• Non ci sono risultati.

La trasformazione dei porti: l’evoluzione tecnico-logistica e lo sviluppo dei traffici L’assetto normativo in materia portuale ante riforma risultava del tutto anacronistico in quanto

Capitolo 2 La disciplina italiana in materia portuale.

2.3. La trasformazione dei porti: l’evoluzione tecnico-logistica e lo sviluppo dei traffici L’assetto normativo in materia portuale ante riforma risultava del tutto anacronistico in quanto

affondava le proprie radici in un’epoca in cui il lavoro manuale dell’uomo costituiva ancora un elemento fondamentale nelle operazioni di movimentazione delle merci ed in cui le tecniche e i sistemi di trasporto erano molto differenti da quelli odierni. In epoca antecedente alla Seconda Guerra Mondiale, infatti, il carico delle navi veniva movimentato, fuori e dentro la stiva delle imbarcazioni, in sacchi o scatole grazie alla forza fisica dei lavoratori portuali. In tale contesto storico, considerato il limitato livello di meccanizzazione del ciclo di carico e scarico delle merci, la movimentazione della merce negli scali portuali richiedeva l’impiego di un numero rilevante di lavoratori e tempi lunghi, tanto che le navi potevano restare ormeggiate in banchina anche per diversi giorni. In particolare, le compagnie di lavoro portuale esercitavano un peso significativo nelle dinamiche portuali (uno sciopero dei lavoratori portuali poteva arrecare significativi danni agli armatori).

Inoltre, in molti Stati europei - e in particolare in Italia - i porti rappresentavano i terminali marittimi «naturali» degli stabilimenti industriali localizzati sulle coste oppure funzionavano da empori per aree geografiche di dimensione regionale. La circostanza che i porti rappresentassero il necessario sbocco sul mare dei commerci esercitati nelle rispettive aree geografiche aveva reso gli scali portuali imprescindibili. Conseguentemente, le amministrazioni portuali potevano contare su volumi di traffico certi o su mercati tendenzialmente esclusivi(190), a prescindere ed indipendentemente dai costi delle operazioni di movimentazione delle merci praticate da ciascun porto(191). In tale contesto il sistema portuale era in grado di funzionare anche in condizioni di scarsa economicità ed efficienza delle operazioni di carico e scarico delle merci.

L’evoluzione del sistema economico mondiale e della tecnologia del trasporto ha determinato profonde ripercussioni sull’assetto portuale e sull’organizzazione delle attività economiche ivi esercitate (vedi infra par. 3.1).

In particolare, la diffusione dei container ha radicalmente modificato la gestione, la composizione e la dimensione del lavoro portuale. L’unitizzazione dei carichi ha consentito, infatti, non soltanto lo sviluppo di nuove tecnologie ed attrezzature di movimentazione (come ad esempio, le gru di banchina, i carrelli a forca e le stesse navi porta container), ma anche una

190 F. NERLI, La concorrenza nel settore portuale, in Dir. mar., 2001, 67.

191 G. TACCOGNA, op. cit., 249, il quale riporta un significativo aneddoto: quando gli utenti insorsero contro i costi e le modalità di svolgimento delle operazioni portuali nel porto di Genova, il sindaco della città liquidò il problema con la frase: «tanto da qui devono passare».

significativa crescita della produttività del lavoro e del sistema portuale nel complesso. Contestualmente, la diffusione dei container ha determinato la riduzione dei tempi di sosta delle navi in porto mentre il superamento del lavoro portuale puramente manuale ha comportato una drastica diminuzione del numero di lavoratori da destinare al ciclo delle operazioni portuali(192).

Parallelamente, la crescita degli scambi commerciali, soprattutto internazionali, e la trasformazione dell’economia hanno introdotto una crescente contendibilità dei porti con il conseguente rischio per gli scali meno efficienti di perdere rilevanti quote di mercato. Gli scali marittimi sono divenuti, pertanto, parte di una rete di trasporti di dimensioni sovranazionali. Tale circostanza ha reso manifesta la necessità di un coordinamento dei porti con le reti infrastrutturali di trasporto e ha palesato come nessun porto potesse più contare su alcuna rendita di posizione o su consolidate nicchie di mercato(193).

A partire dagli anni Ottanta, inoltre, il Mediterraneo ha cominciato a riacquistare un ruolo centrale nei traffici marittimi ed i porti italiani, al centro di direttrici di traffico di grande sviluppo, sono diventati un importante punto di snodo per le operazioni di c.d.

transhipment(194) sia distributivo che di incrocio tra le rotte nord/sud e le rotte est/ovest del globo.

In tale contesto sono emerse, inoltre, imprese in grado di organizzare e di gestire l’intero ciclo delle operazioni portuali (relative ad un determinato tipo di merci e/o di traffico) secondo criteri di efficienza imprenditoriale, che reclamavano spazi e libertà di organizzazione all’interno dei porti(195).

L’evoluzione tecnica ed economica sopra richiamata, sia pure in termini sintetici, ha messo in crisi il previgente assetto normativo ed organizzativo dei porti italiani sancito dal Codice della Navigazione, rendendo evidente l’improcrastinabile necessità di adeguare la disciplina

192 Si consideri, ad esempio, che il numero dei lavoratori portuali del porto di Genova (i famosi camalli, facchini) nel 1970 era pari a 8.000 unità, mentre nei primi anni del 1990 il loro numero era sceso a poco più di 500. 193 F. NERLI, op. loc. cit.

194 Per transhipment si intende l’imbarco e lo sbarco di container dalla nave madre ad imbarcazioni di dimensioni minori, le c.d. navi feeder, allo scopo di trasferire le merci dai porti internazionali di grandi dimensioni (hub

transhipment) - caratterizzati da un retroterra continentale (come i porti di Rotterdam, New York o Singapore) -

sulle reti ferroviarie landbridges che collegano porti situati su coste opposte e distanti ovvero sulle reti di navi

feeder verso porti minori che servono retroterra o hinterland regionali. Gli hub transhipment si distinguono dai

porti a scalo diretto (c.d. direct call) che rappresentano, invece, il luogo di origine o di destinazione finale delle merci.

In Italia sono porti di transhipment: Gioia Tauro, Taranto e Cagliari. Sono, invece, porti di direct call: Genova, La Spezia, Savona, Livorno, Napoli, Salerno, Ravenna, Venezia, Trieste, Ancona, Civitavecchia, Palermo, Massa Carrara e Brindisi.

portuale italiana agli standard internazionali già adottati dai Paesi economicamente più avanzati per la gestione dei traffici marittimi(196).

In tale contesto, è mutato anche l’approccio del legislatore nei confronti dei porti, intesi non più come meri luoghi ovvero beni, bensì come infrastrutture caratterizzate e dotate di un’adeguata efficienza gestionale capace di velocizzare l’intero ciclo delle operazioni portuali, permettendo di far fronte all’aumento del volume dei traffici e di competere con gli scali concorrenti sia nazionali che internazionali. Tale nuovo inquadramento funzionale del porto, coerente con un approccio economicistico favorevole allo sviluppo delle diverse attività d’impresa all’interno di ciascuno scalo, ha portato il legislatore a ripensare l’intera «architettura giuridica» portuale(197).

Outline

Documenti correlati