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Derisione e liminalità: i rituali d’insulto

Capitolo 1. La star e lo zimbello: media, rituale e derisione

3. Spazio dei media e contenimento del ridicolo

3.1 Significati sociali della derisione: dall‘espulsione alla centralità

3.1.1 Derisione e liminalità: i rituali d’insulto

In numerose culture e momenti storici è possibile trovare lo svolgersi di ―mancanze di rispetto concesse‖ circoscritte negli spazi e nei tempi del rituale. Evans-Pritchard (1929) descrive ad esempio la presenza in diverse società africane di ―espressioni collettive di oscenità‖, ossia momenti interni ai cerimoniali religiosi in cui il gruppo esprime parole e condotte volgari altrimenti proibite nella vita quotidiana. Secondo l‘antropologo britannico tali comportamenti collettivi si verificano in momenti di consistente stress emotivo per la società, per cui le tensioni ivi accumulate vengono imbrigliate e sfogate attraverso canali che le rendono inoffensive, private cioè del loro potenziale distruttivo verso l‘individuo e verso la comunità.

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La trasfigurazione del ridicolo in ―commedia‖ avviene in realtà per passaggi graduali. Alle sue origini la commedia è infatti fortemente intrecciata con la dimensione del rito e con la sua funzione di efficacia simbolica, la quale andrà solo successivamente a ritrarsi per lasciare spazio alla commedia come genere dell‘intrattenimento (Gemini 2003). Aristotele nella Poetica racconta infatti di come la commedia abbia preso le mosse da celebrazioni ufficiate in onore della dea Demetra per favorire la mietitura e la vendemmia. In tali occasioni i partecipanti alle processioni religiose (kōmoi) esibivano a scopo propiziatorio grandi falli lignei, scambiandosi insulti licenziosi e battute mordaci. La commedia attica del V sec. a. C. – poi denominata ―antica‖ – porta ancora il segno del suo originale carattere rituale, il quale si trova esplicitamente declinato in due momenti strutturali del dramma: la parabasi e l‘agone. Nella parabasi si assiste all‘entrata in processione del coro che sbeffeggia il pubblico evocando i kōmoi; nell‘agone prende vita uno acceso scambio di insulti che ricorda ancora una volta le modalità dei riti falloforici. Il fatto che tale carattere derisorio sia inscritto nel rito antico e da esso legittimato, consente ai commediografi di inserire riferimenti politici e farsi beffe di personaggi allora noti senza ripercussione alcuna.

Similmente Max Gluckman rileva nei suoi studi sulle popolazioni del sud-est africano l‘esistenza di ―riti di ribellione‖ (Gluckman 1963). Questi sono descritti da Gluckman come occasioni passeggere e istituzionalizzate in cui il popolo schernisce i rappresentanti del potere; si tratta però di un‘irriverenza ritualmente delimitata, che non costituisce una reale minaccia alle autorità, quanto un modo per metabolizzare le discontinuità del tessuto sociale dovute a particolari fasi di trasformazione della società.

La moratoria del rispetto che accompagna alcune manifestazioni rituali è stata sovente interpretata nell‘ottica ―terapeutica‖, quale funzione incanalante delle pulsioni negative concentratesi nella società. Un‘ulteriore spiegazione che l‘antropologia ha messo in luce rispetto a tali fenomeni, riguarda invece la funzione dello scherno rituale nella definizione di certi passaggi di status. Sia Van Gennep (1981) che Turner (1972) hanno evidenziato come, negli stadi liminali dei riti di passaggio, la mancanza di identificazioni in cui si trova l‘iniziato è spesso rappresentata come una morte simbolica, in cui egli è sottoposto a umiliazioni, insulti e mutilazioni. Chiarificatrice è la descrizione fatta da Turner ne Il processo rituale (1972) della cerimonia che precede l‘incoronazione del capo Ndembu: questo è innanzitutto allontanato dal villaggio e confinato in una capanna denominata kafu o kafwi, nomi derivati dal verbo ―ku-fwa‖, che nella lingua Ndembu significa ―morire‖; egli è perciò vestito come un mendicante, insultato e deriso da tutta la popolazione, la quale è tenuta ad esprimere la propria animosità verso il futuro regnante. Fra i rituali di investitura dei monarchi africani è possibile rilevare un cospicuo numero di procedure analoghe (Canetti 1981, Quigley 2005). Tuttavia basta porre lo sguardo su quelle forme di iniziazione più vicine alla nostra cultura – che dalle pratiche di ingresso nel

compagnonaggio, nelle società segrete e negli ordini professionali si sono protratte fino ai riti di

iniziazione nelle congreghe studentesche – per trovare una simile successione di perdita di

identità, morte simbolica e rinascita (Segalen 2002). In ognuna di queste manifestazioni

troviamo una drammatizzazione della sopravvivenza del novizio a un pericolo mortale, il quale tende ad essere rappresentato nei fenomeni liminali attraverso rischi concreti alla sua incolumità, mentre, in quelli liminoidi, nelle forme eufemizzate della prova fisica, della messa in ridicolo e della pubblica umiliazione.

In un‘ottica girardiana, tali avvenimenti che inscenano una minaccia alla vita del neofita possono essere interpretati come una riproduzione simbolica della posizione della vittima sacrificale. Secondo Girard (1980), infatti, lo stato di caos che caratterizza gli stadi liminali costituirebbe una riproduzione delle crisi violente che attanagliano la comunità; il passaggio del neofita dallo stadio di indifferenziazione, alla morte simbolica fino all‘elevazione di status, rappresenta in tal senso la rielaborazione speculare della successione che porta dalla crisi, all‘uccisione della vittima espiatoria, fino alla sua successiva sacralizzazione. Assumendo quindi la posizione della vittima, il neofita acquisisce una nuova identità per mezzo di una resurrezione simbolica. Seguendo tale logica, nel rito di passaggio lo scherno e l‘insulto non sono semplicemente concessi come conseguenza di quell‘allentamento dei tabù che accompagna lo stadio di liminalità, ma agiscono quali forme sublimate della violenza a cui è necessario che

l‘iniziato sopravviva, affinché egli possa ascendere ad un nuovo stadio della sua vita. In questi casi osserviamo perciò l‘esistenza di declinazioni della denigrazione che anziché marginalizzare socialmente l‘individuo, stabilizzano la sua elevazione di status.

Tracce di tale processo permangono anche nelle para-ritualità liminoidi della contemporaneità, come nell‘irrisione goliardica che si associa al compimento di traguardi personali quali diplomi, lauree e promozioni. Un caso ancora più indicativo del rapporto fra rito, denigrazione e legittimazione della posizione sociale è l‘usanza diffusa principalmente negli Stati Uniti del roast18. Il roast è un particolare tipo di evento celebrativo, nel quale l‘onorato – di norma una celebrità, un politico o una figura pubblica – viene esposto al ludibrio del pubblico, composto da suoi fan, sostenitori e amici. Ciò avviene di solito tramite l‘intercessione di un comico (il roastmaster) la cui performance è interamente incentrata sulla messa in ridicolo della persona sottoposta al rito (il roastee). A quest‘ultimo spetta ovviamente il compito di non subire l‘offesa, specialmente in considerazione del fatto che l‘evento avviene in un clima di convivialità, che si conclude spesso con il conferimento di una onorificenza.

Nel roast osserviamo come l‘esibizione rituale della sopravvivenza alla denigrazione mantenga ancora un certo tipo di potenza simbolica. Sebbene questa non sia sufficiente nel marcare da sé un passaggio di status, essa può ancora funzionare quale strumento di legittimazione di una posizione di potere: come il sovrano sopravvissuto all‘estenuazione del corpo dimostra la sua natura divina, così, nell‘attuale contesto mediale, la personalità che resiste all‘abbassamento giustifica il merito della sua reputazione.

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