Dunque, Ci troviamo in uno stato di transizione, sempre più rapida, da un modello economico manifatturiero ad alta intensità di manodopera ed in grado di consentire una tensione sociale ed istituzionale verso la piena occupazione, ad un modello a bassa intensità di manodopera altamente qualificata, in cui la produzione segue sempre più la domanda ed il valore di senso (simbolico) supera sempre più il valore d'uso, per cui gli elementi culturali, relazionali ed affettivi degli individui giocano un ruolo fondamentale all'interno del nuovo processo di produzione ed accumulazione della ricchezza. Questo mutamento paradigmatico ha messo in crisi anche gli assetti istituzionalizzati per la gestione dei rischi e dei bisogni sociali, identificati e calibrati sul precedente modello produttivo. Oggi infatti siamo in presenza di nuovi rischi e nuovi bisogni che stentano a trovare risposte efficaci. L'idea che lo sviluppo tecnologico sia distruttore di lavoro, oltre che di fatica e di costi, arrovella gli scienziati sociali da parecchio tempo. È oramai indubbio, però, che il progresso tecnico e scientifico contribuiscano alla riduzione di molti più posti di lavoro rispetto a quelli creati (De Masi, 1999). Hannah Arendt già nel 1958, con lungimirante senso critico, ci avvertiva del fatto che: «Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza
lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio» (Arendt, 1964, p.10).
In tutto questo, il famoso contratto sociale del sistema capitalista-fordista che fine ha fatto?29
Lo stato sociale fortunatamente non è ancora scomparso, ma non gode certo di buona salute. La metamorfosi del mondo del lavoro ha come contropartita «[…] un forte cambiamento della natura
dei rischi sociali» (Paci, 2005, p.81). Infatti, Esping-Andersen spiega come: 'la maggiore eguaglianza realizzata nel dopoguerra […] insieme alla piena occupazione e alla crescita della ricchezza è da ricondurre, probabilmente, più al buon funzionamento dei mercati del lavoro e alla fortunata situazione demografica che alla nascita dello stato sociale.'30 Dunque, se al cambiamento
della disponibilità e della sostanza del lavoro post-fordista aggiungiamo le tendenze demografiche strutturali delle società avanzate, decrescita dei tassi di natalità ed invecchiamento della popolazione da un lato31, destrutturazione e riduzione della conformazione familiare dall'altro32, ci
rendiamo conto di come le basi materiali dei sistemi di Welfare State siano state profondamente intaccate. Ci troviamo d'accordo con Esping-Andersen quando afferma che le cause dell'insostenibilità economica e delle lacune protettive dei nostri attuali sistemi di Welfare State siano da ricercarsi nel cattivo funzionamento dei mercati del lavoro e della famiglia (Esping- Andersen, 2000). Ciò, significa che le mutazioni dell'organizzazione produttiva ed i cambiamenti della struttura demografica e sociale non sono stati adeguatamente recepiti e riconosciuti dai sistemi di protezione sociale istituzionalizzati.33 Questo misconoscimento mette in crisi il principale modo
29 Il concetto di welfare come contratto sociale è stato fortemente consolidato in sociologia dal lavoro di Titmuss, per cui questo contratto rappresentava il calore della Gemeinshaft contrapposto al duro legalismo della Gesellschaft. (Reisman, 2001).
30 Esping-Andersen G. 'I fondamenti sociali delle economie postindustriali', Il Mulino, Bologna, 2000, pg.60 31 Basti pensare che per la sola Italia, il tasso di natalità naturale della popolazione è crollato dall'8% del 1951, al –
0,38% del 2009. Dati Istat, serie storiche, http://seriestoriche.istat.it/index.php?
id=7&user_100ind_pi1[id_pagina]=44&cHash=b58adf960212bedd42e9fa9d2f2765a7 20/05/13
32 Sempre per ciò che concerne l'Italia, a titolo esemplificativo, nel 1951 la percentuale di famiglie con 3 o più membri ammontava al 73,1% del totale delle famiglie censite, mentre nel 2001 questa percentuale si attesta al 48%. Significa cioè che il numero di famiglie mononucleari o senza figli rappresenta il 52,02% del totale, cioè la maggioranza delle famiglie del paese. Dati Istat, serei storiche, http://seriestoriche.istat.it/index.php?
id=7&user_100ind_pi1[id_pagina]=73&cHash=30446219f7e5d60ee702ff5ec1466df3 20/05/13
33 Certo ogni regime di welfare, come ci fa ben notare Esping-Andersen, ha le sue peculiarità e caratteristiche, per cui la resilienza e le capacità di adattamento dei vari sistemi dipendono dalle loro specifiche configurazioni, facendo così variare anche l'efficienza e l'efficacia delle risposte fornite. In un ottica europea, questa efficienza ed efficacia, tuttavia, pare distribuirsi lungo un asse immaginario decrescente, che pone il suo apice di massima protezione nel nord dell'Europa, mentre lascia riposare i segmenti più scoperti e meno protetti nei paesi del sud dell'Unione (Esping-Andersen, 2000).
con cui gli stati hanno storicamente cercato di porre rimedio ai sociali prodotti dalla razionalità capitalista del mercato: per l'appunto, il Welfare State. Il welfare, in generale, è una struttura di istituzioni e pratiche coordinate tra loro che presuppone scelte sociali che, a loro volta, presuppongono dei valori condivisi. Così: «Le politiche sociali hanno il potere sia di osservare dei
fatti sociali, sia quello di crearli. Lo scienziato sociale però non deve prescrivere delle finalità, ma deve accettare i valori che la comunità studiata trasmette con le sue politiche» (Reisman, 2001,
p.46).
Oggi i regimi di protezione sociale dei paesi a capitalismo avanzato, ed in particolare i sistemi di protezione del reddito, rischiano di lasciare fuori più persone di quelle che proteggono, dando sempre più corpo ad una «società che fa del welfare state e del lavoro salariato degli istituti di
esclusione sociale» (Mantegna, Tiddi, 1999, p.26).34 Ciò, è principalmente dovuto alla difficoltà di
adattamento di queste istituzioni a tre macro-fattori esogeni: le trasformazioni del mondo del lavoro, l'invecchiamento della popolazione ed il processo di individualizzazione. Come abbiamo visto, le trasformazioni del modo di produrre e di lavorare nelle società tardo capitaliste modificano alla radice i tempi, gli spazi e le modalità di contribuzione finanziaria degli individui nelle varie articolazioni del Welfare State. Il nucleo centrale degli schemi di welfare è costituito da assicurazioni sociali che garantiscono un certo livello di protezione da rischi sociali spesso ineluttabili, quali la vecchiaia, la disoccupazione, l'invalidità, la malattia, ecc. (Ferrera, 1998, Saraceno, 2013). Nel nostro caso, abbiamo posto particolarmente in risalto le difficoltà incontrate dal più grande sistema mediterraneo di Welfare State: quello italiano.35 Nel momento in cui il
lavoro si trasforma e l'aspettativa di vita si innalza insieme alla soglia di età in cui abitualmente i giovani entrano nel mondo del lavoro, si produce un mutamento sostanziale anche nella natura dei rischi sociali. La vecchiaia copre un arco temporale sempre più ampio di vita aumentando la spesa pensionistica, lo sviluppo sempre più massiccio dei servizi muta la natura degli infortuni e delle malattie professionali, la precarizzazione dei contratti lavorativi, lo sviluppo tecnologico e la delocalizzazione produttiva stravolgono l'occorrenza e l'entità della disoccupazione. Inoltre, alle limitate capacità di de-mercificazione e di adattamento ai mutamenti socio-economici dei regimi di 34 Le difficoltà di adattamento strutturale delle istituzioni del welfare riguardano tutti i regimi di protezione sociale che in letteratura sono stati individuati (Scandinavo, Anglosassone, Continentale, Mediterraneo). Infatti, ognuno di questi regimi è sottoposto ad un tipo di stress che, anche se diversi tra loro a causa delle differenti caratteristiche costitutive, trovano una radice comune nelle trasformazioni sociali ed economiche considerate. (Esping-Andersen, 2000, Ferrera, 1998). «Frutto di distinte precondizioni genetiche e distinte cornici evolutive, le quattro configurazioni istituzionali del modello sociale europeo hanno dato luogo […] ad altrettante sindromi critiche distinte, plasmando le convenienze distributive e dunque le strategie dei vari attori, i vincoli e le opportunità di azione organizzativa e di riforma dei programmi, gli stessi schemi cognitivi e normativi degli attori. Di conseguenza le quattro Europe sociali si trovano a dover fronteggiare dilemmi di solidarietà in larga parte diversi.» (Ferrera, 1998, p.83). Dilemmi che però hanno una comune genesi nelle trasformazioni del sistema socio-economico capitalista che accomuna tutte le società industrializzate.
35 Il modello scandinavo è caratterizzato da una copertura dei rischi universale, intesa come trasferimento economico e/o di servizi, la quale si configura come un diritto di cittadinanza. A parte la copertura dal rischio di disoccupazione che rimane sotto l'egida delle organizzazioni sindacali, il resto delle prestazioni è quasi interamente finanziato dalla fiscalità generale. Nel modello anglossassone, invece, l'impostazione universalistica beveridgiana è stata messa in discussione dall'introduzione di sistemi di targeting, di controllo (means test) e di finanziamento contributivo, mantenendo una copertura universale solo per quello che riguarda la sanità. Nel modello bismarckiano l'impronta delle misure di protezione è fortemente assicurativa, prevedendo uno stretto collegamento tra la posizione lavorativa e le prestazioni sociali; anche per quello che riguarda l'area sanitaria. Dunque, siamo in presenza di sistemi selettivi e contributivi in cui però chi non accede al mondo del lavoro ha la possibilità di beneficiare comunque di schemi assistenziali di sostegno al reddito. Il quarto è ultimo modello a cui facciamo riferimento è quello mediterraneo. È un modello che in realtà raccoglie le esperienze eterogenee dei diversi paesi dell'Europa del sud, che però presentano forti tratti comuni. Ad esempio, questi sistemi sono tutti altamente corporativi e categoriali, presentando un alto grado di frammentazione che viene superato solo dall'universalità del sistema sanitario italiano. Spesso è assente una forte rete di protezione dai rischi della povertà economica di base e quasi tutti questi sistemi hanno sofferto o soffrono di manipolazioni clientelari, evasioni contributive e di costosi apparati amministrativi (Ferrera, 1998, Saraceno, 2013).
welfare (Esping-Andersen, 2000, Hemerijck, 2008), è necessario affiancare anche l'altro macro fenomeno, per così dire, più squisitamente sociologico, di cui essi spesso non tengono conto: cioè la realtà storica del processo di individualizzazione (Paci, 2005). Il progressivo affermarsi di individualità sempre più autonome ed autodeterminate, sia dal punto di vista lavorativo che relazionale, ha contribuito insieme alle trasformazioni del lavoro ed all'invecchiamento della popolazione a modificare non solo la quantità, ma anche le modalità con cui vengono ripartiti ed affrontati i carichi familiari di cura nelle varie fasi del ciclo vitale nascita/vita/morte. Per tutti questi motivi crediamo sia importante tenere ben a mente le parole di un importante sociologo olandese: «La riforma del welfare state è un processo fortemente riflessivo e ad alta intensità di conoscenza
[…] il welfare va considerato come un sistema imperfetto <in evoluzione> […] una sfida chiave […] è quella di progettare un sistema di welfare che non solo affronti in maniera adeguata i nuovi e i vecchi rischi sociali, ma sopratutto sia capace di collegare pienamente tale sforzo con l'economia dinamica» (Hemerijck, 2008, pp.58-80).
Questa è certamente una prospettiva piuttosto impegnativa, ma che appare imprescindibile. Se proviamo a formulare questa necessità con un interrogativo, semplicemente dovremmo domandarci come fare a trovare il modo migliore per rispondere alle insicurezze sociali odierne create dai nuovi rischi e dai nuovi bisogni di una società civile e di un mercato estremamente dinamici? In altri termini, quali possono essere le prospettive di evoluzione futura, lungo cui costruire le prossime politiche d'intervento sociale sia nel campo del lavoro, che del welfare? O per dirla con le parole del sociologo danese Esping-Andersen: «[…] quale tipo di regime di welfare sarà capace di dare ai
principali dilemmi della società postindustriale soluzioni a somma positiva o <vincenti per tutti>?»
(Esping-Andersen, 2000, p.278). Senza avere la pretesa di raggiungere facili soluzioni, crediamo che per individuare la direzione verso cui orientare la ricerca di risposte a questioni così profonde sia opportuno profondere ulteriori sforzi dal punto di vista scientifico. Infatti, prima di immaginare delle soluzioni è importante avere uno sguardo profondo sui fattori fondamentali da cui dipendono le istanze problematiche affrontate. È perciò essenziale ampliare il più possibile la conoscenza che abbiamo non solo sui fenomeni socio-economici, ma anche sulle entità che ne sono i protagonisti. Del resto, se fin'ora non sono ancora state adottati adottati disposizioni e dispositivi risolutivi, probabilmente c'è ancora qualcosa che ci sfugge anche dal punto di vista cognitivo. Probabilmente, oggi non abbiamo ancora compreso fino in fondo quanto la nostra concezione di sicurezza sia un prodotto dell'intreccio tra il tipo di organizzazione del lavoro e di quella per la riproduzione sociale (Castel, 2004). Perciò, proseguiamo in modo lineare sulla strada di un ragionamento logico-fattuale a cavallo tra le trasformazione del mondo del lavoro e della società più in generale.
Se la sicurezza è il mix tra le modalità organizzate con cui espletiamo il lavoro necessario e le istituzioni sociali attraverso cui regoliamo l'integrazione sociale facendo in modo che il sistema nel
suo complesso vada avanti e si riproduca, che cosa è l'insicurezza sociale? Rispondere a questa
domanda ci permette di fare luce nelle tenebre prodotte dai mutamenti in atto e di indirizzarci verso un percorso di riflessione ben preciso, che riconosce nei nuovi rischi e nei nuovi bisogni le fonti di un insicurezza socialmente diffusa e problematica. Ovviamente, come detto, essi sono anche portatori di nuove opportunità ed occasioni di sviluppo materiale, sociale ed individuale ma, adottando una prospettiva pragmatica (Niero, 2008), siamo fermamente convinti che le ricerca sociale per essere innovativa debba prendere le mosse dalle contraddizioni sociali più o meno latenti, guardando all'interno delle problematiche che minacciano l'equilibrio funzionale del tutto sociale. Seguendo l'analisi teorica del sociologo francese Robert Castel sul concetto di insicurezza
sociale, concordiamo nel ritenere che essa sia concepibile come un sentimento collettivo che non
sempre collima pienamente con la realtà dei fatti. Questo sentimento deve essere piuttosto letto come la percezione intersoggettiva di un dislivello tra l'aspettativa socialmente costruita di protezione materiale e la capacità effettiva della società di garantirla (Castel, 2004). Dunque, semplificando, possiamo affermare che se una società intende produrre sicurezza per i suoi membri, dovrà anche aspettarsi che alcuni di essi siano insicuri nel momento in cui le condizioni iniziali di
garanzia cambiano. Allora, alla luce di questa interpretazione, un primo elemento di conoscenza da avere ben chiaro è sapere come l'insicurezza sociale sia stata affrontata nel passaggio dalla società preindustriale a quella industriale; cioè in quello che Polanyi chiamò la Grande Trasformazione (2000). In che modo, cioè, la società industriale ha risposto alle insicurezze date dai rischi e dai bisogni delle masse popolari che si sono ritrovate ad avere come unico bene la propria forza lavoro? L'enclosures, la perdita dei diritti consuetudinari d'usufrutto di molti beni comuni, la regolamentazione del lavoro precedentemente libero, la crescita demografica, l'urbanizzazione e l'irreggimentazione dei tempi e degli spazi di vita hanno creato una serie di questioni che fino a poco prima venivano affrontate dalla famiglia, dai legami tradizionali e da forme produttive e riproduttive prive di vincoli superiori. Con il processo di industrializzazione le nuove esigenze organizzative e produttive misero al centro dei rapporti economici di scambio la disponibilità di forza lavoro ed il lavoro salariato stesso come principale fonte di reddito e di riconoscimento sociale. L'essenza della società salariale tipica dell'era taylor-fordista non fu solo quella di rendere la maggioranza della popolazione dipendente da un reddito salariale proveniente da un lavoro di tipo subordinato e parcellizzato, ma fu anche e sopratutto quella realtà in cui l'appartenenza sociale e l'integrazione erano garantite principalmente attraverso il consolidamento proprio di quel tipo di status lavorativo. Fu la nascita di esigenze di massa di cui qualcuno doveva prendersi la responsabilità che fece emergere dagli aspri confronti delle relazioni industriali la necessità che fosse la società tutta a farsi carico di una condizione lavorativa ed umana generalizzata (quindi dei suoi rischi e dei suoi bisogni). Nacquero così diversi sistemi di Welfare State nazionali che, costituendo una sorta di patto redistributivo di solidarietà tra lavoratori e cittadini, e tra cittadini di generazioni diverse, permisero di produrre una stabilizzazione ed una standardizzazione anche dei corsi di vita (Saraceno, 2013).36
Nel momento in cui lo Stato nazione assunse in modo via via sempre più sistematico il ruolo di mediatore sociale tra le istanze della collettività (e non solo di qualche categoria) e quelle del sistema economico industriale egli divenne il grande riduttore di rischi (Castel, 2004, Saraceno, 2013). Il modo con cui ciò fu reso possibile fu mettere al centro il lavoro salariato come condizione di accesso e di esigibilità per tutta una serie di diritti sociali che al termine dei trenta anni gloriosi avrebbero configurato quella che è stata comunemente definita cittadinanza sociale (Marshall, 1976). Ci troviamo molto in sintonia con la lettura che Castel offre di questa trasformazione dello stato liberale. Egli pone al centro della sua analisi il concetto di proprietà, cioè il confronto tra coloro che possiedono beni e mezzi di produzione ed invece coloro i quali non possiedono altro (o sono stati progressivamente condotti nella condizione di non possedere altro) che la propria forza lavoro. Questi ultimi, i cosiddetti proletari, hanno costituito la stragrande maggioranza della società salariale. L'intervento statale come produttore di protezione da rischi naturali o naturalizzati quali la malattia, l'infortunio, la vecchiaia, la disoccupazione ecc., ha progressivamente consentito alla società nel suo insieme di farsi carico di problemi generalizzati a cui altri istituti tradizionali come la famiglia, la comunità o gli enti caritatevoli non erano più in grado di rispondere in modo omogeneo e diffuso. Fu questa estensione di coperture su tutto il corpo sociale che ha permesso la creazione di un'appartenenza alla cittadinanza in una società altamente gerarchizzata e differenziata, garantendo per diversi decenni quell'equilibrio funzionale che Durkheim definì solidarietà
organica. (1996b). Ed è proprio questo entitlement di diritti e prerogative fondate sul lavoro
salariale che ci preme sottolineare come risposta collettivizzata alle insicurezze prodotte dal sistema 36 Esping-Andersen propone la tipologia dei diversi regimi di Welfare State in tre gruppi: 1) quello universalistico, o beveridgiano, in cui il livello di de-mercificazione è elevato grazie all'intervento pubblico; 2) quello continentale conservatore, o bismarkiano, in cui è lasciato un forte ruolo alla famiglia, mentre la redistribuzione pubblica preserva le stratificazioni prodotte dal mercato; 3) quello liberale in cui la solidarietà pubblica e familiare sono ridotte al minimo, mentre opera un grande ruolo il mercato (Esping-Andersen, 2000). Chiaramente, questa tipologia non descrive tipi puri nella realtà, ed ogni nazione ha costruito nel tempo sistemi di welfare spurii che presentano contemporaneamente elementi appartenenti ai tre diversi tipi. Per una prima trattazione chiara ed esaustiva sulle questioni della genesi, dell'evoluzione e della natura del welfare si veda Il Welfare, Saraceno, 2013.
economico, affinché fosse garantita l'integrazione funzionale della società industriale. Una proprietà che permise di superare la classica contraddizione marxiana tra proprietari e non proprietari, stemperandone la conflittualità. Quindi l'insicurezza sociale non fu risolta sopprimendo la proprietà privata stabilendo una stretta uguaglianza materiale delle condizioni sociali. Dunque, non fu tanto la funzione redistributiva dello stato a ridurre le disuguaglianze tra individui profondamente diversi, ma piuttosto la proprietà sociale o la titolarità di diritti formali e sostanziali che riconoscessero in modo equanime l'accesso a dispositivi di protezione istituzionalizzati. «[...] le redistribuzioni di
denaro pubblico hanno intaccato solo assai debolmente la struttura gerarchica della società salariale» (Castel, 2004, p.33). Fissando questa proprietà al lavoro, si è usciti dal rapporto
meramente commerciale dello scambio economico, entrando invece in uno spazio sociale che consentì alla maggior parte della popolazione di superare molti dei rischi della condizione salariale e di poter godere dei frutti del benessere materiale prodotti dal sistema industriale. Il compromesso storico tra proprietari e proletari fu mediato e garantito dallo Stato nazione che suggellò l'ascesa di un nuovo tipo di proprietà, la quale a sua volta consentì la stabilizzazione di una società non di eguali ma di simili. «Una società di simili è una società differenziata, gerarchizzata dunque, ma
nella quale tutti i membri possono stabilire relazioni di interdipendenza poiché dispongono di un fondo di risorse comuni e di diritti comuni» (Castel, 2004, p.33).37 In definitiva, fu lo statuto
collettivo di un insieme di regole imperniate sul ruolo del lavoro salariato che permise di produrre uno status di sicurezza materiale e civile per la maggioranza degli individui.
I mutamenti dei sistemi economici e produttivi post-fordisti abbiamo visto che comportano sempre più una metamorfosi del mondo del lavoro. Il lavoro diviene così più scarso, specializzato