• Non ci sono risultati.

I profili di incompatibilità con il diritto comunitario della disciplina portuale ante riforma: la decisione della Corte di Giustizia della Comunità Europea, 10 dicembre 1991,

Capitolo 2 La disciplina italiana in materia portuale.

2.5. I profili di incompatibilità con il diritto comunitario della disciplina portuale ante riforma: la decisione della Corte di Giustizia della Comunità Europea, 10 dicembre 1991,

«Porto di Genova I».

La decisione della Corte di Giustizia della CE nota come «Porto di Genova I»(200) ha rappresentato una svolta «epocale» per il sistema portuale italiano(201).

199 G.TACCOGNA, op. cit., 48.

200 CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, Siderurgica Gabrielli c. Merci Convenzionali Porto di Genova, in

Dir. mar., 1991, 1128 ss.

201 F. MACRÌ, Diritto di autoproduzione e servizi tecnico-nautici ancillari alla navigazione: alcune riflessioni

ricostruttive, in Dir. comm. int., 3, 2002, 641. P. COSTA, Introduzione, in P.COSTA,M.CASAGRANDE (a cura di),

Dalla concorrenza nei porti alla concorrenza tra i porti. Il caso dei servizi tecnico-nautici in Italia, Venezia,

2011: «È noto come essa [la legge di riforma] discenda da una sentenza resa dalla Corte di giustizia sul porto di Genova, in cui si è dichiarata l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea dei regimi di monopolio legale previsti in favore delle organizzazioni dei lavoratori portuali. Tali regimi di monopolio erano un retaggio storico dei porti in tutti il mondo e, pur assumendo nei diversi ordinamenti forme giuridiche diverse, non costituivano un unicum del porto di Genova o dei porti italiani. Piuttosto si può dire che, in Italia, la gestione monopolistica del lavoro portuale era trascesa in inaccettabili inefficienze corporative, la cui constatazione ha indotto la Corte di Lussemburgo a una sentenza particolarmente coraggiosa. La sentenza sul porto di Genova non ha quindi rimosso un handicap italiano, ma ha modernizzato e aperto alla concorrenza l’intera portualità europea».

La predetta pronuncia ha individuato, infatti, le più gravi carenze e contraddizioni dell’assetto organizzativo italiano delle operazioni di movimentazione delle merci rispetto ai principi comunitari in materia di concorrenza, evidenziando la necessità di una profonda riforma della disciplina in materia portuale fino ad allora contenuta nel Codice della Navigazione.

Sulla sua scia e sulla scorta di altre rilevanti iniziative della Commissione europea, il quadro normativo è stato oggetto di una lenta ma inesorabile revisione da parte del legislatore italiano, incentrata sull’inquadramento della realtà portuale come sede di attività d’impresa da svolgersi secondo regole di mercato e sulla base di modelli organizzativi coerenti con le nuove esigenze dei traffici(202).

In dettaglio, la sentenza «Porto di Genova I» ha censurato diversi aspetti della disciplina portuale italiana. In particolare, i giudici comunitari hanno sancito, anzitutto, l’illegittimità degli artt. 152 e 156 Reg. Cod. Nav., che riservavano ai soli cittadini italiani la possibilità di far parte delle compagnie portuali (alle quali era riservato l’esercizio delle operazioni portuali), per contrasto con il principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’art. 39 dell’allora TCE(203)(204).

In secondo luogo, la decisione della Corte di Giustizia ha dichiarato l’incompatibilità con il con gli artt. 82(205) e 86(206) TCE degli artt. 110(207) e 111(208) Cod. Nav. dal momento che,

202 A. GIARDINI, I porti e i servizi portuali, in S. ZUNARELLI (a cura di), Il Diritto del Mercato del Trasporto, Padova, 2008, 305.

203 L’allora art. 39 (ex art. 48) TCE stabiliva che «La libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità è assicurata. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive, b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri, c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali, d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti di applicazione stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. […]».

204 CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, cit., punto 13.

205 L’allora art. 82 (ex art. 86) TCE prevedeva che «è incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo. Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: a) nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque, b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori, c) nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza, d) nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi».

206 L’allora art. 86 (ex art. 90) TCE stabiliva che «Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 12 e da 81 a 89 inclusi. Le imprese

prevedendo una riserva a favore delle compagnie portuali, che risultavano quindi in una posizione dominante su una parte del mercato delle operazioni portuali, inducevano tali imprese concessionarie a sfruttare abusivamente la propria posizione dominante. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha ritenuto che nella pratica il suddetto abuso di posizione dominante portasse «le imprese e le compagnie ad esigere il pagamento di servizi non richiesti, o a fatturare prezzi sproporzionati oppure a non servirsi della tecnologia moderna, con conseguente aumento dei costi delle operazioni e ritardi nella loro esecuzione, ovvero ancora a concedere riduzioni di prezzo a taluni utenti compensate allo stesso tempo mediante aumenti di prezzi fatturati ad altri utenti»(209).

Infine, tralasciando la problematica relativa alle tariffe applicate alle compagnie portuali per lo svolgimento delle operazioni portuali, il regime monopolistico in materia delle operazioni portuali previsto dalla normativa italiana previgente è stato censurato anche per contrasto con il principio della libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 TCE(210). L’obbligo previsto dalla legge di ricorrere alle imprese monopoliste per la movimentazione delle merci impediva, infatti, agli utenti portuali di autoprodurre a costi inferiori le operazioni di imbarco e sbarco delle merci, rendendo di conseguenza «più onerose e, pertanto, ostacola[ndo] le importazioni di merci in provenienza da altri Stati membri»(211).

incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità. La Commissione speciale vigila sull’applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni».

207 L’art. 110 Cod. Nav. prevedeva che: «Le maestranze addette alle operazioni portuali sono costituite in compagnie o in gruppi, soggetti alla vigilanza dell’autorità preposta alla disciplina del lavoro portuale. Le compagnie hanno personalità giuridica. Alla costituzione, fusione o soppressione delle compagnie e dei gruppi provvedono, per la navigazione marittima, il direttore marittimo e, per la navigazione interna, il direttore dell’ispettorato compartimentale, secondo le norme del regolamento. Il regolamento stabilisce altresì le norme per il funzionamento delle compagnie e dei gruppi e determina, per i casi di fusione o di soppressione, le modalità relative alla valutazione e devoluzione dei beni costituenti il patrimonio delle compagnie. Salvo casi stabiliti dal ministro dei trasporti e della navigazione l’esecuzione delle operazioni portuali è riservata alle compagnie o ai gruppi».

208 L’art. 111 Cod. Nav. stabiliva che: «L’esercizio da parte di imprese di operazioni portuali per conto terzi è sottoposto a concessione del capo del compartimento, per la navigazione marittima, e del capo dell’ispettorato di porto, per la navigazione interna, secondo le modalità stabilite dal regolamento. Le autorità predette possono determinare il numero massimo delle imprese in relazione alle esigenze del traffico. La concessione può essere data alle stesse compagnie delle maestranze portuali. In ogni caso l’impresa concessionaria deve avvalersi, per l’esecuzione delle operazioni portuali, esclusivamente delle maestranze costituite nelle compagnie o nei gruppi». 209 CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, cit., punto 19.

210 L’allora art. 28 (ex art. 30) TCE sanciva che «Sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente».

La richiamata sentenza dei giudici comunitari ha precisato, inoltre, che i servizi resi dalle compagnie portuali, considerate le modalità ed il contesto in cui sono erogati, non fossero qualificabili come «attività di interesse economico generale» ai sensi dell’art. 86 (ex art. 90) TCE(212). Tale fondamentale precisazione ha condotto, quindi, al riconoscimento del c.d. diritto di autoproduzione (self-handling) delle operazioni di carico e scarico delle merci nei porti da parte delle imprese di trasporto marittimo comunitarie. In particolare, secondo la Corte di Giustizia l’autoproduzione costituisce un limite generale alla posizione di monopolio rivestita delle imprese. In questo senso, infatti, il diritto di autoproduzione sussiste solo nel caso in cui, non ricorrendo le condizioni di applicabilità dell’art. 86 TCE, che legittimerebbero un regime di esclusiva a favore dell’impresa in questione, l’impresa monopolista sia nella posizione di poter abusare della propria posizione dominante in contrasto con l’art. 82 TCE. La sentenza «Porto di Genova I» ha, dunque, individuato gli specifici profili d’incompatibilità e le specifiche esigenze di adeguamento dell’ordinamento portuale italiano rispetto ai fondamentali principi posti dal diritto comunitario e, in particolare, rispetto al divieto di discriminazioni sulla base della nazionalità, alla disciplina della concorrenza, al principio della libera prestazione dei servizi portuali e alla libera circolazione delle merci.

Come accennato supra, anche la Commissione speciale europea ha contribuito in modo significativo ad individuare i contenuti normativi dei quali il legislatore italiano avrebbe dovuto tenere conto nell’auspicata riforma. Nella sua lettera d’ingiunzione del 31 luglio 1992(213), inviata all’allora Ministro degli Affari Esteri italiano, la Commissione europea ha invitato l’Italia ad adottare misure idonee a rendere il proprio ordinamento portuale conforme ai precetti del diritto comunitario della concorrenza(214).

Confermati i profili di incompatibilità della disciplina nazionale già rilevati dalla Corte di Giustizia con la sentenza «Porto di Genova I», la Commissione europea ha ritenuto che l’obbligo imposto agli utenti dei porti italiani di ricorrere esclusivamente ai servizi delle compagnie portuali, titolari dell’esclusiva nelle operazioni di carico e scarico delle merci, fosse incompatibile, non solo con la libertà di circolazione delle merci, ma anche con la libertà di circolazione e prestazione dei servizi sancita dall’art. 49 TCE(215), «in quanto gli operatori

212 CGCE 10 dicembre 1991, causa C-179/90, cit., punto 28.

213 Lettera d’ingiunzione della Commissione europea del 31 luglio 1992, in Dir. mar. 1992, 855.

214 S.M. CARBONE,F. MUNARI, Gli effetti del diritto comunitario sulla riforma portuale in Italia. Risultati e

prospettive, in Dir. mar., 1994, 4.

215 L’allora art. 49 (ex art. 59) TCE sanciva che: «Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno della Comunità sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione».

che effettuano collegamenti marittimi internazionali e che sono dotati delle attrezzature necessarie si vedono negata la possibilità di utilizzarle», essendo escluso che nell’ambito delle operazioni portuali trovassero applicazione le deroghe previste dall’art. 46 TCE(216) o le esigenze imperative individuate dalla giurisprudenza comunitaria(217).

In questo modo la Commissione europea, oltre a ribadire il favor dell’ordinamento comunitario per l’autoproduzione delle operazioni portuali, ne ha anche chiarito l’ambito di applicazione rispetto a quanto precedentemente affermato dalla Corte di Giustizia secondo la quale il diritto di autoproduzione era configurabile in relazione alla sola libertà di circolazione delle merci e, in particolare, al divieto di restrizioni quantitative all’importazione(218).

Outline

Documenti correlati