coordinatori
Negli ultimi anni tale approccio è stato esteso ad altri ambiti di intervento, quali il disturbo ossessivo-compulsivo. Anche in questo caso le convinzioni dei familiari circa la necessità degli interventi farmacologici possono, come per il disturbo bipolare, inficiare la compliance del paziente stesso alle terapie, portare alla sospensione del trattamento e prolungare quindi la durata di malattia non trattata. I risultati preliminari dell’applicazione del modello integrato di trattamento (farmacologico e interven- to psicoeducativo) indicano una maggiore adesione del pazien- te al progetto di intervento farmacologico.
durata di psicosi non trattata, durata di malattia non trattata e pathways to care negli esordi psicotici A. Fiorillo, D. Giacco, V. Del Vecchio, M. Luciano, C. De Rosa, F. Catapano, M. Maj
Dipartimento di Psichiatria, Università di Napoli SUN
Sebbene la durata di malattia non trattata si sia imposta come un importante fattore predittivo di esito nella schizofrenia, sono stati condotti pochi studi in Italia sui percorsi di cura dei pa- zienti con questo disturbo.
Sono stati reclutati 35 pazienti di sesso maschile (69%), con un’età media di 26 (± 5,7) anni, single (86%) e conviventi con la famiglia d’origine (96%). Sebbene tutti i pazienti abbiano un buon livello di istruzione, il 64% non lavora. Il 21% presenta una familiarità per disturbi psicotici. I pazienti e i loro familiari fanno risalire l’esordio clinico all’età di 25,1 (± 5,8) anni. Durante il primo episodio tutti i pazienti hanno presentato ideazione delirante, con sintomi negativi (50%), comportamenti bizzarri (41%) e allucinazioni uditive (33%). Il 50% dei pazienti ha fatto uso di sostanze, il 17% ha effettuato un tentativo di suicidio e il 35% è stato ricoverato in un reparto di psichiatria (l’80% in TSO). La DUI, cioè l’intervallo tra l’insorgenza dei sintomi prodromici e il primo trattamento adeguato, è di 108,1 (± 113,2) settimane. La DUP, cioè l’intervallo tra l’insorgenza dei sintomi psicotici e il primo trattamento adeguato, è di 28,5 settimane (± 49,2). La prima richiesta di aiuto a un qualsiasi operatore sanitario (“help
seeking delay”), mediata dai familiari nel 67% dei casi, è avve-
nuta dopo 6,6 (6,5) settimane. Il 14% si è rivolto direttamente a uno specialista in psichiatria, il 50% al medico di medicina generale, il 21% a un neurologo e il 14% a uno psicologo. In media, i pazienti hanno avuto 0,8 (0,8) contatti con operatori sanitari non psichiatrici prima di essere inviati al servizio di sa- lute mentale (12,0 ± 25,5 settimane; “referral delay”). Al primo contatto sanitario, il 35% dei pazienti ha ricevuto una diagnosi corretta. Il primo trattamento prescritto è stato a base di antip- sicotici (24%), ansiolitici (7%) o antidepressivi (3%). Il 35% dei pazienti ha ricevuto un ciclo di psicoterapia; il 31% non ha ricevuto alcun trattamento.
il trauma e la persona: modelli d’interazione C. Carmassi1, L. Dell’Osso1, P. Stratta2, A. Rossi2
1 Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia e Biotecnologia, Università di Pisa; 2 Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università de L’Aquila
I rapporti tra vulnerabilità al trauma e fenomenica post-trauma- tica da stress sono stati classicamente studiati valutando preva- misura di diversi anni – con differenze significative da disturbo
a disturbo – sia nel disturbo depressivo maggiore che nel di- sturbo bipolare, così come in disturbi d’ansia quali il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo di panico e il disturbo d’ansia generalizzato 3. Altri studi, hanno preso in considerazione il
ruolo prognostico della DUI nei suddetti disturbi, evidenzian- do come i pazienti con DUI maggiore tendano a presentare un peggior outcome, a seconda dei casi rappresentato da una peggior risposta ai trattamenti farmacologici, sviluppo di co- morbidità, aumento del rischio suicidarlo, maggior durata di malattia, esordio precoce, ecc. Sebbene vi sia ancora molto da chiarire nello studio della DUI nei disturbi affettivi, in partico- lare in relazione alle soglie che differenziano una minore da una maggiore DUI nelle varie condizioni, allo stato attuale, si registra un crescente interesse da parte della ricerca in merito. Ciò anche in relazione alle possibilità d’implementare - analo- gamente a quanto già fatto per i disturbi psicotici - programmi di prevenzione e “early interventions” volti al riconoscimento e al trattamento precoce di disturbi ad alta prevalenza e tendenza alla cronicizzazione, quali appunto i disturbi affettivi.
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il ruolo degli interventi psicosociali per ridurre la dUi: l’esempio del disturbo bipolare e del doC
U. Albert, G. Maina, F. Bogetto
Dipartimento di Neuroscienze, Servizio per i Disturbi Depressivi e d’Ansia, Università di Torino
Accanto alle terapie farmacologiche, che rimangono di impor- tanza fondamentale nel trattamento dei disturbi psichiatrici, si stanno delineando negli ultimi anni protocolli di intervento di tipo psicosociale la cui validazione è avvenuta con rigidi criteri scientifici. Tali interventi, che spesso fanno riferimento alle terapie cognitivo-comportamentali, utilizzano un approccio psicoe- ducativo e possono essere rivolti sia a pazienti che a familiari. L’ambito di impiego di tali interventi psicoeducativi è innanzi- tutto quello del disturbo bipolare. In tale caso vi sono propo- ste di intervento validate e sicuramente efficaci, con obiettivi molteplici. Un fondamentale obiettivo, in tal caso, condiviso da tutti i modelli proposti in letteratura, consiste nel promuo- vere una maggiore adesione ai trattamenti farmacologici con stabilizzatori del tono dell’umore. Questa maggiore adesione si tramuta in una riduzione del numero delle ricorrenze del di- sturbo bipolare. Dal momento che ciascuna ricorrenza espone il paziente a un aumento del rischio di successive ricorrenze e determina un progressivo deterioramento di alcune funzioni cognitive, si può affermare che promuovere una maggiore ade- sione alle cure significa ridurre la durata di malattia non trattata e quindi migliorare nel lungo termine la prognosi del disturbo.
grado di mediare l’effetto del trauma vs. lo sviluppo di sintomi traumatici interagendo però in maniera significativa con il ge- nere e il grado di esposizione.
Dai nostri dati emerge complessivamente un modello d’intera- zione persona-situazione dove differenti fattori collegati a per- sonalità, contesto, coping e resilienza interagiscono nel modu- lare la risposta allo stress.
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lentemente i fattori di rischio legati alla persona e alle caratteri- stiche del trauma. È emersa, infatti, una correlazione significa- tiva tra più elevati tassi di PTSD, sia di Asse I che parziale, e di sintomi post-traumatici da stress e genere femminile, età, livello socio-culturale, lutti, grado di esposizione al trauma, ecc. 3-6.
Parallelamente, altri studi hanno riportato cambiamenti della personalità a seguito del trauma nelle vittime di terremoti 3 7
evidenziando tuttavia la difficoltà nel determinare eventuali re- lazioni causa-effetto per il fatto che le valutazioni sono sempre state svolte a seguito dell’esposizione 2.
Solo negli ultimi anni la ricerca si è indirizzata allo studio non solo dei fattori di rischio ma anche di quelli di protezione ri- spetto allo sviluppo di PTSD e di sintomi post-traumatici da stress, ovvero dei motivi per i quali le persone esposte, a parità di caratteristiche del trauma, non manifestano sintomi psicopa- tologici o addirittura mostrano un migliore adattamento rispetto alle condizioni pre-trauma. Questi aspetti sono considerati par- te integrante del costrutto di resilienza post-traumatica 1.
L’Italia è un paese a elevato rischio sismico sebbene eventi di elevata magnitudo siano rari. Il 6 aprile 2009 un sisma di inten- sità 6,3 sulla scala Richter ha colpito la città de L’Aquila deter- minando la distruzione di ampie parti della città, con oltre 300 morti, 1600 feriti e 66.000 sfollati. Nell’ambito di una collabo- razione tra la clinica psichiatrica dell’Università di Pisa (prof. L. Dell’Osso) e dell’Università de L’Aquila (prof. A. Rossi), sono stati indagati 324 studenti delle scuole superiori esposti, sebbe- ne in grado diverso, al terremoto de L’Aquila 2009. Gli studenti sono stati indagati per la presenza di sintomi dello spettro post- traumatico da stress, resilienza e stili di coping e il campione è stato confrontato con un gruppo di 147 studenti non esposti al sisma. A tal fine sono stati somministrati il Trauma and Loss
Spectrum-Self Report (TALS-SR), la Resilience Scale for Adole- scent (READ) e la Brief Cope. La resilienza si è dimostrata in
adHd: una diagnosi che può fare la differenza S. Walitza, S. Vicari, S. Pallanti, J. Newcorn
Dipartimento di Psicologica, Università di Firenze
L’ADHD è un disturbo frequentemente diagnosticato nell’infan- zia e nell’adolescenza, ma il suo impatto sull’adulto è sotto- valutato e relativamente poco studiato, sebbene sia ormai ben dimostrato come tale quadro clinico si protragga ben oltre l’età dello sviluppo (circa i 2/3 dei soggetti affetti in giovane età) e sia causa di notevole disfunzione sociale e lavorativa, perché molto spesso non riconosciuto o erroneamente attribuito a un altro disturbo.
Uno dei più importanti aspetti da considerare durante la valu- tazione dell’adulto con ADHD è il pattern delle comorbidità con cui una notevole percentuale di soggetti si presenta all’at- tenzione del clinico e che molto spesso rende la gestione del trattamento molto impegnativa. Infatti, oltre ad altri disturbi di asse I e II come disturbi d’ansia o disturbo bipolare, sono di frequente osservazione l’abuso multiplo di sostanze e le con- dotte antisociali, che andrebbero quindi valutate all’interno di una cornice più ampia, in modo da ottimizzare il trattamento utilizzando tutte le terapie disponibili, partendo da un’adeguata e completa psicoeducazione del paziente, fino ad arrivare a tecniche più complesse di terapia cognitivo-comportamentale e alla farmacoterapia.
MerColedì 15 FeBBraio 2012 - ore 16.00-18.00
Sala Berinini