal Tribunale costituzionale nella sentenza 11/1981. Investito del ricorso di incostituzionalità presentato da 52 deputati socialisti contro diverse disposizioni di tale decreto, il giudice delle leggi si preoccupò, innanzitutto, di precisare che non esistevano motivi per ritenere che il decreto legge 17/1977 fosse incostituzionale per ragioni relative alla modalità di approvazione, soprattutto alla luce del fatto che esso era stato emanato nel pieno rispetto delle procedure richieste al tempo della sua promulgazione. Tali motivazioni, a cui probabilmente si aggiungeva anche un certo “horror vacui”621, portarono il Tribunale ad affermare che “la disciplina legale del diritto di sciopero nel nostro Paese è contenuta nel… Real Decreto-Ley nella misura in cui non sia contrario alla Costituzione e sino a quando non venga prevista una nuova regolamentazione attraverso una Legge organica”. Si trattò, evidentemente, di una delle prime affermazioni del principio di conservazione delle norme esistenti da parte del giudice delle leggi622. Il Tribunale, poi, accolse parzialmente le richieste dei ricorrenti, dichiarando l’incostituzionalità di alcune disposizioni del decreto e reinterpretandone altre alla luce delle norme costituzionali, effettuando così un’“operazione di depurazione”623 del decreto stesso. Più specificatamente, il giudice costituzionale diede un’ampia definizione di sciopero, individuò i casi in cui l’esercizio di tale diritto era da considerarsi “abusivo”, respinse l’idea della legittimità del solo sciopero per fini contrattuali aprendo così la strada per il modello “laboral624” (mostrando, invece, un atteggiamento “ambiguo” relativamente allo sciopero per motivi sociopolitici625), affermò la legittimità degli scioperi di solidarietà e offrì i primi spunti interpretativi relativamente al tema dei servizi essenziali.
Fra i passaggi più significativi di tale sentenza, poi, va ricordato quello in cui il Tribunal affermò come il diritto di sciopero fosse “coerente con l’idea di Stato sociale e democratico di Diritto sancito dall’art. 1 c. 1 della Costituzione…”, coerente “con il diritto riconosciuto ai sindacati all’art. 7…”, e coerente, infine, “con la promozione delle condizioni affinché la libertà e l’uguaglianza degli individui e dei gruppi sociali siano reali ed effettive (art. 9 c. 2…)”. Emerge, dunque, con forza, nella visione del giudice costituzionale spagnolo, la concezione dello sciopero come strumento di influenza e di partecipazione dei lavoratori alle decisioni non solo legate
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La Costituzione, infatti, all’art. 28 c. 2, riconosce espressamente “il diritto di sciopero dei lavoratori per la difesa dei loro interessi”, e prevede che la legge che regola l’esercizio di questo diritto debba stabilire “precise garanzie per assicurare il mantenimento dei servizi essenziali della comunità”.
620 Su tale contrasto di opinioni si vedaP
ALOMEQUE LÓPEZ M.C., El derecho constitucional de huelga y su regulación en España, cit., pag. 139.
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Timore presente anche nella Corte costituzionale italiana (si veda il Cap. 2 par. 4.1.). 622
Sul punto si rinvia al par. 3.1.4. 623 B
AYLOS A., Diez años de jurisprudencia constitucional: el derecho de huelga, in RAMON ALARCON CARACUEL M. (a cura di), Constitución y derecho del trabajo: 1981-1991 (Análisis de diez años de jurisprudencia constitucional), Marcial Pons, Madrid, 1992, pag. 294.
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Per sciopero “laboral” si intende quello “che si riferisce alla nozione di lavoratore professionista e alla difesa, in generale, di tutti i suoi interessi dinanzi a qualsiasi istanza” (VIDA SORIA J., GALLELO MORALES A., Art. 28.2, in ALZAGA VILLAAMIL O., Comentarios a la Constitución española de 1978, Cortes generales, Editoriales de Derecho reunidas, Madrid, 1978, pagg. 326-327).
625 Così M
ONEREO PÉREZ J.L., Derecho de huelga y conflictos colectivos, Editorial Comares, Granada, 2002, pag. 119. Secondo l’Autore, sarà solamente con la sentenza 36/1993 che il Tribunale costituzionale riconoscerà “senza dare adito ad equivoci” la legittimità degli scioperi sociopolitici, compresi gli scioperi generali.
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strettamente all’ambito del lavoro, ma anche di natura politico-sociale626.
La pronuncia del Tribunale costituzionale ha acquisito un’importanza ancora maggiore se si considera il fatto che, nonostante i diversi tentativi in proposito627 e le ripetute sollecitazioni da parte del Tribunale stesso628, il Parlamento ad oggi non sia ancora riuscito ad emanare la Legge organica richiesta dall’art. 28 c. 2 volta a disciplinare il diritto di sciopero: la conseguenza è che attualmente l’unica fonte sub-costituzionale regolatrice della materia continua ad essere il Real Decreto-Ley 17/1977, così come interpretato dalla sentenza 11/1981. Si può dire, dunque, che in maniera analoga al ruolo svolto dalla Corte costituzionale italiana in relazione all’art. 40 Cost.629, il Tribunale costituzionale spagnolo ha esercitato una funzione di “supplenza” dinanzi all’inerzia del Parlamento.
b) La sentenza 36/1982 sul diritto di riunione
Sotto il regime di Franco il diritto di riunione era riconosciuto esclusivamente da un punto di vista formale, dal momento che l’art. 16 della Carta degli Spagnoli, che sanciva tale diritto assieme a quello di associazione, non ricevette mai un’effettiva applicazione.
Un passo in avanti significativo verso la tutela del diritto di riunione si ebbe con la legge 17/1976. Con l’entrata in vigore della Costituzione si posero alcuni problemi relativi alla compatibilità tra tale provvedimento, che prevedeva una disciplina ancora fortemente restrittiva, e la stessa Carta del 1978: si trattava di una situazione delicata, soprattutto alla luce del fatto che la legge organica di “sviluppo” dell’art. 21 Cost. (che sancisce il diritto di riunione) venne emanata solo nel 1983.
I rapporti tra le due norme vennero chiariti dal Tribunale costituzionale nella sentenza 36/1982630. L’intera argomentazione del giudice delle leggi si basava sulla distinzione tra la disciplina relativa agli aspetti sostanziali della materia e quella concernente gli aspetti procedimentali. Relativamente ai primi, il Tribunal affermò che l’art. 5 della legge 17/1976 risultava essere in contrasto con la Costituzione nella parte in cui stabiliva che per svolgere una riunione in luogo pubblico fosse necessaria non una mera comunicazione preventiva all’autorità (così come stabilito dall’art. 21 Cost.), ma l’autorizzazione da parte del Governatore civile della Provincia.
Il giudice costituzionale continuava, poi, la propria argomentazione ricordando come la Costituzione stabilisse che l’autorità avrebbe potuto proibire riunioni in luogo pubblico e manifestazioni soltanto quando fossero esistite “ragioni fondate di turbativa dell’ordine pubblico, con pericolo per persone o cose”. Secondo il Tribunale, proprio al fine di permettere all’autorità una giusta valutazione, non risultava essere in contrasto con la Costituzione l’art. 5 della legge 17/1976, il quale consentiva all’autorità di proibire la riunione qualora la comunicazione all’autorità non
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Anche la Corte costituzionale italiana, nella sentenza 270/1974, sottolineava come il diritto di sciopero acquistasse un valore particolarmente rilevante in un ordinamento democratico in ragione della sua funzione di partecipazione democratica (si rinvia al Cap. 2 par. 4.4.).
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Il tentativo più importante è senza dubbio il “Progetto di legge organica dello sciopero negoziato”, frutto di un accordo tra Governo e sindacati. L’iter di approvazione del progetto venne tuttavia interrotto dalla promulgazione del r.d. 534/1993, con cui vennero sciolte le Cortes, quando il progetto era stato già approvato dal Senato e mancavano poche settimane per il voto definitivo al Congresso.
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Si veda, in particolare, la sentenza 123/1990. 629 Si rinvia al Cap. 2 par. 4.4.
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Si vedaGARCÍA-ESCUDERO MÁRQUEZ P., PENDAS GARCÍA B., Régimen jurídico del derecho de reunión (análisis de la Ley orgánica 9/1983, de 15 de julio), in Revista de derecho político, n. 22, 1986, pagg. 206-207; SOLOZÁBAL ECHAVARRÍA J.J., La configuración constitucional del derecho de reunión, in Parlamento y Constitución, n. 5, 2001, pagg. 118-119.
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fosse stata effettuata con un certo anticipo (nello specifico ben dieci giorni631) e presentando una serie di dati (itinerario previsto, indicazione dei promotori…). Il giudice delle leggi precisava come tali elementi procedurali (in particolare quello del preavviso) non contraddicevano, ma completavano l’art. 21 Cost., e che tale situazione sarebbe durata “sino a quando non fosse stata emanata la legislazione attuativa dell’art. 21 mediante una Legge organica”.
La conseguenza, dunque, era che, “da un punto di vista sostanziale il diritto di riunione disciplinato nell’art. 21 della Costituzione aveva abrogato lo stesso diritto così come concepito dalla… Legge 17/1976 essendo tra loro incompatibili; ciò non era avvenuto, tuttavia, in riferimento all’aspetto costituito dagli elementi procedurali, che servivano in quest’ultima come canale funzionale e legittimatore degli atti dei poteri pubblici e dei cittadini per poter esercitare tale diritto”.
c) La sentenza 7/1983 sul principio di eguaglianza
Con l’entrata in vigore della Costituzione del 1978 la condizione femminile in Spagna ebbe un sensibile miglioramento. Durante il regime franchista, infatti, le donne erano vittime di numerose discriminazioni, basti pensare al fatto che ad esse non era riconosciuto il diritto di voto e che, all’interno del nucleo familiare, l’unico “capofamiglia” (anche da un punto di vista giuridico) era il marito, con tutte le conseguenze che ciò comportava. Anche in ambito lavorativo le donne erano soggette ad un trattamento fortemente discriminatorio. Si consideri, in particolare, il fatto che soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta vennero emanati in diverse aziende pubbliche dei regolamenti che prevedevano l’aspettativa obbligatoria (“excedencia forzosa”) per le donne che contraevano matrimonio. Queste ultime avrebbero potuto ottenere nuovamente il loro posto di lavoro se e quando fossero divenute loro stesse “capofamiglia”, il che comportava, secondo il diritto di famiglia dell’epoca, che il marito fosse deceduto ovvero diventato mentalmente o fisicamente disabile e dunque non più in grado di esercitare l’attività lavorativa: “tutto ciò rappresentava un chiaro tentativo di tenere le donne al di fuori del mercato del lavoro”632. Nel 1961, poi, con l’emanazione di una legge sui Diritti politici, professionali e lavorativi delle donne, l’aspettativa divenne facoltativa e non più obbligatoria.
Successivamente entrò in vigore la Costituzione (che stabilisce il principio di eguaglianza e di non discriminazione), e nel 1980 il nuovo Statuto dei lavoratori dette attuazione a tale principio sancendo il divieto di discriminazione in ambito di lavoro. Alla luce di tali norme, e in ragione altresì della grave crisi economica in cui versava il Paese, nei primi anni Ottanta molte donne iniziarono ad esercitare azioni legali al fine di essere reintegrate nel loro posto di lavoro. Nella sentenza 7/1983 il Tribunale costituzionale si occupò per la prima volta di uno di questi casi. Esso stabilì, innanzitutto, che la disposizione regolamentare (pre-costituzionale) che stabiliva la sospensione del contratto per il personale femminile in caso di matrimonio costituiva una chiara discriminazione per motivi di sesso, e dunque violava l’art. 14 Cost. Secondo il giudice costituzionale, inoltre, il termine entro cui esperire l’azione legale al fine di porre rimedio alla situazione di discriminazione non decorreva dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori del 1980 (che all’art. 17 sanciva il principio di non discriminazione nei rapporti di lavoro), bensì dal 29 dicembre 1978, giorno di promulgazione della Costituzione: il giudice delle leggi precisava, infatti, che non bisognava attendere lo Statuto dei lavoratori per ritenere invalida la disposizione regolamentare che stabiliva l’aspettativa obbligatoria, dal momento che la Costituzione stessa doveva essere considerata una norma giuridica vincolante a tutti gli effetti.
Un’altra questione particolarmente delicata riguardava la durata del termine entro cui esperire
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Va sottolineato come il preavviso minimo di dieci giorni venga previsto, all’art. 8, anche dalla legge organica 9/1983 (salvo il caso di ragioni “straordinarie e gravi” che consentono un preavviso di 24 ore).
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l’azione legale. Secondo il Tribunal, era necessario fare riferimento alla legge che regolava il rapporto di lavoro: quando la Costituzione venne promulgata, e sino all’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, la disposizione normativa vigente era la Legge del Contratto del Lavoro, la quale stabiliva che le azioni legali che derivavano dal contratto di lavoro si prescrivessero (a meno che non specificato altrimenti) dopo tre anni dalla fine del rapporto contrattuale. Poiché, dunque, era possibile esperire l’azione legale a partire dalla promulgazione della Costituzione (29 dicembre 1978), applicando il termine di tre anni previsto dalla legge erano da ritenersi validi – secondo il giudice costituzionale – i ricorsi presentati entro il 31 dicembre 1981. Nel caso di specie, le istanze dei ricorrenti vennero riconosciute, dal momento che essi avevano fatto ricorso nel luglio 1981633.
Tale sentenza pare, dunque, essere ambivalente. Da un lato, infatti, il giudice delle leggi dichiarò il carattere discriminatorio delle disposizioni che prevedevano l’aspettativa obbligatoria e ribadì che la Costituzione dovesse essere considerata una norma giuridica vincolante. Da un punto di vista pratico, tuttavia, stabilire un termine di soli tre anni per potere esperire un ricorso al fine di ottenere nuovamente il posto di lavoro significò, in un numero elevato di casi, perpetuare tale discriminazione, soprattutto alla luce del fatto che le donne non potevano immaginare né la durata del termine entro cui ricorrere né il giorno da cui esso sarebbe decorso. In questo ambito, dunque, sono state le donne a pagare i “costi della transizione verso un costituzionalismo democratico”634.