Capitolo 1. La star e lo zimbello: media, rituale e derisione
3. Spazio dei media e contenimento del ridicolo
3.1 Significati sociali della derisione: dall‘espulsione alla centralità
3.1.4 La festa: fra inversione simbolica e conservazione dell’ordine
Fra le situazioni socialmente delimitate in cui la derisione può trovare libero sfogo, quella della festa, quale rottura del flusso routinario dell‘esistenza, è probabilmente la più culturalmente diffusa e persistente. Come evidenzia Berger infatti «tanto il sacro quanto il comico possono subire un‘opera di contenimento, nello spazio, nel tempo, o in entrambe le dimensioni. […] Nel caso del comico, comunque, il contenimento nel tempo è assai più importante di quello spaziale» (Berger 1999, p. 110). Se nella società contemporanea la festa è principalmente un‘occasione di svago per l‘individuo, nelle società tradizionali essa rappresenta un momento in cui la comunità si rigenera attraverso la sospensione del tempo e della norma ordinaria, un luogo del piacere libidinale collettivo in cui gli uomini ―evadono dalla civiltà‖ (Horkheimer, Adorno 1996). Secondo Caillois (2001), per trovare un corrispettivo della festa arcaica nella società attuale è addirittura più appropriato rivolgersi alla guerra piuttosto che alla vacanza; nella vacanza, quale momento individuale di rilassamento, è difficile scorgere traccia del caos unanime che caratterizzava la festa; in essa vige il capovolgimento del divieto e la disinibizione degli istinti; la logica dello spreco e della distruzione della ricchezza sostituiscono quella dell‘accumulo e della produttività che domina la vita ordinaria. La festa, in altre parole, non è soltanto un‘occasione di divertimento, ma comporta una condizione di inversione
simbolica. L‘antropologa Barbara Babcock definisce l‘inversione simbolica come quel tipo di
comportamento espressivo che «[…] inverts, contradicts, abrogates, or in some fashion presents an alternative to commonly held cultural codes, values, and norms be they linguistic, literary or artistic, religious, or social and political» (Babcock 1978, p. 14). Esempi di inversione simbolica sono rinvenibili in ogni società, come testimonia la presenza del mito del ―mondo alla rovescia‖ in numerose epoche e culture (Babcock 1978). Tali occasioni rappresentano secondo la Babcock momenti cruciali di revisione dei significati condivisi, dai quali si dipanano le condizioni della riforma e persino della rivoluzione delle norme vigenti. Osserviamo quindi alcune declinazioni della festa in cui riso e inversione simbolica si intrecciano in maniera inestricabile20.
Sin dal V secolo a.C., nelle comunità agresti dell‘Attica, durante le celebrazioni dedicate al dio Dioniso – le cosiddette Dionisie – si svolgevano i komos, cortei rituali in cui la popolazione rurale si travestiva, cantava ritornelli osceni e portava in processione una statua fallica simbolo di fertilità. Nell‘antica Roma, una simile commistione di ebrezza, irrisione e
20 I seguenti esempi provengono principalmente dalla Storia del riso e della derisione (2004) compilata dallo storico
trasgressione della norma avviene nelle festività invernali dei Saturnali e dei Lupercali, caratterizzati dall‘inversione dei ruoli fra servi e padroni, da incoronazioni buffonesche di sovranità fittizie, dall‘esplicita violazione del costume sessuale e dalla derisione dei rituali religiosi. Le istituzioni religiose sono il bersaglio dello sberleffo anche in diverse festività diffuse in Europa durante il medioevo, come la Festa dei Folli e la Festa dell‘Asino. In tali feste, organizzate dal clero stesso, ci si prendeva gioco della liturgia ufficiale, facendo entrare animali in chiesa, leggendo preghiere al contrario, travestendosi con abiti femminili e sostituendo il vescovo con giovani presi dalla plebe21. Tracce di auto-irrisione del clero permangono in Baviera fino al diciottesimo secolo nella tradizione del Risus Paschalis, ossia una serie di celebrazioni successive alla Pasqua in cui i sermoni erano spesso sostituiti da storie spiritose.
L‘istituzione festiva però più persistente e insieme emblematica dell‘elaborazione sociale del riso orgiastico è quella del carnevale. Se il termine specifico rimanda ai festeggiamenti del Martedì Grasso, il giorno che precede il digiuno quaresimale, esso ha assunto un significato più ampio. È il particolare Michail Bachtin che nel suo celeberrimo saggio del 1940 L’opera di
Rabelais e la cultura popolare, tratta il sentimento sprigionato dal carnevale come una categoria
dell‘esperienza umana. Se il carnevale medievale rappresenta l‘idealtipo di tale esperienza, questa si estende anche ad altri riti e feste, ai componimenti orali parodistici, nonché a imprecazioni, spergiuri e modi di dire popolari (Bachtin 1979). Bachtin parla infatti del ―carnevalesco‖ per indicare quelle occasioni sociali in cui i tabù sono sospesi, l‘immoralità è condonata e gli individui sono incoraggiati a mantenere condotte altrimenti proibite, a mescolarsi con l‘impurità e con l‘abietto, ma dove si manifesta altresì un nuovo spirito egualitario. Secondo lo studioso russo il carnevale medievale si poneva come uno squarcio sull‘ordine stabilito. Sebbene si trattasse di una trasgressione temporanea, il carnevale permetteva di osservare un ordine alternativo a quello delle rigide gerarchie che mantenevano le classi sociali più basse ―al loro posto‖. Nella derisione delle autorità ufficiali, dei dogmi, dei riti e delle regole, nell‘inversione simbolica dei sovrani con i subalterni, il carnevale proponeva la propria visione del mondo, lontana dalla serietà e dalle certezze del mondo ordinario. Per Bachtin, il riso carnevalesco:
È come se costruisse il suo mondo contro il mondo ufficiale, la sua chiesa contro la chiesa ufficiale, il suo stato contro lo stato ufficiale. Il riso serve alla liturgia, confessa il suo simbolo di fede, unisce in matrimonio, compie i riti funebri, scrive epitaffi tombali, elegge re e vescovi. È interessante notare che ogni parodia, anche la più piccola, è sempre costruita come fosse un frammento del mondo comico intero ed unitario (Bachtin 1979, p. 99).
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Per avere un‘idea più precisa del contenuto delle feste dei folli è istruttivo leggere il seguente resoconto prodotto da una facoltà di teologia di Parigi del 1444, che si proponeva di mettere fine a queste pratiche: «Si vedono preti e chierici mascherati con sembianze mostruose nelle ore dell‘uffizio. Ballano nel coro in abiti femminili, o vestiti da mezzani o da menestrelli. Intonano canti sfrenati. Durante la celebrazione della messa mangiano sanguinacci a un angolo dell‘altare, e vi giocano sopra a dadi. Fanno fumo puzzolente con l‘incensiere bruciando le suole di vecchie scarpe. Corrono e saltano per tutta la chiesa, senza mai arrossire di vergogna. Infine se ne vanno in giro per la città e i teatri su calessi e carri scalcinati; e scatenano le risate di chi li segue e di quanti li stanno a guardare con turpi esibizioni, con gesti indecenti e versi scurrili e licenziosi» riportato in Berger (1999) p. 133.
In tale ―contro-mondo‖ la categoria estetica del ―grottesco‖ gioca un ruolo fondamentale, quale principio che abbassa ogni differenza e trascendenza alla comune concretezza della carne mortale. Nel grottesco le componenti del corpo solitamente occultate dal decoro sono messe in mostra e celebrate, mentre ciò che incute riverenza e terrore è reso tangibile e perciò padroneggiabile. Il riso, il piacere carnale e il corpo grottesco agiscono quindi come forze che relativizzano l‘ordine dominante. Per Bachtin, in sostanza, il carnevalesco possiede un potenziale liberatorio ed emancipatorio che travalica i margini della festività.
La concezione bachtiniana del potere sovversivo del riso festivo ha aperto un cospicuo dibattito sia sul versante degli studi letterari che in quello delle scienze sociali22, attirando al contempo numerose critiche e ridimensionamenti. In particolare viene attaccata la visione utopistica del potenziale rivoluzionario del carnevalesco, laddove esso riguarda un tipo di trasgressione autorizzata dal potere vigente, una rottura dell‘egemonia totalmente permessa e contenuta (Eagleton 1981). Umberto Eco (1984) fa notare come da un lato tali sovversioni contengano in se stesse la vendetta incombente dell‘ordine stabilito, in quanto questo regola i tempi e le modalità con cui la regola può essere sospesa, ma allo stesso tempo il carnevale, per quanto temporaneo, offre un‘apertura su un tipo di società alternativa, ponendo in prospettiva l‘ordine vigente come contingente.
Vi è però anche un tipo di critica più radicale al riso festivo che non riguarda soltanto il suo carattere di ribellione temporalmente e normativamente circoscritta, ma che mette in discussione l‘efficacia stessa della denigrazione del potere. Nel ciclo di lezioni Gli Anormali tenute da Michel Foucault al Collège de France fra il 1975 e il 1977, il filosofo francese descrive come il grottesco abbia funzionato – e continua a funzionare – come un modo attraverso il quale il potere politico trasmette i suoi effetti. Egli fa riferimento a quelle modalità di stampo carnevalesco in cui il sovrano era insultato, deriso e quindi apparentemente delegittimato, ma anche a quelle pratiche quotidiane, a noi più vicine, dove la macchina amministrativa burocratica è costante bersaglio della denigrazione e della squalifica. Definendo il potere come indegno, tuttavia, tali azioni compiono secondo Foucault il loro esatto contrario:
Mi sembra che vi siano qui, dalla sovranità infame sino all‘autorità ridicola, tutte le gradazioni di ciò che si potrebbe chiamare l‘indegnità del potere. Sappiamo che gli etnologi [...] hanno individuato il fenomeno che fa sì che colui al quale si dà un potere sia, allo stesso tempo, attraverso un certo numero di riti e di cerimonie, ridicolizzato o reso abietto, oppure venga mostrato sotto una luce sfavorevole. Si tratta, nelle società arcaiche o primitive, di un rituale per limitare gli effetti del potere? Forse. Ma direi che, se sono davvero ancora questi i rituali che si ritrovano nella nostra società, essi hanno una funzione del tutto diversa. Mostrando pubblicamente il potere come abietto, infame, ubuesco o semplicemente ridicolo non se ne limitano gli effetti. Né viene detronizzato, con un atto magico, colui al quale si dà la corona. Si tratta, al contrario, di manifestare in modo evidente l’insormontabilità e l’inevitabilità del potere, che può per l’appunto funzionare in tutto il suo rigore, e al limite estremo della sua razionalità violenta, anche allorquando è nelle mani di qualcuno realmente squalificato (Foucault 2000, p. 23, corsivo mio).
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Specialmente nelle società moderne, sostiene Foucault, la ridicolizzazione del potere ne oggettiva la portata e la sostanza. Il fatto che esso resista alla sua abiezione, che possa essere denigrato e insieme continuare a funzionare, ne mostra la componente ineluttabile, astratta, indipendente dal favore della popolazione. Il concetto di potere ubuesco inquadrato da Foucault attesta quindi come la forza escludente della derisione possa paradossalmente trasformarsi in uno strumento di stabilizzazione, di accentramento e di legittimazione del sistema vigente. È lo stesso aspetto che risalta anche nell‘uso rituale dello scherno nei riti di passaggio, dove la resistenza all‘abbassamento è una condizione fondamentale dell‘innalzamento di status.
La sospensione istituzionalizzata del rispetto va perciò compresa nei termini di una costante dialettica fra legittimazione dell‘ordine ed emersione dell‘anti-struttura (Turner 1972); da un lato, la trasgressione concessa eleva la regola a legge naturale mostrando come essa resti in vita dopo ogni sospensione; dall‘altro lato, essa costituisce comunque un‘occasione in cui l‘alternativa si fa visibile al mondo.
Nella società odierna, secondo Michael Billig (2005), il senso del ridicolo è fortemente proteso verso il primo lato di tale dialettica. Guardando alla cultura mediale contemporanea, Billig sostiene come all‘irrisione non si frappongano più i margini di contenimento della tradizione, del rituale e della festa. Ciò segna però l‘ingresso in un costante stato di trasgressione concessa, in cui l‘irriverenza carnevalesca, diventando una cifra quotidiana, rimane totalmente incapace di mettere in discussione le relazioni di potere dominanti. Al contrario, la messa in ridicolo di figure di potere come politici, personalità pubbliche e celebrità è divenuta una componente integrale della loro presenza mediale:
L‘irrisione delle autorità può aiutare a sostenere anziché indebolire le relazioni di potere esistenti. Nella cultura contemporanea, non c‘è più un tempo contraddistinto per il carnevale. Piuttosto, enormi quasi-monopoli portano il carnevale ogni sera nelle case di ricchi e poveri, […] I media mainstream sono caratterizzati da un continuo tono di irriverenza. All‘interno di tale carnevale quotidiano troviamo comici che parodiano e satirizzano le figure in vista del giorno. La messa in ridicolo delle celebrità da parte da comici celebri conferma la cultura della celebrità; valida i bersagli come sufficientemente importanti da meritare la parodia attraverso lo stesso medium che alimenta la celebrità dei comici stessi (Billig 2005, p. 249, corsivo e traduzione miei).
Se Billig ha ragione nel sostenere come le star siano diventate bersagli privilegiati dello scherno, va al contempo posto in rilievo come le soglie di contenimento del ridicolo non siano affatto scomparse. L‘idea di un‘estensione indiscriminata del carnevale si scontra infatti con i numerosi casi di public shaming in cui l‘irrisione può colpire gravemente la carriera, l‘immagine pubblica e la vita privata di certi individui (Ronson 2015). In che modo, quindi, va inquadrata ―l‘irriverenza concessa‖ descritta da Billig in rapporto alla sacralità del ―self‖ che continua ad essere cerimonialmente ricreata nelle interazioni quotidiane (Goffman 1988)?
Anziché leggere la messa in ridicolo delle celebrità come una scomparsa dei dispositivi culturali che incanalavano la derisione, la proposta qui avanzata è quella di esaminare proprio la
visibilità mediale come soglia del contenimento. Ciò significa porre l‘attenzione su come la distinzione ritualmente riprodotta fra persone dei media e persone comuni (Couldry 2003) possa essere osservata anche lungo il versante della sospensione della deferenza. Lo statuto di eccezionalità riconosciuto alle prime si riscontra cioè non solo nelle dinamiche della venerazione e dell‘emulazione, ma anche nella logica della mancanza di rispetto concessa. In tal senso, l‘irrisione delle celebrità, l‘umiliazione dei concorrenti di reality show e quiz televisivi o l‘esibizione impietosa dell‘ospite del talk show, possono articolarsi come rituali mediali nel senso tracciato da Couldry (2003), laddove esse marcano una distinzione fra lo stile dell‘interazione del mondo ordinario e quello del mondo dei media.
Osserviamo quindi tale intreccio di visibilità e derisione, di fama e zimbellatura, lungo tre percorsi: la mondanizzazione della celebrità, il ritorno del buffone nell‘arena televisiva e la mediatizzazione del freakshow.