• Non ci sono risultati.

Che relazioni si instaurano attorno all’oggetto del ridicolo?

Capitolo 5. L’esperienza personale del ridicolo: analisi del contenuto delle interviste

3. Che relazioni si instaurano attorno all’oggetto del ridicolo?

Il nesso fra derisione e costituzione del gruppo è difficilmente inquadrabile in una pura ottica funzionalista atta a suggerire un'utilità del ridicolo alla coesione del gruppo. Questa logica presuppone infatti una preesistenza di una comunità che rinforza i propri valori e legami, laddove invece, fra i pubblici connessi, aggregati sociali effimeri vengono in essere proprio attorno all'occasione del ridicolo: la formazione del collettivo precede o segue il suo fulcro di convergenza? Inoltre, accanto alla socio-positività (Berger 1999) del riso sulle relazioni, va anche osservata una direzione contraria, per cui sono le relazioni ad essere utilizzate in funzione del riso. Si pensi a come individui sconosciuti si sfruttino in quanto pubblico per validare reciprocamente le proprie battute sotto i video di YouTube; si tratta di un tipo di relazionalità legata allo scherzo, che non necessariamente si traduce in un'amplificazione dei legami. Simili dinamiche sono state osservate attorno a quelle proiezioni di film di culto in cui il pubblico è invitato a partecipare con osservazioni argute e commenti scherzosi (McCulloch 2011), per cui alla ricerca della risata è indispensabile la presenza del pubblico, ma da ciò non consegue un incremento di solidarietà fra gli spettatori al di fuori dei confini dell‘evento. L'osservazione dell'interazione interna ai pubblici connessi deve quindi tenersi aperta alla possibile presenza di nuove logiche relazionali, le quali possono rivelarsi difficilmente incasellabili nelle figure classiche della comunità, della folla, della massa, dell‘audience o della moltitudine (Boccia Artieri 2004).

Un‘ulteriore domanda dimora sullo sfondo di questi interrogativi e riguarda il rapporto fra la fruizione del ridicolo e la cultura dominante. Tali fenomeni sembrano infatti passare per uno sconvolgimento del gusto egemonico, nel momento in cui il pubblico si trova in qualche modo legato a soggetti che giudica esteticamente fallimentari, eticamente riprovevoli o che comunque fuoriescono dai comuni canoni dell'esposizione e del contegno. La questione consiste nel comprendere se ciò comporti una sovversione persistente che apra ipotesi di cambiamento più durature, oppure se il tutto si realizzi in una breve parentesi dalla quale la norma ne esce rafforzata. Come abbiamo visto nel primo capitolo tali interrogativi sono da tempo al centro del dibattito sul carnevalesco. Da una parte vi si trovano i sostenitori del potenziale liberatorio e creativo del ridicolo e della sospensione della norma, come Bachtin (1979), Babcock (1978) e Turner (1972), per cui l'inversione del canone offre uno squarcio su un tipo di società alternativa, ponendo in prospettiva l'ordine vigente come contingente. Dall'altra, posizioni come quelle di Foucault (2000) e Billig (2005) mettono invece in luce il potere legittimante e

naturalizzante del ridicolo sull'ordine vigente. Casi simili alla esaltazione del Puma espongono perciò una logica contraddittoria: in tali tipi di celebrazioni, o nel consumo di oggetti culturali che si giudicano come deteriori, assistiamo a una inversione simbolica che mostra il possibile altrimenti delle esistenze, della messa in scena del sé, dei cliché estetici e della devianza, o a una istituzionalizzazione della norma che concede la sua sovversione proprio perché ne esce indenne?

2. Metodologia della ricerca

In linea con gli obiettivi della ricerca precedentemente esplicitati, il tipo di impianto metodologico qui utilizzato è principalmente di tipo qualitativo. Seguendo Denzin e Lincoln (1994) possiamo definire la ricerca qualitativa come «quel tipo di ricerca che adotta un approccio naturalistico verso il suo oggetto di studio, studiando i fenomeni nei loro contesti naturali, tentando di dare loro senso, o di interpretarli, nei termini del significato che la gente dà ad essi» (Denzin, Lincoln 1994, p. 11). Rispetto alla ricerca quantitativa, utilizzata quando si vogliono testare teorie ed esaminare le relazioni fra variabili misurabili, la qualitativa si dimostra più efficace nella fase di esplorazione, quando le forze che strutturano la vita degli individui non sono ancora emerse dallo sfondo, rimanendo quindi sfuggenti alla comparazione e alla quantificazione. Essa si rifà pertanto al paradigma interpretativo-costruttivista (Corbetta 1999), orientato cioè all'esplorazione dei significati soggettivi attraverso i quali le persone interpretano il mondo e ai differenti modi in cui la realtà è costruita in un determinato contesto, tramite l'utilizzo del linguaggio, degli artefatti culturali e dell'immaginario. La ricerca qualitativa non mira pertanto a raccogliere dati universalmente generalizzabili e standardizzabili, o a definire leggi invarianti dell'agire umano, ma a produrre un tipo di sapere, profondo e dettagliato, adatto all'interpretazione di significazioni situate. A fondamento di tale aspirazione si situa il presupposto epistemologico per cui il senso attribuito alle pratiche umane merita un interesse scientifico come fenomeno in sé e non necessariamente come esempio scalabile di dinamiche sociali più generali e anonime.

Nel fenomeno in esame si è pertanto privilegiata la comprensione del ruolo che l'oggetto culturale schernito assume per l'intreccio di utenti, media e piattaforme, piuttosto che una quantificazione del suo pubblico effettivo o del tracciamento del profilo socio-demografico dell'utente tipo7. Perché, ad esempio, la messa in scena di persone di cui si disprezzano le performance attirano così tanto coinvolgimento? Come mai accanto alle forme di idolatria pertinenti alle classiche celebrità troviamo in rete un pantheon in espansione di miti goliardici? Che significato ha l'utilizzo di un apparato espressivo congenitamente ambiguo per cui si seguono contenuti ―trash‖ o ―talmente brutti da essere belli‖? Tali tipi di questioni, che

7

La ricostruzione dell'identità dell'audience digitale del ridicolo in Italia è una linea di indagine che si è scelto demandare ad eventuali ricerche successive. Sebbene essa sia di estremo interesse, si è reputato più urgente e fattibile in base alle risorse e competenze possedute, concentrare l'attenzione su una descrizione che colga il senso che per i collettivi assumono gli oggetti qui in causa.

richiamano a un esame di stampo qualitativo, rimangono al momento attuale sotto-indagate. Esse sono state studiate maggiormente nell'ambito dei film di culto (Jancovich 2003, Sconce 2007b, Mathijs, Mendik 2008), dei talk show televisivi (Grindstaff 2002, Manga 2003), della

tabloid culture (Glynn 2000, Biressi, Nunn 2008) e della musica popolare (Washburne, Derno

2004, Wilson 2014). Manca però una loro trattazione approfondita che riguardi l'ambito dei fenomeni culturali nativi del web.

Per cercare di colmare tale lacuna si è scelto di approcciare il problema attraverso un tipo di intervento che si rifaccia alla metodologia dell'etnografia digitale (Lange 2007a, Wesch 2009, Caliandro 2014, Hine 2015). Con tale locuzione si è venuto a definire un insieme sempre più diffuso di modalità di ricerca che impiega l'approccio etnografico allo studio dei flussi comunicativi in rete e delle pratiche quotidiane mediate dalle tecnologie digitali. Dall'inizio degli anni Novanta, infatti, si è assistito a una progressiva cooptazione dei metodi provenienti dalla tradizione degli studi antropologici all'interno delle indagini sulla rete. La crescente penetrazione di Internet nella vita di tutti i giorni ha di fatto reso necessario l'impiego di quelle strategie euristiche più adatte a cogliere le costruzioni quotidiane e condivise del significato. Prima di chiarire le implicazioni delle sua trasposizione digitale va però esplicitato a cosa si fa riferimento quando si parla di etnografia.

2.1 L'etnografia dall'analogico al digitale

2.1.1 Il metodo etnografico

L‘etnografia è definibile come un mix di metodologie qualitative fondate su un‘osservazione diretta e prolungata con lo scopo di descrivere e spiegare il significato delle pratiche degli attori sociali (Giglioli et al. 2008). L'osservazione partecipante è la componente più comune di tale mix. Essa consiste nell'immersione del ricercatore nel campo in cui si dispiega la quotidianità del gruppo o del setting sociale studiato. In tale luogo egli non si limita a monitorare la situazione da una posizione distaccata, ma accosta all'attività di osservazione quella di partecipazione alle pratiche che identificano quel determinato ambiente. A differenza di altri metodi di ricerca in cui la raccolta dei dati avviene tramite modalità standardizzabili e spersonalizzate, l'etnografia, attraverso l'osservazione partecipante, utilizza come strumento l'esperienza incorporata del ricercatore. Il tipo di coinvolgimento varia notevolmente a seconda dei fini della ricerca e del contesto studiato. Esso può comportare la partecipazione a una danza rituale di popolazioni geograficamente lontane, così come il sedersi a guardare e commentare la programmazione televisiva serale assieme a un nucleo famigliare di cui si stanno studiando le abitudini mediali. Condividendo le azioni degli individui osservati il ricercatore cerca di adempiere due obiettivi: primo quello di avvicinare empaticamente la propria prospettiva a quella dei soggetti studiati, in modo da comprendere dall'interno il portato esperienziale di una certa prassi; secondo quello di acclimatarsi all'ambiente limitando l'invasività della sua

presenza8.

Accanto all'osservazione partecipante, anche interviste in profondità, analisi delle conversazioni, analisi di film, fotografie e altri artefatti costituiscono alcuni fra i metodi che trovano posto nel repertorio degli strumenti dell'etnografo. A definire l'etnografia non è infatti un set di tecniche predefinite, ma l'orientamento alla realtà vissuta dalle persone, il quale può richiedere l'impiego di modalità di ricerca plurime, che possono anche cambiare in corso d'opera al fine di seguire i soggetti studiati9. Punto di approdo di tale impresa è perciò quella che con Clifford Geertz possiamo chiamare ―descrizione densa‖, ossia un resoconto dell'agire umano che non si limita al livello superficiale della manifestazione, ma che situa il comportamento in un contesto di senso (Geertz 1987)10.

2.1.2 L’etnografia dei media

Accanto all'osservazione del comportamento dei soggetti, l'etnografia può rivolgersi anche all'esame di testi e artefatti. Laddove però gli studiosi delle discipline umanistico- letterarie studiano tali testi in se stessi, l'etnografo li prende in considerazione nella maniera in cui essi si collegano alle attività di un gruppo di persone. In tal modo l'etnografia si distingue dagli approcci che generalizzano l'esperienza di fruizione a partire dalla condivisione dello stesso oggetto. Per questo motivo essa si è rivelata uno strumento efficace nello studio dei media di massa prima (Boni 2004) e di Internet poi, proprio perché ha mostrato come tali tecnologie dall'aspirazione universalizzante producano una pluralità di esperienze tutt'altro che universali.

L'etnografia dei media, ponendo lo sguardo sul contesto di utilizzo, mira infatti a cogliere le molteplici contingenze attraverso le quali il pubblico si produce e si osserva in quanto pubblico. Essa rifugge quindi quei modelli tipici della prima fase delle ricerche sugli effetti dei media (Wolf 1992) che irrigidiscono a costrutti aprioristici l'audience e l'atto di ricezione. Studi come quelli di James Lull (1990), David Morley (1992) e Shaun Moores (1998) hanno invece

8

Per quanto una completa invisibilità non sia ne possibile ne auspicabile, è necessario che l'osservatore mantenga il giusto equilibrio fra integrazione e distacco, evitando di venire percepito come un elemento eccessivamente estraneo. Da tale evenienza conseguirebbe il pericolo di un'alterazione dei comportamenti osservati in favore di un adattamento alle aspettative dell'osservazione, mentre la forza del metodo etnografico risiede proprio nel cercare di cogliere i fenomeni nel contesto consuetudinario in cui essi si verificano.

9

Schatzman e Strauss (1973) definiscono a tal riguardo l'etnografo sul campo come un ―pragmatista metodologico‖, il quale apprende progressivamente sul luogo dell'indagine il modo migliore per ottenere le risposte che gli interessano; egli comprende che ogni metodo ha limitazioni e capacità intrinseche, le quali però si rivelano pienamente soltanto nella pratica.

10

Per spiegare tale concetto Geertz utilizza il celebre esempio dell'occhiolino mutuato dal filosofo Gilbert Ryle: si consideri la scena di tre ragazzi che contraggono l'occhio destro; per il primo questo è un tic involontario, per il secondo si tratta di un segnale di intesa con un amico, mentre il terzo sta facendo la parodia del secondo; i tre movimenti sono formalmente identici per una osservazione di tipo ―fotografico‖, così che al livello di quella che Ryle chiama thin description i tre stanno soltanto strizzando l'occhio; considerando però il significato sociale è possibile arrivare a una thick description (―descrizione densa‖ o ―descrizione spessa‖ a seconda delle traduzioni) capace di distinguere il semplice tic dall'ammiccamento e dalla parodia; è solo questo tipo di descrizione, capace di dipanare «una gerarchia stratificata di strutture significative» (Geertz 1987, p. 44), che sostanzia per l'antropologo statunitense l'oggetto dell'etnografia.

utilizzato l'etnografia per mettere in luce come il consumo dei media si muova in una fitta rete di interpretazioni quotidiane ―dal basso‖. La fruizione dell'oggetto mediale non risulta qui come mera ricezione di significati stabili sigillati a monte dalla produzione, ma si presenta come un'esperienza tipicamente situata, che, in quanto tale, si stanzia su uno sfondo di vissuti e relazioni che ne specificano le qualità. Morley pone ad esempio l'accento su come il significato dell'oggetto mediale per il pubblico sia il frutto di un senso che si produce nell'interazione (making sense in interaction) (Morley 1992). Da ciò egli sostiene come la ricerca sui media non possa scindere l'analisi di come lo spettatore elabora il contenuto dallo studio delle relazioni sociali in cui è calato, specialmente quelle pertinenti l'ambito famigliare. Lo studioso inglese arriva a tale conclusione a partire dalla revisione dell'indagine che condusse sul finire degli anni Settanta sul pubblico del magazine televisivo britannico Nationwide. Tale ricerca era stata effettuata unendo l'analisi del testo a interviste poste a vari gruppi di spettatori con diversi profili lavorativi ed educativi. Se l'intento iniziale era quello di tracciare una correlazione fra posizione sociale e competenze interpretative, sulla scorta dell'influente modello encoding-

decoding elaborato da Stuart Hall (1972), i risultati mostravano invece una parziale miopia della

domanda di ricerca: le storie personali e la connessione con la comunità di riferimento dello spettatore apparivano come fattori maggiormente influenti sulla varietà delle modalità di utilizzo del medium televisivo rispetto allo status socio-economico del fruitore. Da qui Morley attua un'autocritica della metodologia impiegata: agli intervistati era stata sottoposta la visione di certi programmi tv in situazioni artificiose, innaturali, lontane dai contesti domestici di fruizione televisiva in cui si assiste ai programmi in compagnia e in un clima rilassato. La dimensione relazionale, benché emergesse come particolarmente centrale, non poteva quindi essere colta di prima mano, ma doveva limitarsi ad essere ricostruita a partire dai resoconti forniti. Morley auspica da ciò l'impiego di un approccio etnografico che studi i fenomeni ―in vivo‖, laddove essi avvengono, e non in condizioni sperimentali ―in vitro‖ distanti dalle fattispecie quotidiane. Da tale autocritica si è aperto un vivace dibattito riguardane lo studio del consumo dei media. È proprio a partire dall'inizio degli anni Ottanta che Moores intravede in questo settore di ricerca una ―svolta etnografica‖ (Moores 1998), dalla quale si è protratto un crescente interesse sulle modalità di cattura di quei momenti in cui le audience danno senso ai contenuti mediali, incorporandoli nelle proprie significazioni di tutti i giorni.

2.1.3 L’etnografia della rete

L'etnografia si è posta perciò come l'approccio privilegiato laddove l'intento è quello di contrastare la tentazione di generalizzare l'esperienza degli individui a partire dall'utilizzo di un determinato medium o dal consumo di un certo oggetto culturale. Tale atteggiamento è di fatto comune in corrispondenza della comparsa di ogni nuova tecnologia. All'inizio degli anni Novanta, ad esempio, all'interno della prima ondata di ricerche sulla computer mediated

come ―il linguaggio delle email‖ o ―il linguaggio dei newsgroup‖ (Ferrara et al. 1991). In questa prima fase i dati erano spesso raccolti in modo casuale, separati dal contesto sociale e discorsivo in cui si originavano, per cui le specificità linguistiche e comunicative delle conversazioni negli ambienti connessi erano ricondotte alla sola influenza del medium. Similmente, sostiene Gabriella Coleman, il fatto che le tecnologie digitali siano ora alla base di trasformazioni di portata planetaria, ha alimentato la presunzione di una ―universalità dell'esperienza digitale‖ (Coleman 2010). Coleman vede invece l'etnografia come maniera per contrastare tale ipotesi, in modo da ―provincializzare‖ e particolarizzare il ruolo che i media digitali giocano nella costruzione di mondi culturali, identità e rappresentazioni di gruppo, ma anche il modo in cui la rete stessa acquista significati differenti in base alla collocazione culturale. Un esempio in tale direzione è fornito dal pionieristico lavoro sull'utilizzo di Internet in Trinidad e Tobago degli antropologi Daniel Miller e Don Slater (2000). Essi hanno messo in luce il modo in cui gli abitanti delle isole impiegassero il medium adattandolo alle proprie pratiche culturali preesistenti. Questi non ―abitavano Internet‖ come una ipotetica realtà virtuale disincarnata parallela a quella reale, ma vi importavano rapporti gerarchici, amicali e spaziali definiti dalla propria vita personale e dalla comunità di provenienza, rafforzando forme tradizionali di associazione11.

Il fertile incontro fra approccio etnografico, reti e media digitali ha quindi assunto negli ultimi due decenni una miriade di forme, tanto da dar vita a una pluralità di etichette, le quali mostrano però la mancanza di un accordo preciso sulla definizione di un campo disciplinare unitario12. A unire questi vari studi è il nesso fra l'utilizzo di dati reperiti online e l'impiego di uno sguardo etnografico. Tuttavia, le specifiche di tale impiego variano grandemente fra loro. Ciò si osserva sin dalle denominazioni usate, le quali, ognuna a suo modo, implicano una diversa relazione posizionale fra osservazione e Internet: si parla di etnografia con Internet, in Internet, su Internet, di Internet e attraverso Internet. Christine Hine (2000) riconduce tale complessità alla doppia rilevanza che Internet ha per l'indagine etnografica: da un lato esso è un sito culturale, sia nel modo in cui ―ospita‖ determinate culture nate offline che ivi si rappresentano (per cui si fa research on communities online), che nel senso di luogo in cui si sviluppano culture native della rete (research on online communities); esso è però anche un artefatto culturale, composto da oggetti, dispositivi e infrastrutture che vengono in essere plasmati da particolari valori, obiettivi e visioni del mondo.

I concetti basilari di ―campo‖, ―osservazione‖ e ―partecipazione‖ sono perciò andati incontro a una necessaria ricalibratura nella loro applicazione online. Innanzitutto entrare in

11

Ad esempio il programma per la messaggistica istantanea ICQ trovava una larga diffusione presso i trinidadiani, in quanto si adattava efficacemente alla pratica locale del ―liming‖, ossia l'abitudine a concedersi momenti di svago ozioso fuori casa privo di particolari obiettivi (Miller, Slater 2000).

12

Oltre a ―etnografia digitale‖, alcuni dei nomi utilizzati in letteratura comprendono ad esempio ―etnografia virtuale‖ (Hine 2000), ―etnografia dell'internet‖ (Miller, Slater 2000), ―cyberethnography‖ (Teli et al. 2007), ―etnografia dei mondi virtuali‖ (Boellstorff et al. 2012), ―netnografia‖ (Kozinetz 2010), ―discourse-centred online ethnography‖ (Androutsopoulos 2008), ―ethnography of the internet‖ (Beaulieu 2004), ―ethnography of virtual spaces‖ (Burrel 2009), ―ethnographic research on the internet‖ (Garcia et al. 2009) ed "etnografia della rete" (Salzano 2008).

contatto con i contesti naturali in cui i soggetti producono i propri significati quotidiani non implica più necessariamente uno spostamento spaziale, specialmente nel momento in cui i social media si strutturano come «veri e propri luoghi nei quali fare esperienza quotidiana, in grado di dare forma all‘habitus cognitivo dell‘individuo e strutturare le relazioni sociali» (Boccia Artieri 2009, p. 24). Nel campo fisico, poi, l'immersione riguarda solitamente un singolo sito, definito come comunità, organizzazione o gruppo sociale, mentre il campo digitale è tipicamente multi situato, in quanto il fenomeno da seguire si muove spesso fra una pluralità di website, forum e social network. Inoltre nell'etnografia tradizionale l'osservatore è per forza di cose presente sul campo in maniera più intrusiva rispetto all'osservatore dei fenomeni in rete, il quale può alternare l'interazione con i soggetti al monitoraggio nascosto, il così detto lurking (traducibile come ―stare appostati‖ o ―stare in agguato‖).

L'osservazione sul campo online si può declinare in quattro principali opzioni in base al grado di partecipazione e al livello di anonimato del ricercatore: il lurking passivo, l'osservazione non partecipante scoperta, l'osservazione partecipante coperta (o lurking attivo) e l'osservazione partecipante completa (Garcia et al. 2009). Nel lurking passivo il ricercatore non ha interazioni con l'ambiente che sta studiando e i soggetti analizzati non sono al corrente della sua presenza. Nell'osservazione non partecipante scoperta il ricercatore dichiara apertamente la sua identità e i suoi intenti attraverso un post in un forum o contattando direttamente i soggetti, rimanendo però un osservatore passivo dell'ambiente. Nell'osservazione partecipante coperta si sceglie invece di non esplicitare identità e obiettivi, ma si interagisce nell'ambiente al pari degli altri membri. L'osservazione partecipante completa richiede invece che si dichiari la propria presenza, in modo che si possa interagire pienamente con utenti consci della ricerca in atto, al fine di porre loro domande e accedere a livelli di indagine più profondi e

Outline

Documenti correlati