LA SOCIOLOGIA E LA QUESTIONE MORALE: IL SENSO MORALE
2. Il senso della morale in questa ricerca
Per quello che riguarda il nostro specifico campo di studio sulla cultura della redistribuzione della ricchezza, inerente le rappresentazioni simboliche ed i giudizi morali che da esse prendono forma, risulta essenziale definire i fondamenti scientifici da cui prendiamo le mosse. A questo proposito, per chiarire i confini epistemici del nostro studio non possiamo non richiamarci all'importante tentativo di sistematizzazione teorica operato dal sociologo statunitense del welfare Alan Wolfe. A partire da una critica di tutti gli approcci sociologici consequenzialisti e proceduralisti, rispettivamente quelli che mirano a dimostrare la moralità di un'azione a seconda del valore attribuito alle sue conseguenze e quelli che invece concepiscono la moralità solo come esito
desiderabile di procedure codificate, Wolfe fa tesoro di tutte le scoperte sociologiche sulla dimensione morale, cercando di fissare alcuni punti fermi a livello epistemologico che aprono a interessanti prospettive analitiche. Come noi, egli prende in considerazione la sfera del welfare come campo privilegiato per l'indagine morale. In particolare, mette in risalto l'impatto trasformativo che ha avuto l'istituzionalizzazione del rapporto di reciprocità materiale (Welfare State) nel cambiare le modalità con cui i soggetti concepiscono la relazione tra il proprio sé morale e quello di Alter. «Il paradosso della modernità è che quanto più la gente dipende l'uno dall'altro
ed è tenuta ad un ambito sempre più ampio di obblighi, tanto minore risulta l'accordo sui principi per organizzare le regole morali che possano spiegare quegli obblighi.» (Wolfe,1989, p.5).
Seguendo la lettura che uno dei pochi studiosi italiani di Wolfe fa della sua opera, notiamo come da questa emergerebbe la consapevolezza del fatto che: «La gente crea istituzioni, organizza
riti, crea simboli e si impegna in pratiche perché, differentemente dagli esseri trovati in natura, ha il potere di determinare come vadano organizzate le relazioni con gli altri.» (Colozzi, 2004, p.199).
In questo senso, Wolfe compie una precisa operazione epistemica collocando il senso morale all'interno dell'interazione stratificata tra i diversi attori sociali e, nello specifico, nel momento dell'incertezza sul come trattare l'Altro. Dunque, Wolfe nei suoi studi sul welfare adotta una prospettiva teorica innovativa in cui si affermano definitivamente le nozioni di processualità dei fenomeni morali e di capacità morale del soggetto, recuperando anche una certa attenzione analitica per tutte le istituzioni sociali coinvolte nel gioco morale, siano esse formali o informali. Wolfe concepisce così il senso morale come il frutto di un esperienza processuale multidimensionale, in cui la capacità di giudizio degli attori deve essere presa sul serio. Il sé morale viene definito
sintetico proprio perché fa sintesi tra i vari modi con cui gli individui riconciliano i propri bisogni
con quelli degli altri, in un movimento dialettico senza fine tra affermazione della propria identità e confronto con quella altrui (Wolfe, 1989, p.215). La dimensione morale appare così una costruzione sociale complessa e stratificata ma necessaria, in quanto intrinseca alla naturale socialità dell'essere umano. Una costruzione di cui metodologicamente, secondo Wolfe, possiamo renderci conto sia a livello fattuale che scientifico considerando, da una parte, la costante necessità degli individui di confrontarsi con ciò che è altro da sé e, dall'altra, quanta rilevanza gli studi sulla diversità hanno sempre avuto nella ricerca sociale (Wolfe, 1989).
La tesi forte di Wolfe è che negli studi sulla redistribuzione, e del welfare più in generale, non si sia ancora superato l'approccio duale che legge tutti i fenomeni del welfare e del lavoro attraverso la dicotomia Stato e Mercato. Un approccio analitico che ci avrebbe fatto ignorare lo studio di tutti quegli obblighi e di quelle razionalità tipiche degli esseri umani che non sono ispirate né alla ricerca del proprio interesse, né dalla paura della coercizione di un'autorità esterna. Il dominio a livello scientifico del dualismo Stato-Mercato ha contribuito a rendere inesistente in sede di disegno della ricerca l'individuo, inteso come un attore moralmente partecipe al processo di significazione collettiva. Così, ancora oggi molti studi sociologici danno per scontato che «[...] gli obblighi morali
possano essere soddisfatti senza la partecipazione attiva degli individui come attori morali.»
(Wolfe, 1989, p.151). Non che questo significhi che la partecipazione degli individui sia sempre presente, o che debba esserlo, ma che essa vada comunque considerata come un elemento esistente e degno di essere preso in considerazione. Specialmente nell'ottica di una nuova euristica del contratto sociale e, del welfare più in generale. In questo senso, per Wolfe, la crisi degli attuali sistemi di Welfare State è prima di tutto morale, in quanto i cambiamenti socio-economici delle istituzioni del welfare56 influiscono continuamente sul senso e sull'esperienza morale degli attori
56 Il termine istituzione va qui inteso in senso sociologico, per cui quando si parla di istituzioni del welfare ci si riferisce ad un termine molto ampio che abbraccia tanto un ente pubblico ed i suoi dispositivi quanto i gruppi primari come la famiglia, piuttosto che altre forme consolidate di cooperazione solidale. Questo è bene tenerlo distinto dall'idea di istituzioni del Welfare State, la quale invece si riferisce solamente a quelle entità formalizzate che sono le Istituzioni pubbliche, statali e para-statali, che costituiscono l'ossatura dei dispositivi materiali e procedurali dei sistemi di protezione sociale. Potremmo dire, in ottica analitica, che le istituzioni del welfare contengono le istituzioni del Welfare State, ma non il contrario.
sociali e, quindi, sulla percezione delle forme storiche attraverso cui si è istituzionalizzata la solidarietà (su tutte il Welfare State).57 Infatti, Wolfe fa notare come diversi studi di comunità o di
network analysis abbiano già dimostrato come molti dispositivi di Welfare State in realtà indeboliscano i legami comunitari allargando eccessivamente la sfera del senso morale, cioè trasformando l'area della solidarietà da impegno personale diretto ad obbedienza verso regole impersonali ed astratte (Wolfe, 1989, p. 142).
A questo punto, possiamo definire il nostro oggetto di ricerca rispondendo alla domanda: che
cosa è la morale? Durkheim più di cento anni fa affermava che la morale, oltre ad essere l'insieme
delle regole di condotta contraddistinte dai caratteri del vincolo e della desiderabilità, risiede nella vita sociale stessa: «La morale comincia dunque dove comincia la vita in gruppo, perché soltanto
nel gruppo la dedizione ed il disinteresse hanno senso» (Durkheim, 1996a, p. 180). L'etimo del
termine morale rinvia al termine latino impiegato da Cicerone per indicare i costumi, ma la radice
mâ- di questa parola rimanda al concetto di misura (Olivieri, 1961). Da qui, l'idea di misura delle
azioni, cioè la scelta che gli uomini sarebbero in grado di compiere tra azioni che hanno un diverso valore sociale. Nonostante la sua centralità, ad oggi non disponiamo in campo sociologico di una definizione precisa ed univoca del concetto di morale. La relatività degli studi sociologici sulla morale in quanto tale, è dimostrata anche dal fatto che spesso essa è presa in considerazione in funzione del problema dell'ordine sociale. Dunque, essa è spesso stata ridotta ad uno degli elementi generici della cultura (costumi, valori, rappresentazioni, ideali, ecc.), da studiare come epifenomeno delle dinamiche di controllo sociale (Gallino, 2004). Questo modo di considerare la morale non ha sicuramente favorito una sua chiara definizione né dal punto di vista oggettivo né euristico, mantenendo la sua definizione semmai legata o, addirittura, sovrapposta a quella degli altri elementi culturali. Infatti, nelle opere di molti sociologi è assai arduo operare dei netti distinguo tra l'accezione di morale e quella di costume, o valore ed ideale. Tuttavia, rifacendoci a quanto appreso dalla letteratura sociologica ed inserendoci nella prospettiva teorica di Wolfe, ci sentiamo in linea con una definizione neo-interazionista sulla natura della morale. Parafrasando Ivo Colozzi, possiamo affermare che per noi la morale è la relazione dotata di valore in sé, che si instaura tra
attori sociali diversi (Colozzi, 2004, p.209). Perciò, il senso morale può essere inteso come quella
razionalità intrinseca agli esseri umani, che emerge quando questi fanno esperienze morali, cioè quando intrattengono delle relazioni dotate di valore. Ovviamente, quella di cui stiamo parlando non è una razionalità out-out, cioè in contrapposizione gerarchica con tutte le altre tipologie di razionalità che nella storia delle scienze umane ed economiche sono state attribuite all'essere umano, ma una razionalità e-e. Cioè, ci stiamo riferendo al riconoscimento del fatto che esista negli attori un ragionamento morale e che questo influenzi, non sempre, il loro agire sociale. Questa razionalità morale tipica dell'essere umano58, si manifesterebbe nel momento della relazione che
Wolfe ha chiamato obbligo morale. Dunque, la moralità, o esperienza morale, può essere considerata: «[...] un processo negoziato attraverso cui gli individui, riflettendo periodicamente su
ciò che hanno fatto in passato, cercano di accertare cosa dovrebbero fare nel futuro; [processo che ci consente di intendere il momento dell'obbligo morale] come una pratica socialmente costruita e
57 A questo proposito Wolfe riconosce come i nostri sistemi di Welfare State oggi siano messi sotto pressione da tre dilemmi di origine morale: 1) l'intervento pubblico è percepito necessario ma è al contempo sentito come insoddisfacente, 2) il passaggio dai trasferimenti ai servizi determina una maggiore influenza dei criteri di accesso che favoriscono i gruppi organizzati, perciò il welfare diviene sempre più orizzontale invece che verticale, favorendo sempre più la classe media e tralasciando i ceti più poveri e disorganizzati, 3) gli approcci attuali tendono a considerare solo i bisogni presenti, tralasciando ogni questione legata alla solidarietà intergenerazionale (Wolfe, 1989, p.183).
58 A riconferma della rilevanza naturale della dimensione morale, basti pensare agli studi sul moralismo intuitivo condotti già negli anni '80 del secolo scorso da parte di Shweder, Turiel e Munch che dimostrano come il senso morale sia un elemento prelinguistico, cioè che caratterizzerebbe lo sviluppo del bambino già dal secondo anno di vita. Si veda Shweder, R.A., Turiel E.,e Munch, N.C., The moral intuitions of the child, in Favell, J.H., Social cognitive development, Cambridge University Press, NY, 1981. Op. cit. in Colozzi, I., Sociologia della morale, Cedam, Padova, 2004
negoziata tra agenti che imparano, da una parte, e una cultura capace di modificarsi dall'altra»
(Wolfe, 1989, pp. 216-220).
Dunque, per riassumere, la morale può essere vista come la relazione dotata di valore, la moralità come un processo relazionale e cognitivo, mentre l'obbligo morale come una pratica
socialmente costruita. Queste definizioni sociologiche per essere correttamente utilizzate vanno
lette alla luce degli assi analitici dello spazio/tempo, cioè calate nelle situazioni oggetto di studio (Wolfe, 1989, Clarke, 2005, Colozzi, 2004). A questo punto, possiamo affermare che: 1) il campo
d'indagine della nostra ricerca è la morale della redistribuzione della ricchezza nelle attuali società
post-fordiste, cioè la relazione redistributiva dotata di valore, 2) l'oggetto di studio è l'esperienza morale della redistribuzione stessa, intesa come il processo mediante il quale gli individui negoziano e riflettono sui significati che la regolano, mentre 3) il referente empirico attraverso cui indagare questo oggetto è l'obbligo morale in quanto pratica socialmente costruita. Per esempio, basterebbe leggere ogni rapporto che si instaura tra i diversi attori del welfare anche come un campo morale (cioè come una sfera di vita dotata anche di altri significati e fini oltre a quello dell'utilità marginale) per rendersi conto di come sia la codificazione sia la pratica degli obblighi e delle prerogative sociali siano il frutto della negoziazione tra il valore che il soggetto A attribuisce al soggetto B, e viceversa. Questo valore può essere più o meno esplicito, si pensi al concetto di salvaguardia della dignità della persona insita nel mondo del terzo settore, della beneficenza o delle logiche del reddito minimo e della pensione sociale. Altre volte, invece, è piuttosto implicito, almeno agli occhi delle persone comuni. Si pensi a dispositivi come quello della cassa integrazione guadagni o a tutto l'universo delle agevolazioni fiscali le cui logiche di valore hanno un grado di astrazione non immediatamente riconoscibile dall'uomo della strada. Lo stesso fenomeno del free
riding, tipico esempio di una logica puramente utilitaristica, può essere letto come un'esperienza
morale, in cui gli obblighi reciproci sono molto deboli perché il legame relazionale è molto debole. Tuttavia, quello che è importante riconoscere è che nella relazione redistributiva una morale c'è, un senso di cosa è importante esiste, e che questo senso nasce da dei processi di negoziazione tra i diversi attori sociali a diversi livelli d'interazione.59 Il senso di cosa sia importante si manifesta
attraverso degli obblighi, che sono, non solo, ma anche morali (banalmente distinguendoli dall'aspetto fisico-prescrittivo di molti dispositivi redistributivi). Questi obblighi morali sono oggettivati ed incorporati nelle pratiche umane. Ad esempio, in una qualsiasi discussione sul 'chi sia
più giusto sostenere economicamente',60 piuttosto che in uno schema redistributivo istituzionalizzato
o, ancora, nelle decisioni di spesa che un soggetto beneficiario di un trasferimento deciderà di assumere. Anche Titmuss sostiene che al mito dell'individualismo economico nelle scienze sociali sia necessario sostituire uno sguardo profondo sulla natura umana ed il suo funzionamento. A questo proposito, quanto i vincoli morali influenzano la nostra percezione del welfare state come sistema di solidarietà sociale formalizzato? Che ruolo giocano questi vincoli nei nostri comportamenti, non solo nel momento in cui usufruiamo dei benefici, ma nel flusso continuo della quotidianità, quando ad esempio pensiamo (o non pensiamo ma percepiamo) ai nostri sacrifici (tasse) dati all'Altro? Che immagine dell'Altro il welfare redistributivo fa vivere nelle nostre menti? E quanto il giudizio che abbiamo di questa immagine determina le nostre scelte morali e politiche? Cioè, le relazioni umane e di potere che instauriamo con l'Altro generalizzato?
59 Possiamo cioè immaginare questi diversi piani interattivi come una rete, con una forma spazio/temporale non gerarchica, in cui si va dalla relazione tra individui fino a quella tra istituzioni pubbliche, o tra individui e istituzioni pubbliche, con un elevato numero di combinazioni e relazioni intermedie in base a quanti sono gli attori presenti nel campo di riferimento (Oggi sicuramente lo scenario del welfare è molto più complesso di un tempo, data la frammentazione e la deregolamentazione dei vincoli amministrativi e la riduzione del campo di esigibilità dei diritti sociali a livello pubblico. Uno scenario che difatti ha visto negli ultimi decenni il moltiplicarsi di attori molto diversi tra loro, per capacità ed interessi. Basti pensare allo sviluppo dei fenomeni di secondo welfare, alle ripercussioni del federalismo, all'espansione del volontariato, ai fondi pensioni, al ruolo sempre più attivo delle famiglie, ecc.
4. Riepilogo
Grazie al contributo dei classici della sociologia e di diversi autori più o meno contemporanei siamo stati in grado di passare in rassegna il delicato e complesso rapporto tra scienza sociale e morale. In particolare, ci è apparso possibile che la questione morale possa risolversi conferendo una nuova e maggiore dignità al suo studio come elemento fondamentale per la comprensione e dell'agire sociale. In questa prospettiva, abbiamo trovato significativamente interessante il lavoro condotto dal sociologo statunitense Alan Wolfe. Questo studioso ha riabilitato il ruolo della morale nell'analisi delle politiche pubbliche di protezione sociale. Reintrodotta in un campo di indagine che usualmente è egemonizzato dalla dicotomia tra stato e mercato, la morale per noi come per Wolfe assurge finalmente al livello di elemento esplicativo nello studio dei fenomeni sociali prodotti dall'interazione tra diversi attori sociali. Nello specifico, la razionalità morale del soggetto ritrova tutto il suo spazio tra i fattori d'intervenienza nelle dinamiche sociali del welfare. Tramite tutti questi contributi abbiamo potuto fornire una serie di importanti definizioni su cui poggiare il nostro lavoro, a partire dalla questione di che cosa sia la morale, la moralità e l'obbligo morale. La chiarificazione epistemica ci ha consentito di delineare anche il campo d'indagine, l'oggetto della ricerca ed il suo referente empirico. In questo modo, è stato possibile reintrodurre il tema della partecipazione attiva dei soggetti, consentendo così all'analisi di recuperare appieno l'importanza dell'esperienza umana nella situazione. Lo studio della morale diviene dunque l'analisi del senso morale degli attori sociali, che ci permette di accedere alle motivazioni profonde su cui si fondano l'interazione ed il coordinamento sociale. La morale, dunque, può essere vista come la relazione dotata di valore che emerge dall'esperienza degli attori sociali, i quali sono in grado di imparare e modificare i propri atteggiamenti. Perciò, la razionalità morale può essere letta a livello epistemico come l'esito di un processo cognitivo, e non come un elemento innato o aprioristicamente rigido. A sua volta, adottando una simile prospettiva anche la cultura più in generale dimostra tutta la sua processualità, mettendo in evidenza l'importanza di comprenderne l'intrinseca dinamicità proprio attraverso lo studio sul suo funzionamento. Studio che non può prescindere dall'analisi del senso morale e degli elementi che lo compongono.
Quello che sociologicamente riteniamo interessante sono lo studio delle diverse forme che assume l'esperienza morale e la relazione che si instaura con le caratteristiche sociali della situazione. A questo proposito, alcune delle domande che ci hanno guidato nel nostro percorso sono: come si manifestano gli obblighi morali? Come riconoscere l'esperienza morale? Come guardare alle correlazioni che essa può avere con i fattori materiali? Queste sono tutte domande inerenti il metodo con cui studiare i fenomeni morali. Tuttavia, come notavamo in precedenza, un metodo ampiamente riconosciuto o una strumentazione concettuale accettata trasversalmente in sociologia non sono ancora stati individuati. Dal punto di vista empirico, l'attrezzatura analitica nello studio della dimensione morale, in termini di concetti, modelli di analisi e percorsi procedurali, è ancora agli albori. Per questo motivo, per poter studiare la razionalità morale applicata alla sfera della redistribuzione della ricchezza, abbiamo dovuto unire al nostro personale impegno il portato conoscitivo della letteratura che abbiamo individuato come la più adatta a fornirci l'equipaggiamento necessario a condurre uno studio empirico sulla morale. In particolare, abbiamo trovato un conforto epistemico nella rete di ricerca chiamata Economia delle Convenzioni, ed una preziosa guida a livello metodologico nel seminale lavoro di sociologia pragmatica di Luc Boltanski e Laurent Thévenot.
Capitolo 4