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Collasso dei contesti

Capitolo 2. YouTube: partecipazione, fama e relazioni nella video cultura digitale

5. Generi di UGC e generi della fama su YouTube

6.5 Collasso dei contesti

In No Sense of Place, scritto nel 1985, Meyrowitz sostiene come le tecnologie elettroniche della comunicazione mettano in crisi la possibilità di definire univocamente il contesto delle interazioni sociali: negli scambi comunicativi faccia a faccia la condivisione dello spazio fisico è la condizione dell‘accesso alle informazioni, per cui il controllo della propria presentazione avviene in relazione ai compresenti e all‘ambiente circostante; nel momento però in cui i media elettronici permettono agli individui di accedere a flussi informativi che transitano fra più ambienti, lo spazio fisico perde progressivamente la capacità di determinare lo "spazio sociale". Ciò comporta secondo Meyrowitz un mutamento radicale della vita pubblica, laddove informazioni che prima erano maggiormente indirizzabili a specifici gruppi sociali, arrivano ora con la televisione e la radio indistintamente a giovani e adulti, femmine e maschi, potenti ed emarginati. Politici, giornalisti e altre figure in vista si trovano perciò a possedere un minor controllo sui contesti di ricezione, per cui essi devono giostrare i propri output tenendo a mente una pluralità di pubblici invisibili, i quali potrebbero in ogni momento interpretare in maniera differente le loro azioni.

Se con i media elettronici tale condizione riguarda principalmente le figure pubbliche, con quelli digitali essa comincia a divenire un attributo culturale diffuso. Mark Poster (2006) descrive come Internet e i sistemi digitali siano tesi fra l‘aspirazione tecnologica della

"trasmissione perfetta" e l‘essere agenti di confusione trans-culturale. Poster riporta il caso di

Bert is Evil, sito goliardico dedicato alla raccolta di fotomontaggi in cui il pupazzo Bert,

personaggio del popolare show per bambini Sesame Street, viene raffigurato in compagnia dei ―malvagi della storia‖ come Adolf Hitler e Osama Bin Laden; nel 2001 un tipografo bengalese trova online l‘immagine di Bin Laden insieme a Bert e non comprendendo il carattere umoristico del fotomontaggio la utilizza per stampare poster da vendere a una imminente manifestazione pro-Bin Laden; il caso arriva all‘attenzione – e al motteggio - del mondo occidentale quando comincia a circolare una foto dell‘agenzia Reuters che riprende la protesta anti-americana, in cui uno dei membri del corteo osteggia un cartellone con Bin Laden accompagnato dal popolare pupazzo.

Figura 21, il pupazzo Bert alla protesta anti-americana

Poster porta tale esempio per sostenere come la trasmissione di immagini, testi e suoni nel dominio digitale possa essere allo stesso tempo «both noiseless and inchoherent» (Poster 2006, p. 24) e come Internet, sradicando gli artefatti dal loro contesto di origine, promuova una condizione di incrementale fraintendimento e incomprensione, al punto che «since cultural objects circulate everywhere, there is no longer any local soil on the earth» (Poster 2006, p. 22). Tale conclusione dello studioso americano non tiene effettivamente conto della presenza di forze contrarie di ri-localizzazione dei significati culturali: come sostiene Bartoletti (2007), se lo sganciamento degli artefatti dal loro portato memoriale è una traiettoria inevitabile nello sviluppo di un sistema della comunicazione che deve costantemente dimenticare per avviare nuove possibilità comunicative, è allo stesso tempo vero che dal movimento delle cose nascono nuove opportunità di resistenza simbolica che riallacciano il rapporto degli oggetti con le memorie individuali e collettive.

Il fraintendimento culturale, più che farsi fatalità, diventa con le tecnologie digitali un orizzonte diffuso che i singoli sono portati a dover amministrare quotidianamente. Riprendendo

le teorizzazioni di Meyrowitz, boyd (2008) parla appunto di come i pubblici connessi si trovino a dover inevitabilmente patteggiare con un collasso dei contesti. Con tale termine boyd intende la difficoltà nel mantenere distinti i differenti contesti dell‘interazione dovuta alla mancanza di barriere spaziali, sociali e temporali. Tale evenienza non è una prerogativa degli ambienti digitali; per esempio incontrare il proprio insegnate delle scuole superiori mentre si beve con gli amici al bar può dare adito a un tipo di imbarazzo dato dal collasso dei due differenti contesti sociali. Fra i pubblici connessi, tuttavia, tali occasioni avvengono con maggiore frequenza e minore possibilità di riassestare la situazione comunicativa:

Le collisioni inaspettate di contesti differenti, come ad esempio l‘imbattersi nel proprio datore di lavore mentre si è fuori con gli amici, possono creare situazioni d‘imbarazzo; laddove però entrambi i versanti dell‘interazione sono normalmente al corrente della collisione, risulta normalmente abbastanza semplice applicare veloci aggiustamenti al proprio comportamento per affrontare la situazione imbarazzante. Fra i pubblici connessi, invece, i contesti collassano spesso fra loro in una maniera che lascia il performer all‘oscuro dei differenti contesti riferiti ai differenti pubblici, amplificando così l‘imbarazzo e rendendo impossibile l‘adeguamento alla situazione (boyd 2008, p. 38, traduzione mia).

A incrementare la difficoltà di controllo sulla distinzione fra contesti sono secondo boyd le affordance proprie dei contenuti digitali, che la studiosa riassume in quattro principali caratteristiche: persistenza, replicabilità, scalabilità e ricercabilità. Le tracce lasciate online dagli utenti su blog e social network sono infatti persistenti; la loro stabilità nel tempo implica il confronto fra sé passato e sé futuri, per cui ciò che è stato scritto di getto in un momento di rabbia può continuare ad avere conseguenze indipendentemente dalla mutate condizione emotive. Esse sono replicabili, nel senso che ogni atto comunicativo diventa infinitamente disponibile alla riproduzione indipendentemente dalle intenzioni dell‘agente iniziale. I contenuti online sono poi scalabili, nel senso che possono essere sottoposti con sforzi e costi contenuti all‘attenzione di pubblico vastissimo, per cui l‘intimità di un home movie può, grazie alla condivisione, coinvolgere milioni di persone. Da ultimo essi sono ricercabili, per cui grazie ai motori di ricerca, essi possono tornare disponibili anche quando se ne erano perse le precise coordinate. Dal momento in cui tali proprietà facilitano la propagazione dei propri output al di fuori del proprio intorno relazionale, gli individui si trovano a dover amplificare il management delle impressioni comprendendovi la presenza di audience invisibili (boyd 2008), pubblici non immediatamente presenti e difficili da anticipare, a cui i nostri atti comunicativi possono giungere senza che si abbia possibilità alcuna di riassestamento del contesto.

Su YouTube il collasso dei contesti si è imposto come un tratto talmente comune da aver definito la sua estetica degli inizi, sia nei contenuti dei video che nell‘esperienza di navigazione degli utenti. Una delle caratteristiche principali dei video più virali del suo primo lustro (2005- 2010) è infatti costituita dall‘effetto ridicolo dato dal disallineamento fra performer e pubblico, per cui l‘audience immaginata dai protagonisti dei video si allontana fortemente dalla loro audience empirica. A volte il protagonista è totalmente inconsapevole, come nel caso dello Star

Wars Kid151, il ragazzino corpulento che si è ripreso mentre mimava in solitaria un combattimento con la spada laser come nel film Star Wars, il cui video è stato poi trovato dai compagni di classe e caricato online ricevendo decine di milioni di visualizzazioni; altre volte la persona compare su un medium, ma circola su Internet con tutt‘altro scopo, come Antoine Dodson152, intervistato da un notiziario locale riguardo un fatto di cronaca e poi condiviso sui social media a causa della sua parlata enfatica; in altri casi si tratta di una esposizione volontaria su YouTube che si diffonde con un senso differente da quello immaginato dal protagonista, come il video Leave Britney Alone153, dove il vloggger Chris Crocker si strugge fino al pianto per lo sciacallaggio mediatico rivolto verso Britney Spears, ma che invece di ricevere consensi per la sua star del cuore, ottiene l‘ampio dileggio dei pubblici connessi; altre volte ancora è proprio l‘incertezza sul contesto della performance a stimolare l‘interesse del pubblico, come con il video virale Chocolate Rain154, il cui cantante (Tay Zonday) dall‘età indefinibile e dalla bizzarra voce baritonale ha portato milioni di persone a chiedersi se la canzone avesse intenti umoristici o se il cantante ―ci stesse veramente serio‖; come emerso anche dal caso di LonelyGirl15 (Burgess, Green 2009) la difficile ricomposizione dell‘intenzionalità del performer, che causa la costante interrogazione del ―ci è o ci fa?‖, fornisce un‘occasione ludica che costituisce parte dell‘intrattenimento dell‘audience.

Molte delle prime viral star di YouTube hanno quindi acquisito visibilità tramite una circolazione del contenuto che recide incrementalmente il legame con il suo contesto di origine, dando vita a quel caratteristico misto di sconcerto, divertimento e promiscuità interpretativa riassunto dalla tipica espressione ―wtf‘?‖ (what the fuck?). Phillips (2015) ha descritto tale andamento come ―reverse-snowball form‖, ossia un tipo di progressione nel tempo lungo la quale si perdono le informazioni di contesto sull‘esposizione originaria, riducendo via via la persona reale ad artefatto finzionalizzato155.

In queste circostanze il recupero del controllo sulla propria immagine non è del tutto impossibile, ma fortemente costoso, in quanto richiede che l‘azione di riassestamento possa anch‘essa coinvolgere la condivisione degli utenti, superando, o quantomeno raggiungendo, la visibilità della precedente immagine. La famiglia di Ghyslain Raza, vero nome dello Star Wars

Kid, ha ad esempio percorso la via legale, denunciando i compagni di classe e tentando di

tamponare la sua diffusione online. Altri come Chris Crocker e Tay Zonday hanno cercato di piegare l‘ambiguità della loro prima fama nelle carriere di comico/oratore pubblico il primo, e musicista il secondo.

Cercare di capitalizzare sulla notorietà acquisita da situazioni di collasso dei contesti diviene però altamente problematico nel momento in cui tale tentativo di riappropriazione contraddice la presunta mancanza di premeditazione sottostante al fascino iniziale del video. Un

151 <http://knowyourmeme.com/memes/star-wars-kid> 152 <http://knowyourmeme.com/memes/antoine-dodson-bed-intruder> 153 <http://knowyourmeme.com/memes/leave-britney-alone> 154 <http://knowyourmeme.com/memes/tay-zonday-chocolate-rain> 155

tratto che collega tali performance virali è, infatti, la presenza di una attenuazione del controllo sulla propria persona. In alcuni casi ciò avviene riprendendo istanti di rottura del contegno, in attimi disinteressati di gioia e auto-compiacimento (Star Wars Kid o la Numa Numa Dance) o in frammenti di imbarazzante sfogo emotivo (Leave Britney Alone), che nel loro passaggio dall‘intimità casalinga alla piazza globale, trasformano in spettacolo pubblico l‘intensità affettiva dell‘agire privato. In altri casi è la condivisione dei pubblici che sottrae il controllo alla persona, evidenziando determinati tratti dell‘esposizione in modo da renderli involontariamente comici (Antoine Dodson). Ecco perché i tentativi di perpetuare il coinvolgimento del pubblico cercando al contempo di ristabilire il controllo sulla propria immagine non vanno sovente a buon fine. Quando ad esempio Gary Brolsma, il ragazzo famoso per il suo ballo spensierato davanti alla webcam internazionalmente noto come Numa Numa Dance156, ha cercato di trasformare la sua immagine in un marchio, il pubblico non ha accolto favorevolmente l‘iniziativa:

Come altre celebrità di YouTube, Brolsma ha rapidamente cercato di trasformare la propria fama in un‘impresa commerciale nel 2006, promuovendo la vendita di indumenti, tazze da caffè e suonerie. Egli ha anche partecipato a una nuova versione del video prodotto in modo professionale, New Numa – The Return of Gary Brolsma! (13 milioni di visualizzazioni), ma senza essere diventato uno youtuber attivo. I 59.000 commenti postati sotto il suo nuovo video spaziano dall‘ammirazione all‘indignazione. Alcuni commentatori esprimono stupore e disappunto rispetto al suo aver rapidamente cercato di convertire la sua notorietà in merchandising. Molti altri, in continuità con i valori centrali della community di YouTube, trovano i suoi nuovi video ―professionali‖ mancanti della spontaneità e della sincerità del suo primo video (Strangelove 2010, p. 130, traduzione mia).

Troviamo quindi come l‘estetica del collasso dei contesti, caratteristica del primo YouTube, agisca verso la conservazione della recalcitranza dell‘oggetto mediale alla completa spiegazione e al riallineamento con il pubblico. In tal senso essa si posiziona in linea con la concezione del sentimento del comico ritratta da Bergson (1993), per cui ciò che determina la persona ridicola è una rigidità del comportamento impermeabile alla consapevolezza del suo carattere ridicolo. La differenza sta però nel fatto che nel regime scopico prodotto dai media digitali, tale rigidità passa dall‘essere una caratteristica del ridicoleggiato a un effetto della condivisione dei pubblici connessi: persistenza, replicabilità, scalabilità e ricercabilità dei contenuti digitali possono congelare le performance online nei loro momenti massimamente bizzarri, comici o imbarazzanti, privando tramite la propagazione il performer della sua flessibilità. Se quindi da un lato le affordance di accessibilità e usabilità dei social media permettono a chiunque di costruire online una versione curata di sé, quelle di condivisione e riproduzione possono rompere il legame con tale azione di cura, cristallizzando un‘immagine sulla quale il creatore originale può perdere progressivamente l‘accesso.

Oltre alle proprietà tecnologiche delle piattaforme va anche messo in luce come tale estetica si leghi anche a un preciso contesto culturale che valorizza la vigilanza riflessiva sui

156

propri output come forma privilegiata dell‘esistenza (Giddens 1991, Illouz 2008, Boccia Artieri 2012, Marwick 2014). Nel momento in cui uno stato di performatività diffusa (Abercrombie, Longhurst 1998, Gemini 2009) familiarizza l‘individuo con l‘evenienza dell‘―essere-per-il- pubblico‖, la perdita del controllo sull‘immagine si configura come un‘eventualità insieme disastrosa e liberatoria. Secondo il saggista Mark O‘Connell (2013) questo è il motivo dell‘infatuazione della cultura digitale con la messa in scena del fallimentare, con il so bad is

good e il fail, per cui alcune delle sue star virali rappresentano casi di maladattamento alle

aspettative della giusta esposizione. Esse sono l‘espressione di un gusto che deride l‘incompetenza elevandone al contempo il carattere di spontaneità e ostinazione incurante del contesto, che celebra cinicamente la mancanza di self-awareness della persona come una sorta di lusso precluso ai più:

Qui l‘elemento personale è cruciale, e questo è ciò che costituisce la natura insieme compassionevole e crudele dell‘Epic Fail. L‘Epic Fail non dipende soltanto dalla rappresentazione del prodotto fallito, ma anche da un feticismo estetico per una particolare disallineamento fra fiducia in se stessi e competenza. […] Penso che parte della nostra perversa attrazione per queste persone e per la ―cattiva arte‖ che producono derivi da una particolare ricerca dell‘autentico. L‘auto-vigilanza è sia un componente primario che un prodotto fondamentale della nostra cultura online; un‘intera generazione di Occidentali (la mia, per intenderci) è ora assillata dalla permanete cura del proprio sé esibito. Ci odiamo per l‘artificialità delle nostre messe in scena, sebbene non vorremmo al contempo farne a meno. E così l‘Epic Fail, fra le alte cose, rappresenta un rituale paradossale sove una traccia di ―in-coscienza di sé‖ è insieme venerata e messa in ridicolo (O‘Connell 2013, p. 6).

Sebbene l‘analisi di O‘Connell indulga su una fallace concezione rappresentazionista dell‘autenticità (Gemini 2008) come qualità contrapposta ai tentativi di costruzione del sé, essa mette in evidenza il carattere affettivamente ambiguo di tale variante dell‘humor online, in cui la mancanza di controllo è reificata a spettacolo da osservare da una giusta distanza. Nonostante il collasso dei contesti alimentato dalle affordance di YouTube abbia dato adito a fraintendimenti culturali e interpersonali come nella concettualizzazione di Poster (2006), il suo farsi statuto quotidiano ha anche aperto a occasioni di riflessività connessa (Boccia Artieri 2012): da condizione ―subita‖ dagli utenti, essa è passata a un livello di problematizzazione dal quale si sono ridefiniti sia i canoni dell‘esposizione online, che le forme della consapevolezza di sé.

Nella sua indagine etnografica sui vloggger della piattaforma, Wesch (2009) riporta come la difficoltà nell‘indirizzarsi verso un‘audience invisibile – e verso il proprio sé futuro - sia uno degli argomenti più frequenti dei primi video postati dagli utenti. La titubanza di fronte all‘incognita rappresentata dallo spazio oltre la webcam è perciò andata a costituire una cifra stilistica diffusa:

Che cosa dire al mondo e al future? A fronte di tale domanda intimidatoria non è difficile trovare molti vloggger esordienti in uno stato di perplessità di fronte alla webcam, i quali dichiarano spesso di aver passato diverse ora paralizzati di fronte all‘obbiettivo, cercando di decidere cosa dire. Il problema

non è una mancanza di contesto. È il collasso dei contesti: un numero infinito di contesti che collassano sopra l‘unico singolo momento della registrazione. Le immagini, azioni e parole catturate dall‘obbiettivo possono essere in ogni momento trasportate ovunque sul pianeta e preservate (il performer può supporre) per sempre. […] Il vloggger esordiente, bloccato di fronte a tale buco nero dei contesti, si trova ad affrontare una crisi della propria self-presentation. Nei termini di Goffman, il vloggger è ―out of face‖, prvo di spazio di manovra per misurare il contesto e la situazione (Wesch 2009, p. 23, traduzione mia).

Le piccole crisi della self-presentation date dal collasso dei contesti non si risolvono necessariamente in fallimento comunicativo. Wesch rileva anche come l‘uscita dal confortevole terreno dei contesti controllati apra lo spazio a un iter introspettivo, attraverso il quale la persona mette in discussione la sua auto-consapevolezza tramite la presa in carico dello sguardo generalizzato del pubblico di YouTube:

Il tentativo di affrontare tale stato di confusione e ansietà inspira spesso un‘analisi introspettiva di se stessi, la quale non è una semplice esplorazione della propria vita interiore, ma un‘analisi della propria relazione con gli altri e specialmente con i molteplici ―altri generalizzati‖ a cui ci si rivolge. La costruzione di un sé appropriato per tutti gli altri e per tutti i contesti rappresenta anche una profonda meditazione su come questi altri e questi contesti possano essere pensate come un‘unica unità – un ―generalizzato altro generalizzato‖. Il venire a patti con tale entità e interiorizzare le sue prospettive e i suoi giudizi sul sé (anche se solo temporalmente) è a volta descritto come un profondo senso di rivelazione, come un ―trovare se stessi‖, o come uno scoprire il proprio ―vero sé‖ (Wesch 2009, p. 25, traduzione mia).

Come introdotto nel paragrafo 3.3, se tale titubanza nell‘esposizione ha identificato YouTube nella sua prima fase di deposito/oblò, sia la piattaforma che gli utenti hanno cominciato ad attuare progressivamente una serie di strategie per la riduzione del collasso dei contesti. Grazie alla localizzazione, l‘enfasi sull‘iscrizione ai canali, il miglioramento del sistema dei video correlati e la messa in risalto degli youtuber più noti, la fruizione del sito è passata negli anni dalla sensazione di esperire un database di frammenti slegati, che mischiano senza soluzioni di continuità video casalinghi e spezzoni televisivi provenienti dall‘altra parte del mondo, all‘esperienza di una sequenzialità di contenuti coerenti e serializzati. Dal canto loro gli utenti hanno fatto un uso sempre più consapevole delle modalità di esposizione atte a indirizzare un particolare tipo di pubblico, la cui risposta diviene sempre più visibile e quantificabile. Tali modalità sono assimilabili a quelle che Marwick (2014) ha sistematizzato come micro-celebrity, lifestreaming e self-branding. La micro-celebrity consiste nel modo in cui amici e seguaci, anche se costituenti un piccolo gruppo, vengono trattati come un pubblico da mantenere tramite le tecniche tipiche del rapporto fra celebrità e fan; ci si indirizza a questi con un misto di distanza e intimità, si cerca di rendere ―autentica‖ la propria performance e si coltiva l‘interazione con il pubblico tramite una pluralità di canali. Il lifestreaming, più tipico delle

Facebook star, consiste nella pubblicazione costante di video, immagini e testi su di sé, in modo

da suggerire al pubblico l‘impressione di assistere al flusso continuo della vita del performer, laddove questo è invece una sequenza di informazioni strategicamente costruita. Il self-branding riguarda invece le pratiche con cui si sintetizza la propria immagine in una serie di segni visivi,

sonori e comportamentali riconoscibili, editando dalla propria individualità una persona che incontri il favore dell‘audience.

Se quindi nella fase del wtf? e delle viral star a farla da padrone sono singoli video, di bassa qualità, sradicati dal loro contesto, che acquistano una fama improvvisa e inaspettata, e in cui i loro protagonisti sono stilizzati in personaggi macchiettistici, nella fase attuale degli

youtuber domina una produzione copiosa e serializzata di video, dall‘alta qualità e dalla durata

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