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L‘eredità di Durkheim:i rituali della contemporaneità fra funzionalismo e potere dei media

Capitolo 1. La star e lo zimbello: media, rituale e derisione

2. Forme rituali alla fine del sacro

2.6 L‘eredità di Durkheim:i rituali della contemporaneità fra funzionalismo e potere dei media

Durkheim ha sviluppato la sua teoria sul rapporto fra rituale e società all‘inizio del secolo scorso, in un contesto in cui per l‘analisi sociologica era possibile pensare allo stato nazionale nei termini di una comunità, e dove i media di massa e la sfera pubblica mediatizzata (Thompson 1998) erano ancora agli albori del loro sviluppo. La classica interpretazione del sociologo francese del rituale quale strumento dell‘integrazione sociale ha tracciato

un‘importante traiettoria per gli studi socio-antropologici, ma ha anche ricevuto numerose critiche e ridimensionamenti.

Una delle prime e più influenti applicazioni ―ortodosse‖ del frame durkheimiano allo studio dei media e dei rituali della modernità è costituita dall‘articolo di Shils e Young (1953) sull‘incoronazione della Regina Elizabetta II in Gran Bretagna. I due autori leggono tale evento come un atto di comunione nazionale, un‘occasione cerimoniale per l‘affermazione dei valori morali che regolano la società, in cui la possibilità di seguire l‘incoronazione per la prima volta attraverso la radio e la televisione contribuisce in maniera essenziale alla creazione del senso di un‘unica ―famiglia nazionale‖. L‘idea di una corrispondenza diretta – ai limiti dell‘equivalenza funzionale –, fra la funzione aggregante del rito e il modo in cui i media connettono la società, persiste anche in approcci più recenti. In uno studio sulla copertura mediatica degli eventi sportivi globali, Michael Real scrive ad esempio: «Media serve as the central nervous system of modern society. The search to understand these media draws us into a search for the centre of all that is lie in the 20th century. Our media, ourselves» (Real 1989, p.13). Tale concezione sopravvive ampiamente anche nella semantica del ―cervello globale‖ che ha caratterizzato negli ultimi anni il discorso tecno-ottimista. Questa vede nello sviluppo delle reti digitali l‘effettiva realizzazione di una coscienza collettiva (Kurzweil 2008, Rifkin 2010, Kelly 2011), al punto da poter pensare Internet nella sua interezza quale entità candidabile al premio Nobel per la pace11. Coloro che pur riconoscendo l‘influenza di Durkheim hanno invece affrontato la sua teoria in senso critico, hanno posto in discussione principalmente due aspetti: l‘idea dello stato nazionale come comunità e la concezione funzionalista del rituale quale processo atto al mantenimento della coesione sociale. In un articolo del 1975 intitolato Political ritual and

social integration, Steven Lukes affronta entrambe le questioni, cercando di aggiornare

l‘interpretazione durkheimiana ai rituali politici della contemporaneità (come parate nazionali, commemorazioni, investiture, elezioni, visite istituzionali ecc.). Lukes critica l‘idea stessa di coesione e il parallelo fra stato nazionale e comunità. Innanzitutto i rituali politici non hanno necessariamente un effetto integrativo, ma possono andare contro l‘intenzione dei suoi produttori di favorire un‘unica, egemonica e stabile interpretazione della società, esacerbando invece il conflitto sociale. In secondo luogo, la stabilità della società non comporta necessariamente la condivisione di un comune apparato valoriale12. Egli arriva pertanto ad una definizione del rituale che prescinde dall‘ottica funzionalista dell‘integrazione – e quindi più adatta al carattere conflittuale e pluralistico della società contemporanea –, caratterizzandolo come «rule-governed activity of a symbolic character which draws the attention of its participants to objects of thought and feelings which they hold to be of social significance» (Lukes 1975, p. 191). Il rituale politico non riproduce automaticamente le rappresentazioni collettive, ma presenta certi valori, individui ed eventi come rappresentazioni collettive,

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<www.internetforpeace.org/manifesto.cfm>

12 Lukes, che scrive prima del 1989, fornisce come esempio in tale senso l‘ordine conflittuale interno all‘europa

costruendoli cioè come enti socialmente significativi. In tal senso Lukes inserisce il potere quale questione fondamentale del rituale: il rituale non può più essere inteso in quell‘ottica di processo ―omeostatico‖ del sociale, come assunto dalla prospettiva funzionalista, ma riguarda dinamiche di ―mobilitazione del pregiudizio‖, con cui determinati gruppi fanno passare determinati valori, credenze e procedure come rappresentative della totalità.

La teoria dei media rituals di Nick Couldry (2003, 2015) riprende tale concezione del rituale come processo che fa apparire ciò che inquadra come ―naturalmente significativo‖ per la società. Secondo Couldry il rapporto fra media e rituale non può essere esaurito dai modelli dei media come estensori o intermediari dei rituali o dei media come agenti che svolgono funzioni precedentemente proprie del rituale. Seppur tali dimensioni d‘indagine rimangano rilevanti, ciò su cui Couldry pone l‘attenzione è il modo in cui i media rinforzano la propria autorità e la propria concentrazione di potere simbolico13 attraverso la riproduzione rituale del ―mito‖ della loro centralità nella società. Couldry (2003) parla a tal riguardo di un ―myth of the mediated centre‖, quale nucleo di credenze, pratiche e rappresentazioni che riproducono l‘idea che esista un centro del mondo sociale e che i media ―parlino‖ per tale centro. Tale mito struttura il modo in cui gli individui si rivolgono ai media – sia quelli tradizionali che, sempre più, quelli digitali (Couldry 2015) –, considerandoli come accessi privilegiati al centro della società e legittimando, così facendo, la posizione centrale che essi hanno nella vita delle persone. I rituali mediali rappresentano in questo prospetto i modi in cui tale legittimità viene quotidianamente riprodotta: «I rituali dei media […] sono ―forme sociali‖ che naturalizzano la coerente volontà- di-potere dei media, cioè la loro pretesa di offrire un accesso privilegiato a una realtà comune, cui siamo spinti a prestare attenzione» (Couldry 2015, p.87). La naturalizzazione del mito del centro mediato agisce sul piano individuale come interiorizzazione di schemi di orientamento verso ―i media‖ quali interpreti egemonici della realtà sociale, ma comporta anche a livello macro il consolidamento della posizione centrale delle organizzazioni mediali all‘interno delle economie capitalistiche.

Couldry inquadra quindi la propria teoria come una lettura in controluce di Durkheim definibile come post-durkheimiana, al fine di distinguerla dagli approcci allo studio dei media che hanno invece adottato quella che egli chiama una prospettiva neo-durkheimiana (Couldry 2003). Il pensiero neo-durkheimiano è contraddistinto dalla visione dei media come agenti di coesione, attraverso i quali gli individui osservano se stessi come membri della società. In tale ottica i media non riguardano soltanto un distratto consumo di immagini, ma, come il rito per Durkheim, operano nel mantenere lo sfondo comune della vita sociale. L‘analisi di Dayan e Katz (1993) sulle grandi cerimonie dei media e quella di Silverstone (1988) sul rapporto fra televisione e vita quotidiana, sono esempi di questo approccio. Secondo Dayan e Katz (1993), attraverso le grandi cerimonie mediali14 gli spettatori fanno una momentanea esperienza del loro

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Couldry utilizza la locuzione potere simbolico nel senso dato da Bourdieu (1991) quale ―potere di costruire la realtà‖.

14 Dayan e Katz (1993) definiscono le cerimonie dei media come un genere televisivo caratterizzato da: 1)

essere comunità; connettendosi ad un comune ―sacro‖ epicentro sociale esteriore alla vita ordinaria, essi si percepiscono come appartenenti a una comune totalità, al punto da poter ricreare una temporanea solidarietà meccanica mediata dalle moderne tecnologie della comunicazione. Silverstone (1988) mette invece in luce come la televisione svolga quotidianamente un ruolo ―totemico‖ di ancoraggio della vita sociale; la presenza continuativa del flusso televisivo va incontro al nostro bisogno di sicurezza ontologica (Giddens 1991), fornendo la possibilità di connettersi giornalmente a un mondo sovra-individuale, integrato e condiviso. Tali concettualizzazioni evidenziano in sostanza come sia nella loro dimensione festiva, sia attraverso il loro consumo ordinario, i media, e in particolare la televisione, connettano gli individui a un comune centro della società.

Couldry riconosce come tali approcci costituiscano un necessario punto di partenza, ma che abbisognano tuttavia di un fondamentale correttivo. Essi pongono giustamente in primo piano il modo in cui gli individui concepiscono e utilizzano i media come modi per entrare in connessione con un ambito definito ―il sociale‖, ma si rivelano mancanti laddove non problematizzano la costruzione dell‘idea stessa di un mondo sociale unico e concentrato a cui è possibile e ―necessario‖ connettersi attraverso i media. Egli sostiene invece come l‘attenzione critica vada posta esattamente sul modo in cui certi eventi, persone, programmi e valori sono inquadrati medialmente come ―socialmente centrali‖. La proposta post-durkheimiana di Couldry consiste quindi in una lettura dei media attraverso la lente del rituale che prescinde dalla connotazione funzionalista (―i media come corrispettivo contemporaneo dei dispositivi che nelle società arcaiche riproducevano la solidarietà meccanica‖), ma che si focalizza invece sul rituale come pratica di categorizzazione.

Per Durkheim (1963) le categorie sociali sono modi in cui il mondo viene suddiviso e contrassegnato e che riflettono valori e concezioni considerati come costitutive dell‘ordine sociale. Il rituale è il luogo in cui le categorie si rendono operative e persistenti – anche senza che i partecipanti ne siano pienamente consapevoli (Rappaport 2004) –, in quanto esso le utilizza per tracciare una differenza qualitativa dell‘agire rituale rispetto a quello che avviene nella quotidianità. I rituali mediali rappresentano perciò quei processi che trasformano la distinzione fra ciò che è nei media e ciò che non è nei media in una distinzione categoriale; essi, in altre parole, naturalizzano l‘attribuzione di un surplus di significato a ciò che avviene nello spazio mediale rispetto a ciò che si compie nell‘ambito profano della quotidianità (Couldry 2003). Tali forme di ritualizzazione possono svolgersi nelle modalità esplicite del pellegrinaggio verso i set televisivi, dell‘evento mediale seguito collettivamente, della

dovrà orchestrarsi l‘evento, 4) un‘audience estesa, a volte di stampo globale, 5) aspettative sociali normative legate all‘evento, nel senso che l‘evento viene presentato come un‘occasione ―imperdibile, 6) tono cerimoniale della narrazione mediale, 7) l‘obiettivo di connettere le persone. I due studiosi distinguono poi tre tipi di cerimonie mediali: 1) le cerimonie di conquista, quando l‘evento è orchestrato attorno a momenti di svolta di importanza storica (come l‘allunaggio terrestre o la caduta del muro di Berlino); 2) le cerimonie di competizione basate sulla contesa di un determinato titolo (come le gare olimpiche o le elezioni presidenziali); 3) le cerimonie di incoronazione, legate che a quelle che nella tripartizione weberiana sono considerate forme di potere tradizionale (come matrimoni o funerali di leader di stato, famiglie reali o celebrità).

confessione personale in radio o in televisione, della ricerca di contatto con il vip e dei provini per partecipare ad un determinato show; esse possono presentarsi anche in forme più integrate nella quotidianità, come nel modo in cui poniamo una particolare attenzione a qualcuno che ―è stato in TV‖, ma anche nelle modalità con cui attraverso i social media cerchiamo di ―toccare‖ lo show televisivo tentando ad esempio di far comparire un nostro tweet in diretta. O ancora, si pensi a come l‘intero genere dei reality di stampo competitivo possa essere pensato nell‘ottica di un rituale mediale, laddove esso mette in scena lungo il suo svolgimento il potere della cornice televisiva di trasformare persone ordinarie in persone dei media.

Ciò non significa che tali distinzioni siano accettate passivamente o che ciò che appare nei media susciti un automatico senso di devozione. Spesso è proprio il contrario a succedere: la star è dileggiata, i reality criticati per il modo in cui fanno diventare famose persone prive di talento, i notiziari attaccati per la loro faziosità e la pubblicità odiata per la sua frivolezza. L‘interiorizzazione della categoria ―dentro/fuori i media‖ non riguarda un‘estensione del consenso di ciò che viene mostrato dai media, ma il modo in cui tale inquadramento, per quanto possa essere riconosciuto come contingente, stimoli una particolare disposizione dell‘attenzione verso la realtà mediale. Scrive a tal riguardo Couldry rispetto al costrutto della ―celebrità‖:

La cultura della celebrità opera attraverso processi di ritualizzazione: un modo di agire che contraddistingue un gruppo costruito (―celebrità‖ o ―persone dei media‖) da un altro gruppo parimenti costruito (―persone comuni‖). La celebrità è importante, come categoria, per le industrie dei media (al di là e al di sopra del loro investimento in celebrità specifiche) perché condensa un richiamo all‘attenzione verso qualcosa di comune e condiviso che ―noi‖ tutti dobbiamo seguire. È secondo questa categoria vagamente consensuale e ritualizzante che agiamo, quando giriamo la testa ed esclamiamo ―Oh mio Dio!‖ e rimaniamo a bocca aperta davanti alla celebrità che è entrata all‘improvviso nel nostro campo di vista. […] Noi sappiamo che, nella maggior parte dei casi, le celebrità sono ―comuni‖, se non per il loro profilo mediale, eppure agiamo in modo diverso: acquistiamo riviste che mostrano le celebrità che fanno ―cose comuni‖, sfogliamo quelle stesse riviste mentre aspettiamo dal parrucchiere, scambiamo notizie o avvistamenti di celebrità, le usiamo come punti di riferimento per l‘abbigliamento che acquistiamo o i ristoranti che visitiamo (Couldry 2015, p. 106).

Osservare il rapporto fra individui e media nell‘ottica dell‘azione rituale, permette di scorgere il modo in cui determinati margini categoriali relativi ai media permangano anche nel contesto socio-tecnologico più attuale. Sebbene il cambiamento di senso della posizione nella comunicazione (Boccia Artieri 2012) – come vedremo a breve – ha reso traballante la fissità di margini come quelli fra pubblico e spettacolo e fra consumatore e produttore, la teorizzazione avanzata da Couldry della riproduzione rituale della categoria media/non-media consente di ipotizzare la persistenza di tale soglia anche in un ambito in cui la produzione mediale è fortemente diffusa. Egli sottolinea infatti come «Non esiste incompatibilità fra il mondo mediale online e la concentrazione dell‘attenzione necessaria per il rituale» (Couldry 2015, p. 91); quella del Web è una centralità sicuramente più distribuita di quella televisiva, ma che può dare vita a

pratiche rituali coordinate attorno a nuclei di notevoli dimensioni15, le quali possono iscrivere province di eccezionalità simili a quelli dei media tradizionali.

Nel prossimo paragrafo dedicato alle forme sociali della derisione osserveremo come lo spazio mediale quale forma della ―trascendenza secolarizzata‖ possa agire in un senso contenitivo (nei due sensi della parola descritti da Girard) rispetto al potere distruttivo del riso.

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