ANALISI SITUAZIONALE ESPLORATIVA E CAMPO DI INDAGINE
3. L'interpretazione euristica dell'AS e la definizione del campo di ricerca
A questo punto, l'apparente assenza di una forte risposta teorica già pronta all'uso da parte dell'Analisi Situazionale condotta, ci ha invece tratto verso un altro modo di vedere le questioni emerse, fornendoci una diversa direzione con cui orientare il nostro sguardo euristico sulla crisi del Welfare State e del mondo del lavoro fordista. L'Analisi Situazionale ci ha posto in un primo momento davanti a delle regolarità empiriche e problematiche che in realtà sono intrise dal desiderio, o dalla necessità, di risposte empiriche immediate. Disoccupazione, inoccupazione, esclusione sociale, moral hazard, lavoro nero, ecc., sono tutti fenomeni a cui gli analisti e i cosiddetti 'addetti hai lavori' hanno sempre soluzioni pronte. Spesso, la ricerca sociale si concentra sulla descrizione dettagliata della loro natura ed evoluzione, attraverso la raccolta di un'infinita quantità sincronica e diacronica di dati che vengono poi impiegati per trarre informazioni categoriche sui soggetti studiati. Ad esempio, solitamente l'analisi delle trappole della povertà, de fenomeni di emarginazione e dipendenza o, di molte delle misure che regolano le relazioni del lavoro seguono un'impostazione positivista tesa a tracciare un legame (anche se spesso non apertamente dichiarato) di causa-effetto. Almeno, questa causalità si manifesta non tanto negli articoli e nei testi degli analisti, ma nelle menti delle persone e nelle decisioni dei policy makers. In altre parole, da quando le scienze sociali si sono progressivamente affermate hanno contribuito in modo decisivo a costruire un immaginario collettivo sui fenomeni della società, caratterizzando in modo stringente la natura dei membri presi in esame. In un certo senso, è come se la conoscenza quantitativa dei fenomeni sociali abbia contribuito a produrre un modo di vedere il mondo, le relazioni e gli uomini fondato su pregiudizi e verità collettive scientificamente fondate. In questo senso, appaiono scontate nel dibattito collettivo la natura, il ruolo ed il comportamento di figure sociali tipiche dei contesti post-moderni, come l'homeless, il lavoratore manuale, l'immigrato, il precario, il tossico, ecc. Ė come se la possibilità di avere accesso ad un immensa quantità di informazioni sulla realtà sociale ci abbia fatto dare per scontato o per conosciuto la natura stessa dell'uomo e delle società che egli crea. Per questo motivo è difficile comprendere quale possa essere una direzione di ricerca realmente innovativa ed euristicamente fondata dal punto di vista sociale. Il credere di sapere già tutto quello che c'è da sapere sull'uomo e la società non può che portare alla riproduzione di indagini che, in un certo senso, non siano che meramente descrittive. Analizziamo gli stessi fenomeni con nomi diversi, ma con le stesse modalità, le stesse tecniche e, sopratutto, gli stessi principi epistemologici sulla natura umana e della società. La maggior parte delle ricerche sociali nel campo della redistribuzione della ricchezza non partono da presupposti alternativi nel modo di guardare alla realtà sociale indagata diversi da quelli utilizzati finora per descrivere i fenomeni del mondo del lavoro e delle politiche sociali. Ad esempio, appaiono verità ovvie e scontate la nota trappola della povertà per cui la maggior parte degli individui che percepisce un sussidio trova maggiormente conveniente sfruttarlo fino in fondo senza attivarsi in alcun modo; o ancora, la cosiddetta trappola della dipendenza, per cui pare un fatto incontrovertibile che chi si trova in una condizione di esclusione ed emarginazione sociale tenda per sua natura ad adottare pratiche devianti o comunque parassitarie nei confronti del resto della società attiva (Ferrera, 1998). Dunque, se rimaniamo all'interno di un paradigma meramente positivista rischiamo di non andare oltre la descrizione dei fenomeni e di produrre inferenze che non scoprono nulla dal punto di vista della conoscenza scientifica, ma favoriscono l'accumulazione di un sapere già conosciuto e culturalmente radicato. Ovviamente, nessuna risposta innovativa ai problemi che oggi ci affliggono può venire da simili impostazioni di ricerca.
Invece, le regolarità emerse sono sotto-corticali rispetto al complesso universo di significati che innerva il mondo sociale. Le istanze scaturite dalla nostra analisi di contesto e dall'AS ci chiedono in realtà di comprendere (il weberiano Verstehen) il senso delle azioni degli individui nei contesti in cui si producono. Per leggere e capire la complessità post-moderna non basta guardare al flusso numerico delle rilevazioni statistiche, ma è richiesta anche, forse più che mai, la loro integrazione con le interpretazioni dei soggetti studiati, per cui il ricercatore deve essere concettualmente attrezzato per comprendere il magma empirico e cognitivo che si trova a studiare (Titmuss, 1974, Morin in Portera, 2006, Clarke, 2005).50 Per questi motivi, abbiamo capito che per
disporsi verso il mondo sociale che si intendeva indagare era assolutamente necessario tenere a mente che, esplicitamente o implicitamente, tutti i percorsi di conoscenza: «[…]implicano in
ognuno dei casi un insieme di tesi antropologiche»(Bourdieu, 2003, p.185). Postulati antropologici che, ovviamente, inficiano e condizionano il cammino scientifico e le sue scoperte. La direzione della nostra ricerca avrebbe dovuto il più possibile cercare di intrecciare la conoscenza dei fenomeni sociali prodotti dalle trasformazioni del mondo del lavoro e dalla connessa crisi del Welfare State con la comprensione dei significati delle azioni degli attori protagonisti. Perciò è necessario aver chiaro il modo con cui finora si è guardato a questi fenomeni e a questi significati, dichiarando quali tesi antropologiche sottendono le letture scientifiche fornite. Per questo motivo, al termine della AS abbiamo provato un certo disagio cognitivo nell'affrontare in modo meramente positivo la complessa relazione tra il mondo del lavoro e l'universo della solidarietà istituzionalizzata. Perché certi fenomeni sociali come la disoccupazione, il lavoro nero, l'emarginazione, ecc. prendono vita in una certa forma? E perché le persone si comportano così? Perché le politiche sociali e del lavoro vengono costruite in base a degli assunti sul comportamento dei soggetti che non ci dicono nulla sul suo significato? In questo senso, le pratiche odierne del mondo del lavoro possono essere messe in relazione con la doxa del Welfare State dominante, per ripercorrere quella dimensione fenomenica fordista che oggi viene data ancora per scontata e che produce i dogmi del lavoro a tutti i costi, della piena occupazione e della stigmatizzazione di chi è rimasto indietro. Se: «l'oggettivismo spiega la
vita sociale in termini di fattori indipendenti dai singoli attori sociali, il soggettivismo fa unicamente appello, al contrario, all'agire dei singoli, alle loro rappresentazioni e credenze.»51
Allora, crediamo sia necessario superare l'oggettivismo cieco delle politiche del lavoro ed il
soggettivismo metodologico e moralista delle politiche di protezione sociale. Infatti, da un lato i dati
sui mutamenti del mondo del lavoro sono presi troppo spesso come a sé stanti, come fossero configurazioni congiunturali di eventi oggettivamente distaccati dal mondo sociale che li ha prodotti. Similarmente, guardando alle stesse dinamiche, ma dal versante delle politiche di protezione sociale, invece, appare chiaro come fenomeni quali disoccupazione, inoccupazione, moral-hazard, ecc, troppo spesso siano percepiti sopratutto come frutto di una cattiva predisposizione da parte degli individui.
A questo punto, ci è apparso chiaro come la direzione euristica da intraprendere dovesse tendere ad entrare dentro la complessa cultura che riguarda il senso e le forme della redistribuzione della ricchezza nella società post-fordista. Senso e forme di una dimensione cruciale alla vita associata nei contesti modernizzati, che si pone a cavallo tra trasformazioni del mondo del lavoro e Stato Sociale. Tuttavia, la dimensione culturale è un prisma infinito di significati, forme ed azioni di cui bisogna conoscere quale faccia osservare. Per quello che ci riguarda, la risposta a questo 50 «Specialmente, Titmuss riconobbe che gli strumenti statistici sono un considerevole aiuto per lo scienziato nel
metterlo in grado di ricreare delle situazioni umane. Tuttavia, era assolutamente convinto dell'importanza di guardare al di là delle statistiche al fine di riuscire a ricostruire la vera identità degli individui che vi erano celati dietro» (Reisman, 2001, p.44).
51 Paolucci, G., 'Pierre Bourdieu. Strutturalismo costruttivista e sguardo relazionale', https://www.google.it/url? sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&ved=0CC8QFjAA&url=http%3A%2F
%2Fgabriellapaolucci.files.wordpress.com%2F2008%2F06%2Fpaolucci-bourdieu-
def.doc&ei=SSrDUefYCcS84AT7ooDgCA&usg=AFQjCNHmrqWFgb_ZlKYCOx2L9ojEbmUbCA&bvm=bv.4817 5248,d.bGE 20/06/13
problema è stata ottenuta grazie ad un parallelo tra la conoscenza comune in materia di welfare e redistribuzione della ricchezza (quella conoscenza emersa dall'AS sotto forma di istanze problematiche) e due concetti tipici del mondo delle scienze sociali: l'idea marxiana di falsa coscienza ed il concetto di ottimalità. Seguendo la riflessione del sociologo statunitense Alan Wolfe, ci è apparso chiaro come in realtà molto di quanto sappiamo sulle problematiche poste dal funzionamento dei sistemi di protezione sociale provenga da una conoscenza prodotta attraverso inferenze dirette di causa-effetto che, però, non sono falsificabili. Sia il concetto di falsa coscienza sia quello di ottimalità della conoscenza nel momento economico, si fondano su assunti non falsificabili empiricamente (Wolfe, 1989, p.34). Si pensi ad esempio alla convinzione che «In un
mercato del lavoro flessibilizzato, avere le informazioni e i contatti giusti al momento giusto circa le opportunità di occupazione [tramite] la disponibilità di orientamento mirato costituisce la più efficace garanzia contro il rischio di scivolare verso l'esclusione permanente.» (Ferrera, 1998, 113).
Salvo poi rendersi conto che questa ottimalità ideale di conoscenza del mondo del lavoro da parte di un ideal-tipo di lavoratore dis-orientato, sembra schiantarsi contro l'evidenza empirica del fatto che «La famiglia e le reti informali restano il canale privilegiato di accesso al mercato del lavoro.» (Ibidem). In questo senso, il ragionamento di Wolfe mira a mostrare come scientificamente le teorizzazioni costruite su idee precostituite e funzionali sul come la realtà dovrebbe essere siano scientificamente instabili e fallaci.52 Ad esempio, come potremmo noi sostenere che l'individuo deve
essere attivato perché altrimenti si lascerebbe andare all'inattività? Come possiamo generalizzare il fatto che sollevati dalla necessità gli individui cesserebbero di lavorare e di contribuire alla collettività? Quello che intendiamo dire è che forse, per trovare percorsi cognitivi innovativi che ci conducano ad affrontare diversamente la moderna questione sociale, dobbiamo riconoscere come molta della nostra conoscenza sul comportamento umano nel campo della redistribuzione della ricchezza che diamo spesso per scontato, sia in realtà fondata su tesi antropologiche scientificamente deboli o, semplicemente, anacronistiche. Wolfe critica le teorie dei modelli economici che considerano l'attore sociale come un soggetto passivo, per cui: «Negando la
complessità morale che proviene dalla necessità di tenere in considerazione gli altri, i modelli economici si pongono poche domande sulle capacità morali degli attori stessi in quanto creature sociali.» (Wolfe, 1989, p.50). Potremmo tracciare un parallelo tra il modo in cui i soggetti vengono
considerati dalle teorie neoclassiche e quello in cui vengono percepiti dalle istituzioni dello stato sociale.
I sistemi di welfare complessi, siano essi maggiormente assicurativi o assistenziali, universalisti o selettivi, difficilmente si pongono la seguente domanda in merito al comportamento funzionale dei propri beneficiari: come prendono le decisioni le persone? Infatti, sia nei sistemi di protezione in cui il mercato funge da modello, sia in quelli in cui invece è il ruolo dello stato e della fiscalità generale a farla da padrone, la relazione tra chi da e chi riceve è connotata da impersonalità ed anonimità (Wolfe, 1989). In fin dei conti, i sistemi di protezione sociale sono solo un grande e complesso modo di rispondere in modo collettivo alle domande individuali: “Chi pensa a me
quando non sono nel mercato? E chi pensa agli altri quando sono nel mercato?” Se guardiamo al
rapporto tra Welfare State e mondo del lavoro da questa prospettiva, ci rendiamo immediatamente conto di come in realtà ci si trovi davanti ad una gigantesca macchina istituzionale che si è sedimentata nel tempo e che ha contribuito a sostituire tutta una serie di legami sociali diretti e comunitari tra individui (sia in termini di cura che di sussistenza) con un'articolata serie di obblighi morali codificati all'interno di uno spazio sociale anonimo. Ad esempio, l'espansione dei servizi può anche essere vista dal punto di vista delle relazioni sociali in modo sottrattivo, sostituendo i naturali vincoli di cura delle relazioni primarie (famigliari, parentali, comunitarie o amicali) con dei rapporti 52 Ad esempio, la credenza che il tutto funzionerebbe al meglio se si avesse accesso alla perfetta informazione e conoscenza del concetto di ottimalità o, l'insormontabile contraddizione che sta al centro della falsa coscienza, per cui al lavoratore rimarrebbe preclusa la possibilità di oltrepassare i limiti delle frammentarietà e dell'unilateralità della comprensione della propria condizione .
strumentali strutturati in modo impersonale e standardizzato. In questo senso, pare prodursi un rapporto paradossale tra l'espansione della sociabilità degli individui nelle società complesse e differenziate ed il contemporaneo indebolimento degli obblighi morali di prossimità.53 In questo
senso, i sistemi di protezione sociale funzionano non perché esista una reale solidarietà o altruismo tra gli individui che vi prendono parte, ma perché i benefici fungono come leve d'interesse e le relazioni dirette sono state sostituite dal linguaggio ambivalente dei diritti e dei doveri che hanno indebolito l'impegno sociale soggettivo (Wolfe, 1989, p.117). Dunque, che il welfare dipenda dalla mano visibile dello stato, o da quella invisibile del mercato, entrambe queste istituzioni si frappongono come medium impersonali nella relazione di sussistenza materiale e di cura tra le persone; sovrapponendo all'altro diretto un Altro generalizzato.
«Il mercato […] tende a sciogliere i legami culturali senza l'esistenza di storie collettive che
definiscano perché gli istinti individuali dovrebbero essere contenuti per il bene della vita in comune, le persone che fanno affidamento sul mercato per i propri codici morali perdono il senso del comune destino e della comune appartenenza. [Invece] il mero affidamento allo Stato rende l'evasione dei propri obblighi morali verso gli altri più difficile, ma produce anche un tipo similare di deculturalizzazzione. […] le storie che formano una cultura comune si diradano man mano che la gente permette al governo di sostituirsi ad essa nell'organizzazione dei propri obblighi verso gli altri. [Inoltre] Un approccio meramente politico alla regolazione morale sostituisce il senso di partecipazione ad una lotta comune (la vita, la sopravvivenza, la fatica della cura e della riproduzione, la rivendicazione di diritti, ecc.)54 con una razionalizzazione amministrativa.» (Wolfe,
1989, p.180). Unendo le istanze problematiche emerse grazie all'analisi esplorativa alle riflessioni di Wolfe, ci siamo resi conto di come i sistemi di protezione sociale siano prima di tutto delle
istituzioni sociali. Nel lessico specialistico delle scienze sociali un'istituzione sociale in senso ampio
indica un'insieme di pratiche che gli individui mettono in opera collettivamente, e che poi incanalano, modellano e costruiscono non solo le interazioni reciproche, ma in un certo senso anche la stessa realtà sociale. In sociologia è oramai assodato che la dimensione fondante di ogni realtà sociale, e di tutte le interazioni che in essa hanno luogo, è costituita dalla sfera morale (Durkheim, 1969, 1996b, Parsons, 1969, Berger, Luckmann, 2011). Dunque, sovrapponendo queste informazioni, ci è apparsa come fondamentale la rilevanza delle basi morali su cui si fonda il complesso rapporto tra i sistemi di Welfare State ed il mondo del lavoro.
Il paradosso a cui accennavano poc'anzi è perciò anche un paradosso morale, in cui più si espande il ruolo regolativo delle istituzioni formali, più la spontaneità delle relazioni sociali all'interno della società civile si indebolisce. In questo senso, anche la sfera della sopravvivenza materiale, della cura e della riproduzione nelle società avanzate hanno visto nel corso degli ultimi duecento anni una progressiva riduzione dell'impegno personale diretto in favore dell'intervento dello Stato o del mercato. Queste sono le sfere in cui si gioca la battaglia per la distribuzione e la redistribuzione delle risorse materiali e delle responsabilità sociali. Ed è proprio dalla necessità di dovere regolare queste sfere che nasce l'esigenza di un'interazione morale, la quale è poi a sua volta alla base dei sistemi di sviluppo economico e di protezione sociale che caratterizzano una società. Ebbene, la contemporanea questione sociale che origina dalla crisi dei sistemi di protezione sociale e dalle trasformazioni del mondo del lavoro, può essere letta anche e, sopratutto, come una
questione morale. Infatti, i nuovi rischi ed i nuovi bisogni che connotano le società a capitalismo
avanzato danno origine ad istanze problematiche (come quelle emerse dall'AS), che dal punto di vista redistributivo e gestionale parlano direttamente alla costruzione sociale della realtà, esattamente come i meccanismi di quest'ultima parlano ai nuovi rischi ed ai nuovi bisogni. Perciò, accogliamo in pieno il suggerimento euristico di Alan Wolfe nell'interpretare la crisi del welfare 53 Anche Esping-Andersen sottolinea il rischio di mercificazione intrinseco ad un'eccessiva espansione dei servizi, la quale richiede una crescente selettività, sopratutto all'ingresso, che porta ad una maggiore competizione e/o chiusura dei gruppi insiders nei confronti degli outsiders (Esping-Andersen, 1990).
prima di tutto come una crisi morale. A questo punto, anche il nostro orizzonte della ricerca si fa più chiaro e, ripercorrendo a ritroso i passaggi analitici finora esposti, siamo in grado di individuare quella direzione lungo la quale profondere i nostri sforzi euristici. La prospettiva pragmatista ci ha mostrato la necessità di comprendere meglio il come le persone costruiscono la propria realtà sociale, sopratutto quella che riguarda la redistribuzione della ricchezza che sta a cavallo tra Welfare State e mondo del lavoro. Ebbene, questa costruzione, che è una parte essenziale della dimensione culturale della vita umana associata, altro non è che un insieme complesso di simboli, significati, oggetti, norme e pratiche con cui gli individui regolano le sfere sociali comuni della produzione materiale e della riproduzione sociale. Questo complesso insieme ruota attorno a due domande fondamentali, e la sua funzione principale è quella di fornirvi tutta una serie di risposte il più possibile condivise. Come ci indicano le istanze problematiche emerse dall'AS, le due questioni centrali che contraddistinguono la realtà sociale della redistribuzione della ricchezza (e tutti i discorsi ad essa inerenti) sono: il “chi” ed il “come” della redistribuzione. Rispettivamente, l'esigenza comune è quella di stabilire chi ha titolo a partecipare alla ripartizione dei frutti del lavoro, venendo quindi riconosciuto pienamente come membro della comunità, e come questo scambio avviene, in quali modi e a quali condizioni.