LA SOCIOLOGIA E LA QUESTIONE MORALE: IL SENSO MORALE
2. Sociologia e 'Questione Morale'
Quale è il rapporto tra la sociologia e la morale? Il controsenso apparente che separa i due termini richiama la classica opposizione tra scienza e credenza, tra realtà dei fatti e giudizio di valore. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, questa antinomia è superata non appena si riconosce la morale come uno degli ambiti in cui si manifestano le facoltà umane di discernimento ed azione. Nella storia delle scienze umane la conoscenza della sfera morale ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella comprensione dell'essere umano e del suo stare in società. Nello specifico, sin dalla nascita della disciplina sociologica, lo studio scientifico della morale ha sofferto di una sorta di provincialismo riduttivo nei confronti della filosofia, in cui storicamente la riflessione sulla morale occupa una posizione centrale. Ciò ha portato all'affermarsi sin dagli albori della disciplina di un rapporto di amore ed odio tra questo approccio scientifico e l'ambito di studio morale. Un rapporto che ancora oggi appare caratterizzare la sociologia della morale con importanti pregiudizi sulla sua oggettiva validità. Ancora oggi, l'importanza a re-inscrivere i motivi morali nello studio dell'azione procede non senza difficoltà. Siamo d'accordo con Luc Boltanski nel sostenere che la visione determinista delle scienze sociali è ancora quella più largamente e, forse, sotterraneamente accettata e condivisa. Questo sia perché la tendenza a ricercare regolarità nomotetiche esercita ancora un certo fascino nel panorama delle scienze sociali, sia perché la tensione egualitaria del determinismo marxiano non ha ancora compiuto una sua completa evoluzione oltre la dicotomia esplicativa dominati/dominanti. «Il disinteresse per i motivi morali era [ed è] dunque, il risultato di
una preoccupazione morale» (Boltanski, 2005, p.21). pensare che vi siano dei meccanismi superiori
e cogenti o degli interessi superiori celati ai più che regolano la sfera dell'azione umana è, dal punto di vista metodologico, la stessa cosa. L'uomo comune rimane vittima della sua ignoranza o della sua alienazione, mentre lo scienziato è l'unico in grado di poter rendere conto della sua condotta, a
prescindere dai progetti e dalle intenzioni che la animano. Per questo motivo crediamo che lo studio del funzionamento della sfera morale nella comprensione dell'agire sia stato ritenuto più spesso un esercizio filosofico o una questione etico-religiosa. Tuttavia, se la scienza si evolve con la società (Khun, 1962), lo studio sociologico della morale ha anche pagato il dazio ad un secolo, come il '900, contraddistinto da profonde lacerazioni ideologiche che, probabilmente, ne hanno rallentato lo sviluppo teorico e disciplinare sotto la spinta di istanze problematiche dovute alle contingenze politiche del momento.
Il difficile distacco della sociologia dall'ambito speculativo ed il faticoso riconoscimento della sfera morale come area di studio sono per lo più imputabili alla difficoltà di definire chiaramente l'oggetto ed il campo d'indagine. Se la maggior parte dei sociologi è d'accordo sul condizionamento che la morale esercita sull'azione sociale, l'eterogeneità degli approcci riemerge non appena si cerca di precisarne il senso, l'ampiezza e la rilevanza (Battaglia, 1981). La comprensione sociologica della genesi della morale e dei fattori sociali che ne determinano lo sviluppo è resa ulteriormente più complessa dalla dualità della sua natura e della sua morfogenesi. Nello studio della vita morale, infatti, non solo ci si trova davanti ad un fatto la cui sostanza è sia individuale che collettiva (Colozzi, 2004), ma si possono riconoscere anche altre due sue componenti: una statica-
istituzionalizzata ed una dinamica-processuale (Battaglia, 1981). La prima, si riferisce alle
istituzioni formalizzate ed ai codici normativi consuetudinari, mentre la seconda alla dinamica stessa della vita morale, al moto dialettico tra collettivo ed individuale. Dal riconoscimento di questa duplice natura nella storia della sociologia sono rinvenibili tre grandi modelli di interpretazione del rapporto tra morale e realtà sociale: il positivismo durkheimiano, l'evoluzionismo spenceriano ed il materialismo storico. A questi diversi sguardi può essere affiancata una sommaria tipologia delle correnti metodologiche più influenti: lo strutturalismo, l'individualismo metodologico ed, il più recente, approccio relazionale (Colozzi, 2004).
La primogenitura nello studio sociologico del fatto morale appartiene ad Ėmile Durkheim, il quale rifacendosi alla concezione comtiana della fisica sociale, afferma per primo sul piano metodologico la strada con cui studiare le regole di condotta in modo oggettivo, al fine di individuarne una spiegazione univoca ed inequivocabile. Massime, norme e credenze morali divengono quindi fenomeni naturali di cui il sociologo ha il compito di scoprire le cause prime. Così, nelle Regole del metodo sociologico Durkheim afferma come «La sola scienza che può
fornire i mezzi per procedere a un giudizio sulle cose morali è la scienza specifica dei fatti morali […] Certamente questa scienza dei fatti morali è […] una scienza sociologica; ma è un ramo particolarissimo della sociologia» (Durkheim, 1895, trad.it. 1996a, p. 198). La scienza
durkheimiana dei costumi intende le prescrizioni morali come delle manifestazioni della forza imperativa derivante dalle rappresentazioni collettive, cioè da quei fatti oggettivi, indipendenti ed esterni all'individuo che esercitano su di lui una forza coercitiva. In questo senso, nella teoria della pressione sociale di Durkheim il rapporto tra morale e società si concretizza in una relazione univoca e predeterminata, in cui l'integrazione dei termini è a-prioristicamente stabilita. È facile comprendere come un simile approccio abbia condotto il sociologo di Èpinal verso un uso scientista dello studio dei fatti morali, ipotizzando la costruzione di una disciplina desiderabile delle passioni atta a regolare il comportamento sociale sulle basi di un'etica scientificamente determinata (Durkheim, 1897, trad. it. 1969).
Diverso ed opposto il contributo weberiano allo studio della morale, in cui viene sancita l'importanza del soggetto come essere dotato di senso ,che agisce in modo orientato dalla necessità di riconoscere un ordine nel mondo. Weber nello studio del processo di modernizzazione mette in luce una tensione tra etica e diritto assente in Durkheim, nella quale la prima soccombe al secondo grazie ad un progressivo disvelamento razionalizzante che la ridurrà ad un fattore garante della legittimità dell'ordine sociale. Un ulteriore passo in avanti nella scomposizione della monolitica visione durkheimiana della società come ente contrapposto al soggetto sarà compiuto dalla sociologia formale di Simmel; in cui l'identificazione della pluralità dei legami di appartenenza
dell'individuo moderno coincide con la pluralità dei modi del suo dover essere. Questa visione ha accresciuto le potenzialità di autonomia ed autoaffermazione del soggetto, riducendo il peso della della morale come oggetto coercitivo. Inoltre, grazie all'introduzione del concetto di forma, Simmel è stato il primo a separare nell'analisi del fenomeno morale il contenuto dal referente, permettendoci di riconoscere come nella dinamica morale la prescrittività ed il giudizio siano spesso riconducibili all'io e non solo all'azione in sé (Simmel, 1913, trad.it. 1968). Tra i classici del pensiero sociologico, l'approccio funzionalista alla dinamica morale di Talcott Parsons ha contribuito a ricondurre al centro dell'attenzione sociologica il ruolo dei valori come garanti dell'integrazione sociale. Per Parsons, dunque, la normatività non è un epifenomeno o una sovrastruttura, ma incarna all'interno del modello Agil l'ordine sociale, rendendolo resistente all'evoluzione. Tuttavia, in quest'ottica sistemica il rischio che il soggetto venga spogliato della sua rilevanza euristica ed il focus per la comprensione della dinamica tra morale ed azione sociale sia posto quasi esclusivamente sul processo di istituzionalizzazione è molto alto. (Colozzi, 2004).
Sulla scia dell'evoluzionismo spencero-darwiniano verso la metà del secolo scorso si affermano diverse teorie che possono essere ricondotte alla cosiddetta socio-biologia. Questi approcci mirano ad unire alle scoperte sul genoma umano gli studi umanistici sul comportamento, nel tentativo di individuare il nesso tra le componenti biologiche dei genotipi umani e gli aspetti sociali. In questo senso, J.Q. Wilson distinse nettamente il senso morale, inteso come la naturale capacità di provare sentimenti, dalla relatività storica e situazionale dei codici normativi propri di ogni cultura (Wilson, 1995). Grazie a questi studi la socialità si afferma definitivamente come caratteristica naturale della specie umana, divenendo l'anello di congiunzione tra l'ordine sociale come fatto storico ed il senso morale come prodotto di un processo evolutivo che avrebbe premiato la solidarietà cooperativa tra gli uomini. Le teorizzazioni di Wilson poggiano sullo schema evoluzionista di E. Westermarck, in cui i giudizi morali sono posti al centro di studi comparati tesi ad una concettualizzazione unitaria dell'intero processo della storia umana. Infatti, per Westermarck la durkheimiana scienza dei costumi non racchiude più l'oggetto di studio, ma le opinioni ed i giudizi morali, i quali si fondano empiricamente e storicamente sulle emozioni diventano il vero oggetto dello studio morale (Battaglia, 1981). Nonostante i grandi contributi degli approcci evoluzionistici, il rischio degli studi a matrice sociobiologica è quello di ridurre la sociologia ad una mera storia dell'evoluzione o della genetica, sottovalutando i rapporti di condizionamento tra morale e contesto sociale.
Su un versante completamente opposto, un'altra grande svolta negli studi sulla dimensione morale proverrà invece dagli approcci fenomenologici del pragmatismo di J. Dewey e dell'interazionismo simbolico di H. Mead. L'Ens realissimum dello studio sulla morale diviene l'esperienza morale, intesa come il risultato di un'interazione sociale che travalica gli stretti confini imposti dalla nozione di coscienza collettiva. In quest'ottica, il monolitico concetto durkheimiano di fatto viene sostituito dalla più versatile concezione di atteggiamento, in cui la passività del soggetto viene superata grazie al riconoscimento della sua potenzialità di intervento sulla sfera simbolica della comunità in cui vive. Importantissimo in questo senso sarà il contributo di G. Gurvitch, che con la sua sociologia della vita morale metterà al centro dell'indagine sociologica proprio l'esperienza morale come esito dell'interazione sociale. Il focus sull'atteggiamento mira a cogliere l'intrinseco dinamismo della vita morale, e la ricerca di cause e leggi lascia il passo all'individuazione delle correlazioni funzionali tra le uniformità presenti nei vari gruppi, classi, generi e forme sociali (Battaglia, 1981). Dunque, se all'ombra della prospettiva pragmatico- interazionista avviene un recupero dell'autonomia del soggetto, attraverso l'elaborazione di concetti analitici più flessibili rispetto a quelli della tradizione durkheimiana, questi approcci non sono tuttavia scevri da limiti. Primo tra tutti, l'assenza di una rigorosa definizione di rapporto sociale, ma anche l'insufficiente considerazione del momento istituzionale e dell'importanza conferita ai fattori socio-economici. Queste limitazioni, infatti, se da un lato hanno favorito una grande produzione concettuale e teorica, dall'altro, hanno però sfavorito lo sviluppo di una strumentazione analitica
adatta alla verifica storico-sociologica delle varie ipotesi di fondo.
Degne di rilievo sono anche le teorizzazioni più recenti prodotte da autori come A. Etzioni, J. Habermas e R. Boudon. Infatti, mentre Habermas attraverso l'etica del discorso vede lo studio della morale come il momento dell'analisi linguistica delle argomentazioni, ricadendo nel progetto filosofico-politico di una morale secolarizzata di matrice kantiana (Habermas, 1991, trad. it. 1994), Boudon critica il fondamento comunicativo della morale habermasiana, estremizzando ancora di più l'importanza metodologica dell'analisi delle buone e giuste ragioni individuali, per poter comprendere quello che considera il vero fondamento dell'agire sociale, cioè il senso soggettivo (Boudon, 2002, trad. it. 2003). Anche Etzioni mette in rilievo l'importanza del ruolo sogggettivo nella sfera comunicativa, ma a differenza degli altri due autori inserisce le sue riflessioni in un orizzonte analitico più ampio, in cui il problema sociologico di fondo risiede nella contrapposizione prodotta dalla modernità tra l'esigenza di un ordine sociale che garantisca sicurezza e la spinta ad una maggiore differenziazione come risposta al bisogno di un'autonomia dell'individuo (Battaglia, 1981). In questo senso, il contributo di Etzioni riporta l'attenzione sulle due grandi dinamiche sociologiche della distinzione e dell'identificazione, per dirla in termini bourdieusiani (Bourdieu, 1979, trad. it. 1983). Un'attenzione che analiticamente rimette al centro dell'indagine l'importanza del cambiamento. Etzioni, si limita però a costruire una teoria comunitarista della società che non include la ricerca dei fattori e dei processi del cambiamento morale. Inoltre, egli è convinto dell'esistenza nei soggetti di una concezione della natura umana, la quale li guiderebbe nella costruzione della buona società (Colozzi, 2004).
Da questo rapido e parziale excursus sulla letteratura sociologica non solo è possibile ribadire l'importanza della dimensione morale come campo d'indagine scientifico, ma anche la necessità di ulteriori ed approfonditi studi che sistematizzino la complessità dell'oggetto di ricerca da un punto di vista analitico e metodologico. La sociologia della morale verrebbe così a distinguersi nettamente dalla ricerca di una morale sociologica o di un etica sociale con cui spesso è stata confusa, delineandosi invece come un'area di indagine scientifica avalutativa sui sistemi e sui fenomeni morali. «Spetta pertanto al sociologo sia di precisare i caratteri specifici del determinismo parziale
della realtà oggetto del suo studio, sia di descrivere le limitazioni di tale determinismo ad opera della contingenza e dell'interferenza della libertà umana.» (Battaglia, 1981, p.108). Dunque, ci
troviamo di fronte ad un campo d'indagine complesso ed eterogeneo, in cui una molteplicità di approcci interdisciplinari e di ricerche si scontra con un'immaturità metodologica della disciplina sociologica nel suo complesso. Questa si rivela non solo nelle difficoltà che ancora oggi si incontrano nell'affrontare il problema epistemico tra la natura dei giudizi morali e le loro correlazioni con il mondo reale, ma anche nell'incapacità di definire con precisione le specifiche funzioni sintattiche, semantiche e pragmatiche delle categorie morali fondamentali (concetto di bene, male, dovere, giusto, ecc.). In poche parole, la ricerca sociale è ancora orfana di uno schema di lettura euristico comunemente accettato che su basi scientifiche permetta di implementare, con metodi diversi, uno studio sistematico delle determinazioni e delle funzioni dell'esperienza morale nella comprensione dell'agire sociale e del grado di libertà dei soggetti.