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L’ambivalenza della star: la celebrità fra adorazione e degradazione

Capitolo 1. La star e lo zimbello: media, rituale e derisione

3. Spazio dei media e contenimento del ridicolo

3.2. Visibilità e derisione nello spazio dei media

3.2.1 L’ambivalenza della star: la celebrità fra adorazione e degradazione

Attraverso definizioni come ―celebrity culture‖ (Rojek 2001), ―celebrity society‖ (Van Krieken 2012), ―celebrization of society‖ (Driessens 2013a) e ―celebrization of everyday life‖ (boyd 2014), numerosi studiosi hanno messo in luce la presenza sempre più pervasiva della celebrità nella nostra quotidianità. In un senso, ciò riguarda la maniera in cui istituzioni, interazioni e identità sono incrementalmente organizzate attorno a individui altamente visibili e riconoscibili; le celebrità aiutano su questo versante a ridurre la complessità sociale, funzionando da punti di riferimento per la coordinazione dei gruppi e da modelli a cui attingere per la costruzione delle moderne soggettività (Van Krieken 2012). In un senso parallelo tale pervasività riguarda invece il modo in cui le relazioni fra individui ordinari integrano un numero sempre maggiore di elementi e grammatiche provenienti dalle interazioni che le celebrità intrattengono con le loro audience. È il caso di quelle pratiche che hanno assunto il nome di

micro-celebrity (Senft 2008), che riguardano cioè il modo in cui le persone gestiscono la propria

presentazione online considerando amici e follower come una fan base, ponendo la popolarità come obiettivo, amministrando il rapporto con i propri contatti attraverso tecniche di fidelizzazione, nonché costruendo un‘immagine di sé facilmente consumabile e riconoscibile dagli altri (Marwick, boyd 2011a). Sia le celebrità come soggetti, che la celebrità come valore hanno assunto un ruolo centrale nei modi di esistenza della società in rete.

Il desiderio del pubblico riconoscimento non è però una prerogativa dell‘epoca contemporanea. Come ha dimostrato Leo Braudy (1986) nella sua storia della fama nell‘Occidente, la ricerca della notorietà e l‘importanza sociale dell‘individuo particolarmente noto, sono costanti rinvenibili dalle antiche civiltà greche e latine, passando dalla venerazione di santi e profeti nello sviluppo del cristianesimo, fino alla fama coltivata da monarchi, artisti e

politici nell‘età moderna. Da secoli esiste l‘impiego di strategie atte ad amplificare e controllare l‘immagine pubblica di determinate figure, come è stato per Alessandro Magno, Giulio Cesare o Luigi XVI di Francia; il fatto che quest‘ultimo fosse identificato come ―Re Sole‖ o ―Viceré di Dio‖ rappresenta un esempio di raffinato utilizzo di quelle che oggi chiameremmo celebrity

public relations (Braudy 1986).

Tuttavia, l‘attuale costrutto della ―celebrità‖ non costituisce un semplice sinonimo di notorietà o prestigio, ma indica prima di tutto un preciso genere discorsivo legato alle industrie e alle pratiche mediali, a cui si connettono particolari stili di rappresentazione e interazione (Turner 2014). Oltre al fatto di essere pubblicamente conosciuta, la celebrità implica infatti la presenza ulteriore di almeno tre componenti: 1) la distanza sociale, per cui a differenza della persona conosciuta che ha sviluppato la sua notorietà tramite il contatto personale, il rapporto con la celebrità passa dal riconoscimento di un status più elevato o comunque da un‘asimmetria nella relazione garantita dall‘intercessione dei media (Rojek 2001); 2) l‘attenzione alla vita

privata, nel senso che l‘interesse del pubblico e dei media verso la celebrità non è ristretto alla

sua attività spettacolare, sportiva, politica o filantropica che sia, ma anche e soprattutto a dettagli della sua vita privata; 3) l‘amministrazione di tale narrazione personale attraverso i

media, ossia il fatto che l‘orientamento alla vita della celebrità è appositamente coltivato

all‘interno di un ecosistema mediale a cui partecipano riviste di gossip, programmi televisivi, social media, consulenti all‘immagine e agenzie di relazioni pubbliche. La celebrità come la conosciamo oggi non nasce quindi con l‘espansione della fama dei grandi sovrani del passato, ma attorno al secondo decennio del Novecento, periodo in cui al consistente aumento dei cachet degli attori dell‘industria cinematografica si accompagna la comparsa di rubriche e riviste specifiche dedicate agli aspetti privati delle star (Marshall 1997).

Secondo Van Krieken (2012) l‘odierna categoria della celebrità si realizza a partire da tre percorsi di trasformazione storica legati all‘emergere della modernità. In primis l‘idea di celebrità come performance del sé trova le sue radici nell‘evoluzione della società di corte (Elias 1980), dove il controllo strategico e teatralizzato dell‘identità diventa uno dei fattori chiave dell‘acquisizione del potere e della mobilità sociale. Secondo, la celebrità si stanzia sulla costruzione moderna dell‘individualismo e della meritocrazia, per cui il singolo è intitolato alla possibilità di acquisire attraverso le sue azioni un ammontare di prestigio, riconoscimento e visibilità che lo distinguono dalla massa. Da qui trova sostegno l‘aporia cardine della celebrità, per cui essa è sia ―come noi‖ che ―diversa da noi‖, laddove ella, pur partendo da condizioni comuni al resto della popolazione, ha saputo trascendere la quotidianità attraverso le sue qualità straordinarie. In terzo luogo l‘affermazione della celebrità dipende dalla progressiva sovrapposizione fra sfera pubblica e spazio dei media (Thompson 1998), per cui l‘amministrazione strategica dell‘immagine in pubblico passa dalle arene circoscritte della corte e dei luoghi d‘incontro della borghesia all‘area di visibilità estesa costituita dai media di massa.

Nella contemporaneità, in sostanza, quella che Braudy inquadra come un‘ ―atavica‖ tensione alla popolarità e al riconoscimento personale incrocia una condizione culturale dove

tali processi di legittimazione impiegano i media come agenti di validazione (Couldry 2003). Tale potere di validazione si manifesta ora in maniera preminente nel modo in cui esso può concentrarsi sulla sola presenza della persona, arrivando a prescindere dalla sua prestazione. Sebbene come sottolinea Van Krieken la genealogia del culto della celebrità si appoggi sull‘ideale meritocratico dell‘individuo con capacità fuori dall‘ordinario, ora il conseguimento della celebrità avviene attraverso forme plurali che non si sostanziano necessariamente su tale ideale. La tassonomia dei tipi di celebrità fornita da Chris Rojek (2001) è in questo senso chiarificatrice. Secondo Rojek la celebrità può essere ascribed – quando si è celebri per eredità, come nel caso delle famiglie reali e dei figli delle star –, achieved – quando si tratta di una celebrità conseguita attraverso il compimento di una determinata impresa, sia essa sportiva, artistica o storica – o attributed – quando si tratta di una celebrità costruita attorno alla persona per mezzo di tecniche di marketing, pubbliche relazioni e partecipazioni calcolate ad eventi, pubblicità e show televisivi. Rojek conia poi il termine ―celetoid‖ per riferirsi a quelle figure che si trovano all‘interno dell‘attenzione dei media per un lasso di tempo estremante breve e imprevedibile, collocandosi perciò al margine fra persone ordinarie e celebrità. In tale categoria entrano ad esempio vincitori di lotterie, concorrenti di quiz televisivi, ospiti ricorrenti di talk show, protagonisti di fatti di cronaca, one-hit wonder e figure pubbliche la cui vita privata diviene momentaneamente oggetto di interesse a seguito di uno scandalo. Da categoria residuale il celetoide è però passato ad acquisire una presenza consistente nell‘attuale panorama mediale. Sono sempre più numerosi i casi di persone che, casualmente investite dalla fama, riescono a tramutare in celebrità l‘improvvisa attenzione ricevuta grazie alla rete, al ―ripescaggio‖ dei reality o all‘aiuto di agenzie di PR. Sebbene la visibilità mediatica non sia da sé una condizione sufficiente a definire la celebrità, è vero anche che da essa si sviluppano un numero incrementale di possibilità di celebrificazione, basate sulla messa in scena del rapporto che l‘individuo intrattiene con tale visibilità. Si pensi al caso di Paris Hilton, famosa per i suoi tentativi di essere famosa (Sconce 2007a), o a quel fenomeno che in Italia ha preso il nome di ―lelemorismo‖:

Sempre più frequentemente l‘immaginario sociale si popola infatti di personaggi privi di particolari competenze o capacità professionali, diventati celebri soltanto grazie alla loro costante presenza mediatica. Sono personaggi come Fernanda Lessa e Loredana Lecciso. O come Marco Ahmetovic, il ragazzo nomade che nell‘aprile 2007, guidando in stato di ubriachezza, ha travolto e ucciso con il suo furgone quattro giovani ad Appianano del Tronto e che in seguito a ciò ha potuto dare il suo nome a una linea di oggetti appositamente creati: capi d‘abbigliamento, orologi, occhiali, profumi ecc. Il critico televisivo Paolo Martini ha chiamato questo fenomeno ―Lelemorismo‖, dal nome del celebre agente dei vip dello spettacolo Lele Mora, e ha scritto che consiste nel «prendere i personaggi dal nulla, venderli per pochissimo denaro alla tv, dilatarne l‘immagine con i soliti trucchetti del gossip, rivenderli per più soldi sul mercato delle serate, e infine moltiplicarne man mano il valore» (Codeluppi 2014, p. 11).

Da un lato tali trasformazioni fanno trasparire come quello delle celebrità sia un mercato incredibilmente sviluppato e auto-alimentante, che trae le proprie opportunità di guadagno dal

mito del centro mediato della società; la capacità di fabbricare star effimere a partire dalla pura presenza mediatica dimostra infatti come i media mantengano un accentramento di potere simbolico nonostante il decentramento e la pluralizzazione delle routine produttive (Couldry 2015). Dall‘altro lato le stesse trasformazioni rappresentano l‘ultimo tassello di un percorso di mondanizzazione che da lungo tempo interessa l‘apparato discorsivo della celebrità. Questo riguarda un progressivo processo di concentrazione dell‘attenzione del pubblico e dei media sugli aspetti più ―terreni‖ delle star. Dall‘iniziale desiderio di prossimità rivolto alle inarrivabili esistenze dei divi, tale processo si è tradotto in un incrementale interesse verso la quotidianità dell‘individuo celebre, fino al rovesciamento dell‘avvicinamento in abiezione, tramite la focalizzazione sulle componenti più private, triviali e indecorose delle loro vite. Si tratta di una parabola inscritta nella stessa concezione contemporanea della celebrità, laddove ciò che dà origine a tale categoria è proprio l‘idea che esistano modi di vivere a cui vale la pena assistere in un‘ottica spettatoriale.

Edgar Morin, in una delle prime analisi ad aver affrontato il fenomeno della celebrità in prospettiva culturologica, metteva già in luce nel 1957 la tendenza volere ―riportare le star sulla terra‖. Se le prime dive sono spettri privi di corpo che aleggiano sullo schermo cinematografico, quelle degli anni Trenta, sostiene il sociologo francese, presentano già una concretezza terrena più vicina alla vita quotidiana dei mortali:

Non sono più stelle inaccessibili, ma mediatori fra il cielo dello schermo e la terra. […] suscitano un culto in cui l‘ammirazione prevale sulla venerazione: sono meno marmoree e più commoventi, meno sublimi ma proprio per ciò più amabili. L‘evoluzione che degrada la divinità del divo stimola dunque e moltiplica i punti di contatto fra divi e mortali. Lungi dal distruggere il culto lo favorisce. Più vicina, più intima, la diva è quasi a disposizione dei suoi adoratori, e provoca una fioritura di club, di riviste, di fotografie, di lettere che istituzionalizzano il loro fervore. Una rete di canali convoglia ormai l‘omaggio collettivo e distribuisce tra i fedeli i mille feticci che essi esigono (Morin 1963, pp. 33-34).

Come evidenzia Morin nel passaggio appena riportato, la tendenza all‘umanizzazione del divo avviene in connessione all‘implementazione di ―canali‖ che ne moltiplicano la presenza. L‘avvicinamento fra pubblico e star va infatti inquadrato all‘interno dello sviluppo delle tecniche di rappresentazione e delle tecnologie della comunicazione che hanno ridefinito di volta in volta la distanza sociale su cui la celebrità si sostanzia. Giles (2000) sostiene ad esempio come l‘invenzione del primo piano cinematografico sia stato uno dei più importanti fattori a sostegno della fama delle prime star di Hollywood, in quanto tale tecnica «[…] enabled audiences not only to see the facial features of the actors but also their portrayal of emotions, thus intensifying the intimacy between star and spectator. The advent of sound served to further strengthen the star-fan relationship» (Giles 2000, p. 24). I dispositivi dell‘intimità che mettono in connessione pubblico e celebrità si sono fatti da qui sempre più numerosi. Si pensi alla capillarità della copertura giornalistica e fotografica delle loro vite familiari, alle confessioni in televisione delle star, al rapporto telefonico che assottiglia la distanza fra telespettatore e

personalità televisiva nei programmi della neotelevisione23, ai reality che utilizzano celebrità come concorrenti al fine di far emergere la loro ordinarietà, fino ad arrivare al modo in cui Twitter e gli altri social media coltivano la percezione di un accesso diretto e potenzialmente costante alle vite delle celebrità. Questi ultimi pongono di fatto in discussione l‘idea che quella intrattenuta con le star possa essere soltanto una relazione parasociale (Horton, Wohl 1956) in cui il senso di reciprocità è frutto di una proiezione illusoria, laddove su Twitter l‘interazione con la celebrità diviene una concreta possibilità (Marwick, boyd 2011b).

L‘intensificarsi di tale traiettoria di mondanizzazione ha portato all‘odierno capovolgimento per cui non è più soltanto l‘aura della star a gettare luce sulla sua quotidianità, ma è anche la banalità quotidiana dell‘individuo che, a un certo grado di messa a fuoco mediale, può produrre delle vere e proprie ―star dell‘ordinario‖. È quello che Graeme Turner (2010) ha denominato ―demotic turn‖24, ossia «[…] the increasing visibility of the ―ordinary person‖ as

they have turned themselves into media content through celebrity culture, reality TV, DIY web- sites, talk radio and the like» (Turner 2010, p. 2010). Tale svolta non è rappresentata soltanto dall‘aumento delle possibilità di accesso ai media, ma riguarda un cambio nel regime di rappresentazione della ―star quality‖, che passa dalla narrazione del talento e della conquista a quella dell‘esibizione di una particolare soggettività. Nei reality show, in tal senso, la tolleranza verso la mancanza di abilità nei partecipanti, è controbilanciata dalla messa alla prova della loro capacità di mostrare un‘individualità originale e insieme ordinaria (Turner 2010).

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Un tassello fondamentale nel percorso di avvicinamento fra pubblico e personalità dei media in Italia è quello che è stato notoriamente definito da Umberto Eco (1983) come il passaggio dalla paleotelevisione alla neotelevisione. Con il termine neotelevisione Eco indica una serie di trasformazioni incorse nella tv pubblica italiana dall‘inizio degli anni ottanta per far fronte alla concorrenza delle televisioni commerciali private da poco entrate in campo. Nella sua nuova veste la televisione appare secondo Eco come un medium che non mira più a porsi come uno sguardo trasparente sul mondo, ma come un medium che rivolge lo sguardo su se stesso, sui suoi meccanismi produttivi, sui suoi programmi, sui suoi miti e personaggi: «La caratteristica principale della Neo TV è che essa sempre meno parla (come la Paleo TV faceva o fingeva di fare) del mondo esterno. Essa parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo col proprio pubblico. Non importa cosa dica o di cosa parli (anche perché il pubblico col telecomando decide quando lasciarla parlare e quando passare su un altro canale). Essa, per sopravvivere a questo potere di commutazione, cerca di trattenere lo spettatore dicendogli: ―io sono qui, io sono io, e io sono te‖. La massima notizia che la Neo TV fornisce, sia che parli di missili o di Stanlio che fa cadere un armadio, è questa: ―ti annuncio, caso mirabile, che tu mi stai vedendo; se non ci credi, prova, fai questo numero e chiamami, io ti risponderò‖» (Eco 1983, p.163). Caratteristiche della neotelevisione sono la tendenza a mettere in scena anziché occultare i suoi dispositivi produttivi (lasciando all‘interno delle inquadrature microfoni e telecamere, attraverso la messa in mostra del backstage, ma anche con l‘istituzione spettacolare di premi diretti al professionismo televisivo come i Telegatti), la tendenza al flusso e al rimando reciproco fra programmi e, appunto, il perseguimento del senso di vicinanza fra pubblico e programma televisivo (Casetti 1988). Quest‘ultimo aspetto è osservabile lungo diverse strategie, come: 1) l‘utilizzo di modalità di interazione del telespettatore del programma attraverso telefonate, lettere e votazioni, 2) la rappresentazione del telespettatore all‘interno del programma attraverso l‘utilizzo e la messa in mostra del pubblico in sala, il quale alle volte si fa anche soggetto interveniente, 3) l‘utilizzo di scenografie atte a connotare lo spazio televisivo come uno spazio domestico e conviviale, 4) il vasto impiego di storie di persone comuni all‘interno dei programmi.

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Turner utilizza il termine ―demotico‖ per marcare come l‘ingresso nei media di persone comuni non si traduce automaticamente in una svolta ―democratica‖ dei media, laddove tale allargamento dell‘accessibilità della visibilità non disgrega affatto il potere simbolico riconosciuto ai media: « No amount of public participation in game shows, reality TV or DIY celebrity web-sites will alter the fact that, overall, the media industries still remain in control of the symbolic economy, and that they still strive to operate this economy in the service of their own interests. Overwhelmingly now […] these interests are

commercial. It is worth stating that this fact alone should give us pause in suggesting they might also be democratic, simply because they have multiplied the range of choices available to the consumer» (Turner 2010, pp. 16-17).

L‘abbassamento della star e l‘innalzamento dell‘individuo ordinario si incontrano perciò attorno allo spettacolo della forma di vita.

Tuttavia, il fatto che le celebrità assumano le sembianze delle persone comuni non ha comportato la scomparsa della distanza fra i due ambiti. È invece il contrario ad essere vero: la possibilità di ispezionare e giudicare ogni anfratto della vita dell‘individuo famoso, sospendendo la norma della disattenzione civile (Goffman 1988), dipende proprio dal riconoscimento del suo statuto separato rispetto al mondo ordinario. Come fa notare Gamson (1994) nel suo studio sui lettori delle riviste di gossip, le celebrità sono oggetti ideali per il meccanismo del pettegolezzo; ciò perché sono come vicini di casa che tutti conoscono e di cui tutti sanno tutto, ma soprattutto perché, a differenza di tali ipotetici vicini, si può parlare bene o male di loro senza accollarsi alcuna responsabilità e ripercussione: l‘esteriorità sociale delle celebrità è perciò un requisito fondamentale al mantenimento del carattere di libertà e frivolezza su cui si basa il gossip. Tale esteriorità non dipende semplicemente dal loro essere medialmente distanziate dal pubblico; esse sono ideologicamente collocate in uno spazio di frontiera ai confini della società (Rojek 2012) in cui le norme che regolano la vita quotidiana si applicano con un peso minore. Ad esse è condonata la possibilità di assumere condotte finanziari imprudenti, comportamenti sessuali inusuali e stili di vita trasgressivi; dall‘altro lato, al pubblico è permesso trattarle con un‘indiscrezione fuori dal comune.

Gemini (2002) sottolinea a tal riguardo come la posizione della star sia per certi versi simile a quella della vittima sacrificale. In essa si trova infatti la tensione ambivalente del sacro fra adorazione e contenimento della violenza, laddove il suo essere oggetto del culto dei fan è inscindibile dal consumo ―cannibale‖ della sua vita privata, dei suoi drammi e dei suoi dolori. Tale connotato di ―sacrificabilità‖ della celebrità risulta attualmente sempre più in vista. Questo non riguarda più soltanto le forme di violenza eufemizzata dell‘invasione della privacy, ma un tipo violenza più esplicita che tabloid cartacei e digitali incanalano in maniera oculata. Accanto al settore dei media che ruota attorno all‘interesse nelle celebrità come vettori di emulazione e desiderio, vi è anche un settore altrettanto esteso indirizzato a capitalizzare sulla loro funzione di bersagli della derisione, dell‘indignazione e del risentimento (Turner 2014). Tale settore si concentra particolarmente su quei momenti che appaiono come fratture nel controllo dell‘immagine delle star:

Accanto a Hello! e Vanity Fair, troviamo anche rotocalchi come People, Now, The National Enquirer, e varie riviste nazionali come FHM. La loro attitudine verso l‘industria della celebrità può essere tutt‘altro che rispettosa, focalizzandosi su scandali, foto imbarazzanti dei paparazzi, e contornando tali contenuti con una forte dose di commenti e titoli ironici o malevoli. […] Molto di ciò che pubblicano può essere considerate come banalità malevole, ma essi indirizzano una parte dell‘interesse dell‘audience che trascurata dalla maggior parte dei media ―rispettabili‖. Come dimostra l‘esistenza stessa di tali magazine, e malgrado l‘investimento professionistico nel controllo dell‘immagine delle star, il sistema non funziona ancora esattamente come vorrebbero i pubblicisti dell‘industria della celebrità. Tra le attrattive del giornalismo sulle celebrità vi è la rivelazione dello scandaloso, del bizzarro, del patetico, del posticcio, del disturbante e dell‘indecoroso. Hugh Grant arrestato nel sedile posteriore della sua macchina con una prostituta, Michael Jackson che espone il suo neonato fuori dal balcone dell‘albergo, Britney

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