Capitolo 1. La star e lo zimbello: media, rituale e derisione
3. Spazio dei media e contenimento del ridicolo
3.2. Visibilità e derisione nello spazio dei media
3.2.3 La mediatizzazione del freak: l’anomalia umana fra spettacolarizzazione ed emancipazione
La figura del freak è una delle più potenti dell‘immaginario occidentale della modernità; nonostante il dispositivo spettacolare del freakshow sia scomparso da quasi un secolo (Bogdan 1988), tale figura continua a stimolare numerose riflessioni teoriche e suggestioni immaginifiche. Ciò in virtù del fatto che il freak costituisce un modalità della presentazione dell‘anomalia umana che persiste per certi tratti essenziali al di fuori delle sue specificazioni storiche. Sebbene la sua forma più emblematica e riconoscibile sia quella associata ai circhi diffusisi fra la seconda metà del Diciannovesimo e l‘inizio del Ventesimo, il freak sopravvive nel senso traslato della ―spettacolarizzazione della soggettività fuori dall‘ordinario‖ in molteplici forme mediali della contemporaneità.
Il termine ―freak‖ proviene dall‘abbreviazione di freak of nature, a sua volta una traduzione del latino lusus naturae, locuzione di derivazione aristotelica con cui i naturalisti del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo etichettavano i fenomeni che fuoriuscivano dall‘ordine normale delle cose (Fiedler 1981). È di fatto in questo momento che la ―mostruosità‖, quale anomalia dell‘ordine naturale, acquisisce un particolare valore espositivo. Fra il 1550 e il 1750 troviamo il proliferare fra le signorie europee dei gabinetti delle curiosità o Wunderkammer (Benedict 2001). Questi sono costituiti da vetrine (estese a volte a intere sale) in cui vengono posti quegli oggetti a cui era riconosciuto un carattere di ―meravigliosa singolarità‖, fossero questi oggetti naturali (naturalia) come animali, vegetali o minerali dalla forma insolita o ingegnosi artefatti creati dall‘uomo (artificialia). Gli oggetti dalla disparata provenienza esibiti nelle Wunderkammer trovavano una loro coerenza nell‘esigenza di domesticazione dello sconosciuto, improntata attraverso una riorganizzazione visuale coerente con le categorie dell‘osservatore (Garland-Thomson 2009). Parallelamente, nello stesso periodo, è possibile trovare numerosi casi documentati di persone con deformità fisiche che si esibiscono per profitto fra le taverne, le piazze e le corti dell‘aristocrazia29
(Bondeson 2000). La diffusione nel Diciannovesimo secolo del freakshow è posizionabile nel punto d‘incrocio fra queste due tendenze che hanno percorso l‘Europa dal tardo rinascimento fino alle soglie della Prima Rivoluzione Industriale. Il circo dei freak mette infatti insieme l‘intrattenimento profittevole dell‘individuo deforme, con la calcolata messa in scena della curiosità naturale delle
Wunderkammer.
Il freakshow diviene popolare dapprima in Europa e in Nord America nella sua versione itinerante, per poi stabilizzarsi all‘interno dei parchi di divertimenti e dei musei delle stranezze in prossimità dello sviluppo metropolitano del Ventesimo secolo (Bogdan 1988). L‘allargamento dello spazio urbano, la comparsa del loisir conseguente all‘accorciamento del
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Fra i casi più noti troviamo quello dei gemelli siamesi genovesi Lazzaro e Gianbattista Colloredo, che nella prima metà del Diciassettesimo secolo girarono l‘Europa guadagnandosi da vivere tramite l‘esposizione della loro anomalia. Essi guadagnarono una discreta notorietà fra le corti europee, tanto che furono ospitati anche nella corte di Carlo I d‘Inghilterra (Bondeson 2000).
tempo lavorativo e lo sviluppo di un immaginario popolare affascinato dal mito dell‘esotica stranezza come controparte speculare del mito del progresso e della standardizzazione, concorrono a trasformare il freakshow da spettacolo isolato e informale in uno dei primi intrattenimenti di massa30.
L‘aspetto d‘interesse centrale per la presente trattazione è però il modo in cui il freak ―viene alla luce‖. L‘analisi sociologica e culturologica di tali forme spettacolari ha posto particolare attenzione al modo in cui il ―freak of nature‖ fosse in realtà un ―freak of culture‖ (Bogdan 1988, Garland-Thomson 1996, Adams 2001). Non è il possesso di determinate qualità a definire il freak, quanto una serie di pratiche, concezioni e modi di presentazione attraverso i quali la persona con differenze fisiche, mentali e di comportamento viene soggettivato in ―fenomeno da baraccone‖. Robert Bogdan, tra i primi ad aver affrontato il freakshow dalla prospettiva sociologica, scrive a tal riguardo:
Essere estremamente alti è una fatto di costituzione; essere dei gigante comprende invece qualcosa di più. Similmente, essere un freak non è un attributo della persona o una condizione fisica che qualcuno possiede. Il freak sul palco è qualcosa di diverso dal freak fuori scena. ―Freak‖ è un inquadramento mentale, un set di pratiche, un modo di concepire e presentare le persone. È la perpetuazione di una tradizione, la performance di una presentazione stilizzata (Bogdan 1988, p.3).
La produzione del freak insiste principalmente sulla trasformazione della persona in una ―sineddoche della differenza‖, nel senso che l‘individuo, tramite quello che è stato definito come un processo di enfreakment (Garland-Thomson 1996), viene ad incarnare una difformità dalla norma facilmente riconoscibile come tale. Se da un lato lo spettacolo del freakshow intrattiene tramite lo stupore dell‘incontro con il bizzarro, esso rassicura al contempo lo spettatore della sua appartenenza al mondo dei ―normali‖. Rosemarie Garland-Thomson (1997) sottolinea come il freak, soprattutto negli Stati Uniti, sia chiamato a confermare per opposizione un tipo specifico di normalità. Questa è legata allo sviluppo di una categoria di soggetto in linea con l‘espansione dell‘economia di mercato, capace di auto-controllo, artefice responsabile del proprio destino, detentore di un corpo regolare, competente, bianco e sessualmente non ambiguo. Il freakshow lavora infatti attorno a quattro principali differenze (Bogdan 1988): la
difformità fisica (su cui si basano le figure del Nano, del Gigante, dell‘Uomo Scheletro e di quei
fenomeni che usavano l‘ibridazione uomo-animale per inquadrare la deformità, come l‘Uomo Elefante e la Donna Mulo), la provenienza geografica-culturale (che traduce la differenza etnica nell‘Uomo Selvaggio, nella Venere Ottentotta o nel Principe Azteco), l‘ambiguità sessuale (da cui si producono figure come l‘Ermafrodito, il Mezzo Uomo-Mezzo donna, la Donna Barbuta) e
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Caso esemplare è quello del Museo Barnum, nel quale il noto imprenditore e ―patrono‖ del freakshow P.T. Barnum aveva raccolto, assieme a vari freak, diorami, apparecchiature scientifiche, animali imbalsamati, mostruosità naturali, oggetti esotici e statue di cera, in una sorta di gigantesco Wunderkammer ottocentesco. All‘apice del suo successo il circo registrava 15.000 ingressi giornalieri. Durante la sua apertura, dal 1841 al 1865, si calcola che il Museo Barnum abbia ricevuto 38 milioni di visitatori, cifra impressionante se si pensa che l‘intera popolazione degli Stati Uniti contava al tempo soltanto 32 milioni di unità. Fonte:
l‘abilità/comportamento anomalo (come nei casi dell‘Uomo Tatuato, dell‘Uomo Forzuto o dell‘Incantatrice di Serpenti).
Il processo di fabbricazione del freak implica la traduzione di tali differenze in scenografie, appellativi, costumi, espedienti cosmetici, biografie fittizie, routine dell‘esibizione e stili di presentazione. Bogdan (1988) riporta come una delle strategie più utilizzate sia quella dell‘esotizzazione, ossia la collocazione del personaggio in un universo autonomo e distante, limitatamente al quale egli è investito di uno status elevato e autorevole: principi africani, successori di dinastie asiatiche decadute o ultimi sopravvissuti di popolazioni ormai scomparse; il freak è sempre un tutt‘uno con il contesto nel quale è calato e per mezzo del quale viene pubblicizzato. Tale contesto, continua Bogdan, è spesso costruito dal trattamento iperbolico delle suggestioni provenienti da resoconti di viaggi intercontinentali, nonché dal discorso scientifico e antropologico del tempo. Nel freakshow i codici dell‘intrattenimento di massa e dell‘indagine scientifica vengono appositamente miscelati al fine di legittimare la spettacolarizzazione del corpo inusuale, intitolando ad esempio lo show come ―museo‖, riferendosi all‘imbonitore come ―professore‖ o ―dottore‖ e organizzando la presentazione sulla falsa riga della lezione universitaria. L‘assimilazione fallace delle teorie darwiniane sulle origini della specie alimenta particolarmente il fascino della figura dell‘―anello mancante‖ fra uomo e animale, fra cittadino moderno e selvaggio primitivo. Le storie che contornano i freak pullulano infatti di cannibalismo, sacrifici umani, cacciatori di teste, poligamia, vestiti inusuali e preferenze alimentari disgustose: i tòpoi dell‘etnologia vengono tramutati in trovate narrative che orientano la curiosità e insieme confermano la superiorità culturale dello spettatore.
Anche dal punto di vista visivo la narrazione del fenomeno da baraccone è dettagliatamente orchestrata, sia durante le esibizioni che al momento della sua promozione. Su questo versante Rachel Adams (2001) fa notare come l‘ascesa di tali spettacoli e lo sviluppo della fotografia si siano verificati di pari passo, e come gli impresari del freakshow abbiano rapidamente imparato a utilizzare la nuova tecnologia in un‘ottica pubblicitaria. I freakshow più popolari fanno infatti uso di cartes de visite fotografiche, piccole figure cartonate che presentano sul retro una breve descrizione biografica del soggetto. Tali artefatti sono utilizzati sia in senso promozionale sia come souvenir poco costosi che permettono agli acquirenti di ricreare in privato la propria ―mini-Wunderkammer fotografica‖: le cartoline dei freak – inserite in raccoglitori assieme a ritratti di amici, parenti, personalità pubbliche e membri di famiglie reali – funzionano nel diffondere capillarmente il loro nome e la loro immagine, contribuendo così al consolidamento della loro notorietà. Le cartes de visite segnano in tal senso una forma di
crossmedialità ante litteram, fornendo un allacciamento fra il divertimento collettivo del
baraccone e il loisir casalingo. Tuttavia, osserva Adams (2001), la stessa tecnologia che rende i
freak delle quasi-celebrità è anche la tecnologia che concorrerà a trasformali in casi clinici e a
mettere così fine all‘intero sistema dei freakshow. La prima generazione di foto mediche trova proprio nella malformazione fisica un soggetto ideale, in quanto questa costituisce una forma di patologia visivamente esplicita e perciò facilmente definibile e tipizzabile. Ci troviamo infatti in
un momento in cui la fotografia è utilizzata come strumento di sistematizzazione della devianza, in cui l‘idea che la foto colga ―il vero‖ perché priva di intermediazione umana, fa il paio con la supposizione che la devianza del disabile, del folle e del criminale sia scientificamente catturabile poiché inscritta nel suo corpo. A cavallo fra Diciannovesimo e Ventesimo secolo il
freakshow e la medicina rappresentano perciò i due poli che si contendono la definizione
dell‘immagine del corpo deviante, attraverso la prospettiva spettacolarizzante su un versante e attraverso quella patologizzante sull‘altro.
Non sempre però il freak si costituisce a partire dalla devianza, ma a volte si limita ad inscenarne una. Talvolta il potere della fabbricazione è tale che non necessita nemmeno di agganciarsi ad attributi posseduti dall‘individuo messo in scena. Caso esemplare su questo versante è quello delle bellezze circasse (Bogdan 1988); queste sono spesso ragazze locali, che con solo un po‘ di trucco e una voluminosa acconciatura diventano nella cornice del freakshow eleganti seduttrici del popolo circasso del Caucaso settentrionale31. Bogdan (1988) sottolinea come l‘esistenza di questi self-made freak riveli come quella del freakshow sia essenzialmente e prima di tutto un‘impresa economica, a cui partecipano anche persone disposte a fingere un‘anomalia pur di qualificarsi come freak. Qui l‘anormale è in primo luogo uno showman:
Nei suoi primi tempi il freakshow era un posto dove la devianza umana era merce di valore e in tal senso valorizzata. I scienziati sociali della modernità propugnano spesso una visione dei freak come persone con anomalie fisiche, mentale e comportamentali che venivano stigmatizzate, rifiutate e svalutate. Mentre tale punto di vista mostra una parte della storia delle persone che si esibivano nei freakshow, esso lascia fuori molto altro. Sicuramente alcuni venivano sfruttati, ma nella cultura dei circhi del divertimento la maggior parte delle stranezze umane erano accettate come showman. Essi erano congratulati per l‘aver trasformato in un lavoro ciò che in altri contesti sarebbe stato solo un ostacolo. Il freakshow si basava sull‘idea che c‘erano soldi da fare sull‘anomali umana. A quel tempo ciò era vero al punto che le persone fingevano spesso qualche tipo di disabilità in modo da qualificarsi per il ruolo di freak. L‘anormalità poteva rappresentare un‘occasione di sussistenza (Bogdan 1988 p. 268).
Prima dell‘inizio del ventesimo secolo non si trovano infatti casi documentati di denuncia del freakshow come spettacolo offensivo o disumanizzante (Bogdan 1988). Lo stesso termine ―freak‖ non ha alcuna connotazione denigratoria precedentemente a tale data. In corrispondenza con la medicalizzazione del corpo che accompagna il nuovo secolo si assiste a un completo rivolgimento del significato del freak. La sua esposizione inizia ad essere dissociata dalla concezione della rispettabilità propugnata dalla nuova società, ma si traccia altresì il percorso che porterà alla sua auto-determinazione. La visibilità dell‘irregolarità cambia di segno, dal
monstrum quale ―cosa da mostrare‖ al mostro quale ―soggetto da nascondere‖ (Garland-
Thomson 1996). Le persone con anomalie fisiche e mentali passano ora sotto il controllo della classe in ascesa dei professionisti medici e psichiatrici, e spesso recluse in istituti e strutture apposite. Il processo di standardizzazione di beni, servizi e persone coinvolge l‘intero ideale del
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A tale popolo era associato al tempo un ideale di bellezza femminile – quello appunto della bellezza circassa – particolarmente diffuso e desiderato, al punto da essere spesso sfruttato nelle pubblicità dei cosmetici dell‘epoca (Bogdan 1988).
corpo in Occidente (Shildrick 2002), per cui diminuisce la tolleranza verso la variabilità fisica e si rinforza il concetto normativo del corpo privo di irregolarità. Come sostiene Garland- Thomson (1996) lungo lo sviluppo della modernità è possibile descrivere una genealogia del discorso del freak, quale progressivo passaggio dalla modalità del meraviglioso alla modalità
del deviante: «The prodigious monster transforms into the pathological terata; […] what
aroused awe now inspires horror; what was taken as a portent shifts to a site of progress. In brief, wonder becomes error» (Garland-Thomson 1996, p. 3). Il freakshow si pone perciò come momento di transizione da una società stratificata, in cui il mostro inspira meraviglia in quanto capriccio di un ordine divino imperscrutabile, ad una società differenziata funzionalmente in cui esso, similmente al fool, diviene una problematica di pertinenza del sottosistema della sanità, da trattare quindi nei termini della salute e della malattia.
Dalla scomparsa dei freakshow, localizzabile attorno al secondo decennio del Novecento, si aprono tre principali traiettorie lungo le quali la figura del freak viene rielaborata: essa è
narrativizzata nei prodotti dell‘industria culturale, estetizzata nella fotografia e nella
performance artistica e riappropriata quale emblema dell‘emancipazione della diversità in ambito subculturale.
La narrativizzazione del corpo anomalo rappresenta uno dei motori fondamentali dell‘industria culturale novecentesca, laddove la mostruosità fornisce un campo di prova con cui i nuovi dispositivi spettacolari avvalorano la propria facoltà di ―far vedere‖. Dando concretezza visiva al mostro, il cinema celebra la sua stessa capacità di mostrare ciò che nella letteratura dell‘Ottocento rimaneva soltanto oggetto dell‘immaginazione (Abruzzese 1979). Leslie Fiedler scrive come la scomparsa del fenomeno da baraccone dai suoi luoghi fisici designati segna l‘ingresso della sua forma ―rappresentata‖ nei media di massa:
Il baraccone […] è diventato non soltanto parte integrante della cultura popolare americana, ma un tipico simbolo dell‘interdipendenza tra illusione e realtà, tra piacere e sofferenza, tra ripugnanza e rispetto, a disposizione dei più semplici come dei più sofisticati. Di conseguenza, man mano che si è spostato dal centro della nostra cultura alla sua periferia, dalla metropoli alla provincia, da Broadway ai bassi fondi, gli artisti hanno tentato di trasferirne i significati in altri media: parole sulla pagina, immagini sullo schermo. Nato cioè come forma d‘arte spontanea o popolare, il baraccone è diventato materia di un‘arte colta più cosciente o arte di massa più aggiornata (Fiedler 1981, p.296).
Su un versante il potere immaginifico del freak si traduce in quelle forme fantasmagoriche proprie del cinema e della letteratura dell‘orrore che utilizzano il corpo deforme come tecnologia dello spavento. Dall‘altra parte si collocano invece una serie di testi che problematizzano tale figura come perno di un ragionamento sul rapporto fra società e diversità. Dal celeberrimo Freaks di Tod Browning (1932) – in cui vissuto e rappresentazione del freak non sono ancora del tutto disgiunti – a The Elephant Man di David Lynch (1980), fino alla rielaborazione postmoderna del romanzo Geek Love di Katherine Dunn (1983), troviamo come il freak si situi quale strumento popolare di riflessione sulla costruzione sociale della mostruosità.
Accanto all‘industria culturale, il campo artistico rappresenta un secondo luogo in cui il
freak trova una sorta di sopravvivenza. In esso si attua una rilettura del valore espositivo della
singolarità fisica che cerca di schivare i poli della meraviglia e della mostruosità. Dalle foto di Diane Arbus e Joel-Peter Witkin fino alle performance contemporanee di Matthew Barney e della compagnia teatrale italiana Socìetas Raffaello Sanzio, è possibile cogliere come l‘arte contemporanea abbia ripetutamente rintracciato nell‘anomalia corporale un materiale di lavoro privilegiato, attraverso il quale sabotare la normatività di estetiche e soggettivazioni dominanti (Glyn 2013)32.
Terza modalità di rielaborazione è quella della riappropriazione, con cui si segna un‘inversione dell‘etichetta del freak da stigma eterodiretto a strategia di auto-narrazione. Questa è rinvenibile nel modo in cui i giovani degli anni Sessanta vicini alla cultura Hippie si riferiscono a se stessi come ―freak‖ per posizionarsi come antitetici al canone della normalità (Fiedler 1981), ma anche in quelle forme circensi contemporanee come il Jim Rose Circus
Sideshow, il Bindlestiff Family Cirkus e il Coney Island Circus Side Show che riabilitano
consapevolmente l‘immaginario, i personaggi e le pratiche del baraccone (Stephens 2006). Quelle brevemente accennate sono rielaborazioni del freak, che operano cioè a partire da tale figura per creare nuovi significati adatti alla contemporaneità. Vi sono però forme mediali come i talk show diurni, la stampa scandalistica, i makeover show e i docureality, che per certi versi riproducono il freakshow quale dispositivo soggettivante incentrato sulla spettacolarizzazione della devianza. Fra questi, il talk show è forse il genere più frequentemente considerato da critici, produttori e studiosi come variante odierna del baraccone ottocentesco (Gamson 1998, Dovey 2000, Grindstaff 2002), con la differenza che 1) la devianza messa in scena è maggiormente incentrata su stili di vita e attitudini sessuali che non sull‘anomalia fisica e 2) il soggetto esposto possiede un maggior grado d‘indipendenza rispetto al performer del
freakshow, nel momento in cui egli non dipende dall‘esibizione come opportunità primaria del
suo sostentamento. Tale comparazione è spesso intesa in senso dispregiativo, al fine di porre tali programmi come rappresentativi di una più vasta crisi della moralità dei media. Il talk show viene in tal senso avvicinato al freakshow dai critici per l‘orientamento ai più bassi istinti voyeuristici del pubblico e per lo sfruttamento profittevole dei meno fortunati.
Joshua Gamson (1998) rileva come fra le due forme di intrattenimento si possano trovare alcuni nessi più profondi e meno moralistici, anche dal punto di vista della messa in scena. Questi comprendono il ruolo fondamentale dell‘imbonitore, l‘utilizzo retorico dell‘esagerazione e del sensazionalismo in ottica promozionale, la presenza di un pubblico diffidente che sceglie
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Seppure nella totale diversità negli stili e nei significati messi in campo dagli artisti che hanno affrontato tale dimensione, va notato come il confronto artistico con il freak si esponga spesso agli stessi attacchi rivolti al freakshow al momento del suo declino. Fra gli attacchi più noti vi è la forte critica scagliata da Susan Sontag a Diane Arbus nel suo saggio On photography (1977). Secondo la critica culturale statunitense le foto della Arbus mettono individui marginali e deformi su un piedistallo in maniera non molto dissimile da quanto veniva fatto all‘interno dei freakshow. Esse espongono un realismo mancante di qualsivoglia compassione. Lo sguardo della Arbus si basa in tal senso sulla distanza, sul privilegio, sulla consapevolezza di essere distanti dal mondo fotografato, il quale, per tale motivo, può essere connotato con maestosità, nel momento in cui viene reciso dalla sua effettiva dolorosa realtà.
di stare al gioco e la commistione fra attributi reali e fabbricati nella presentazione degli individui. Il punto di connessione più rilevante risiede però nel modo in cui le anomalie dei soggetti esposti sono allestite al fine di stimolare insieme la curiosità e il distanziamento degli spettatori, il fascino per l‘esistenza fuori dall‘ordinario e il rinforzo della normazione tramite la condanna del deviante. Gamson fa però notare che sebbene in tali programmi la differenza sia presentata in modo da attirare lo stupore, la derisione e la disapprovazione del pubblico, essi costituiscono comunque una piattaforma in cui trovano voce classi e sessualità marginali,