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da epilessia e, inoltre, risulta spesso difficile valutare il peso dei fattori che, accanto alla terapia psicofarmacologica, concorrono a definire un rischio di teratogenesi strutturale, complicanze ne- onatali o teratogenesi comportamentale per il nascituro. Fra tali fattori un particolare interesse è rivestito dal disturbo mentale. L’acido valproico si associa a malformazioni maggiori, che si rilevano in circa il 10% dei nati da donne che hanno assunto il farmaco in monoterapia nel primo trimestre di gravidanza, mentre per i casi in politerapia l’incidenza appare superiore al 15%. Viene in particolare ricordata la ricorrenza di difetti di sviluppo del tubo neurale fra cui la spina bifida, per cui si raccomanda l’assunzione con acido folico, pur se l’utilità è discussa (secon- do alcuni proteggerebbe per le malformazioni alte del rachide, ma non per quelle basse). Le malformazioni in esposti ad acido valproico possono manifestarsi in maniera sindromica con la sindrome fetale da valproato, caratterizzata da dismorfismo del labbro superiore e della rima labiale, epicanto, radice del naso allargata, alterazioni articolari. Si associa deficit dello sviluppo psicomotorio. Vi sono anche segnalazioni di tossicità compor- tamentale in nati da madri che avevano assunto acido valproico in gravidanza, come un deficit del QI. Anche carbamazepina si può associare a un deficit di sviluppo intellettivo, seppur meno frequente e meno grave rispetto a acido valproico. L’assun- zione di carbamazepina comporta un incremento nel rischio di malformazioni craniofacciali, caratteristica rilevata anche per lamotrigina (quest’ultima appare comunque relativamente sicuro in gravidanza). Per quanto riguarda il litio, particolare attenzione viene posta alla anomalia di Ebstein (incremento nel rischio, rispetto alla popolazione generale, sino a 8 volte). In particolare per valproato e litio si segnala il rischio di scarsa vitalità alla nascita.

Conclusioni: l’opportunità di una terapia con SU in gravidanza va

valutata ponendo estrema attenzione al rapporto costo/beneficio. La sospensione dello SU si associa a un rischio di recidiva del disturbo bipolare che nelle varie casistiche si è spinto sino a più del 70% dei casi, con riflessi negativi sulle condotte materne (ad esempio consumo di alcolici, fumo) e difficoltà ad aderire ai programmi di controllo prenatale. Viene raccomandato il ricorso alla minima dose efficace (anche valutando i livelli plasmatici del farmaco), con dosi refratte così da evitare picchi di assorbi- mento. La polifarmacoterapia con SU si associa a un sensibile incremento del rischio teratogenetico rispetto alla monoterapia. Lo switch fra SU, al fine di utilizzare il farmaco con minor rischio teratogeno o di tossicità comportamentale, è criticato da molti in considerazione del fatto che si esporrebbero gestante e nascituro a politerapia (per l’inopportunità di una sostituzione immediata) e, inoltre, non si avrebbe sicurezza dell’efficacia del nuovo far- maco. Sono state messe a punto varie raccomandazioni; oltre alla già ricordata supplementazione di acido folico nelle donne che assumono valproato, viene indicata la somministrazione di vitamina K nelle ultime settimane di gestazione a coloro che assumono valproato o carbamazepina. La terapia con sali di litio deve tenere conto dell’aumento del volume di distribuzione del farmaco, con la necessità di aggiustamenti posologici.

Bibliografia

Tomsom T, Battino D, Bonizzoni E, et al. Dose-dependent risk of mal-

formations with antiepileptic drugs: an analysis of data from the eurap epilepsy and pregnancy registry. Lancet Neurol 2011;10:609-17.

Nguyen HTT, et al. Advances in Therapy 2009;26:301-23.

Management clinico dei disturbi dello spettro schizofrenico in gravidanza

S. Gentile

ASL Salerno, Centro di Salute Mentale Cava de’ Tirreni

introduzione: il tasso di fertilità delle giovani donne affette da

schizofrenia è simile a quello della popolazione generale. Circa il 50% di esse, infatti, è madre. Pertanto, è necessario analizza- re il rapporto rischio/beneficio dell’utilizzo dei farmaci antipsi- cotici in questa fase delicata del ciclo riproduttivo femminile.

Metodi: revisione sistematica della letteratura scientifica. risultati: teratogenesi strutturale e complicanze gestazionali: i

dati disponibili non consentono di confermate o escludere po- tenziali rischi malformativi associati all’esposizione in utero ad antipsicotici (olanzapina, tuttavia, potrebbe essere associata a un incremento del rischio di difetti del tubo neurale). Inoltre, gli antipsicotici di seconda generazione aumentano il rischio di diabete gravidico. Tra gli antipsicotici di prima generazione (FGAs), in generale da preferirsi per il trattamento del disturbo schizofrenico in gravidanza, clorpromazina è il farmaco con il maggior numero di reports rassicuranti. Gli FGAs, inoltre, non sono associati al rischio di diabete gestazionale.

Tossicità perinatale e comportamentale: se usati nell’ultimo tri-

mestre di gravidanza, tutti gli antipsicotici possono aumentare il rischio di macrosomia, reazioni prolungate extrapiramidali, convulsioni e problemi cardio-respiratori. L’eventuale influen- za dell’esposizione in utero questi farmaci sullo sviluppo neu- rocognitivo del bambino, inoltre, è assolutamente ignoto.

Conclusioni: l’impatto del disturbo schizofrenico materno non

trattato sulla qualità del bonding madre-bambino è devastante. Le madri, quindi, dovrebbero essere informate che l’esposizio- ne a un aumento ipotetico del rischio malformativo va bilan- ciato col rischio concreto dei danni che uno scompenso psico- tico materno può determinare nel neonato. Tuttavia, in queste pazienti le polifarmacoterapie dovrebbero essere attentamente evitate. Infine, è raccomandabile che il parto avvenga in struttu- re ospedaliere dotate di Unità di Terapia Intensiva Neonatale, al fine di gestire al meglio eventuali situazioni di criticità connesse all’insorgenza di complicanze post-natali.

Bibliografia

Gentile S. Antipsychotic therapy during early and late pregnancy. A

systematic review. Schizophr Bull 2010;36:518-4.

Una valutazione critica della terapia con stabilizzatori dell’umore in gravidanza

G. Santone

Clinica Psichiatrica, Azienda Ospedaliera Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Università Politecnica delle Marche

introduzione: la gravidanza rappresenti un fattore di rischio

importante per la recidiva dell’episodio bipolare e, quindi, un particolare rilevo assume la valutazione del rapporto rischi/be- nefici per la terapia con stabilizzanti del tono dell’umore (SU).

Metodi: analisi della letteratura relativa al tema del ricorso a SU

(anticonvulsivanti e litio) in gravidanza.

quota sia di rischio teratogenetico che di tossicità neonatale. Benché i dati della letteratura appaiano spesso alquanto con- troversi, soprattutto a causa della eterogenea metodologia nella raccolta delle informazioni pubblicate, è possibile allo stato at- tuale affermare che esistono evidenze confermate per due spe- cifiche condizioni: la prima è che l’utilizzo di benzodiazepine nel primo trimestre di gravidanza, e in particolare tra la seconda e la ottava settimana di gestazione, sembra associato soprattutto a un aumentato rischio di palatoschisi rispetto alla popolazio- ne generale, nella quale è valutato nella misura dello 0,06%; la seconda è che l’esposizione in cronico alle benzodiazepine nel terzo trimestre di gravidanza correla all’insorgenza di un quadro specifico di tossicità neonatale definito “floppy infant syndrome” che si caratterizza per la presenza di ipotonia mu- scolare, apnea, disordini della termoregolazione e basso indice di Apgar.

la terapia con benzodiazepine G. Di Sciascio

UO Psichiatria Universitaria, Azienda Ospedaliero Universitaria, Policlinico Consorziale di Bari

Le benzodiazepine sono composti dotati di varie attività (an- siolitica, ipnoinducente, miorilassante e anticonvulsivante), che vengono ampiamente utilizzati nella popolazione generale, pur essendo gravati da un alto potenziale di induzione di dipenden- za e tolleranza.

Per la loro generale buona tollerabilità e maneggevolezza ven- gono spesso impiegate anche in corso di gravidanza, soprattut- to per gestire sintomi d’ansia e disturbi del sonno.

Va però considerato che, essendo dotate della capacità di pas- sare la barriera emato-placentare, presentano una importante

ruoli e funzioni del sPdC nella gestione delle nuove emergenze

N. Poloni

Dipartimento di Medicina Clinica - Psichiatria, Università dell’Insubria, Varese Como

Il confronto, sempre più frequente, con pazienti provenienti da contesti culturali differenti spinge, ormai da tempo, nella dire- zione di una riflessione teorica che possa fornire strumenti ope- rativi per la pratica clinica e per l’organizzazione dei servizi. I percorsi che portano al contatto con un servizio, la scelta dei tempi e soprattutto del destinatario della richiesta di aiuto non si fondano esclusivamente sulla gravità e l’acuzie della patologia ma nascono anche dalla convergenza di fattori psicosociali e culturali, profondamente differenti a seconda della provenienza del paziente.

In una città di dimensioni ridotte come Varese, la scelta di istitu- ire un servizio esclusivamente dedicato ai migranti non sembra essere praticabile e pertanto il Pronto Soccorso e il Servizio Psi- chiatrico di Diagnosi e Cura diventano spesso la via di accesso privilegiata, in quanto più facilmente identificabile, e utilizzata non solo nel momento in cui la patologia è in fase di acuzie. I migranti presentano spesso disturbi significativi, che insorgo- no anche tardivamente rispetto alla data dell’immigrazione, a testimonianza della complessità dell’effetto migratorio sulla sa- lute mentale e delle difficoltà di interpretazione dei disturbi che più facilmente sono diagnosticati come psicotici.

Nella nostra esperienza clinica abbiamo evidenziato quattro ostacoli principali nell’approccio a questo tipo di paziente che diventano particolarmente significativi nel contesto ospedaliero:

• il problema del linguaggio, veicolo di comunicazione delle esperienze normali e patologiche;

• la diversa espressività sintomatologica nei migranti e le cul-

tural related syndromes;

• la conoscenza dei fattori biologici, ambientali e culturali che contribuiscono alla peculiare risposta farmacologica; • la focalizzazione sugli aspetti traumatici o di disagio so-

ciale con conseguente tendenza a trovare risposte di tipo assistenziale, cancellando il carattere di crisi che l’emigrare produce nei soggetti, crisi che avviene in un momento spe- cifico della storia di ciascuno.

straniero in patria M. Mattia

Psichiatra e psicoterapeuta, Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università dell’Insubria, Varese

Quasi tutti gli studi che hanno affrontato la psicopatologia del migrante si sono focalizzati sui sintomi che il migrante incontra nella nuova patria, a causa spesso delle forti differenze etniche, culturali, alimentari, religiose e, minus inter pares, linguistiche. Ma esiste anche un’altra realtà spesso trascurata o poco studiata e scarsamente analizzata.

Si tratta di quella fascia di persone, autoctone, che incontrano e sposano lo straniero, l’emigrante, e che, spesso ignari, si trova- no a diventare stranieri in patria.

Infatti entrare a contatto con le famiglie degli emigranti, che non si sono mai integrate nella nuova realtà culturale e sociale e che sono rimaste fortemente regressive e oppositive verso il

venerdì 17 FeBBraio 2012 - ore 16.00-18.00

Sala Pinturicchio

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