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Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

3. la famiglia: assenza della fanciullezza come età protetta, precoce iniziazione al sesso, libere unioni, frequente abbandono di moglie e figli da parte degli uomini, famiglie

2.2 Critiche e riprese delle idee di Lewis

Il concetto di “cultura della povertà” è stato ripreso fin da subito da altri autori, come Harrington in The Other America (1962), opera di denuncia delle povertà presenti sul territorio americano, che ha avuto un grande impatto sull’opinione pubblica del paese e anche sulle politiche dell’amministrazione Kennedy e sulla guerra alla povertà dichiarata dal presidente Johnson. Proprio negli Stati Uniti si è diffusa in quegli anni l’idea che la povertà fosse legata a un qualche deficit culturale e di socializzazione dell’individuo: questo significava però fraintendere Lewis, usare il concetto di cultura della povertà in un senso diverso rispetto a quello dato dall’antropologo che infatti è più volte intervenuto per chiarire il suo intento, che non era

7 Idem, p. 107. 8 Idem, p. 108.

quello di colpevolizzare il povero, ma di studiare l’influenza della povertà sugli stili di vita, sulle scelte, le relazioni, i valori e i meccanismi di trasmissione di questi ultimi da una generazione all’altra: parlare di “cultura” della povertà era per Lewis un modo riconoscere dignità e rispetto ai comportamenti e ai valori elaborati dai poveri.

Anche per Serge Latouche la cultura dei poveri non è qualcosa da demonizzare o eliminare, ma da valorizzare. L’economista della decrescita serena, riprende il termine “cultura della povertà” identificandone in particolare un aspetto: l’informalità. L’economia informale è l’altra faccia della medaglia rispetto all’economia occidentale e alla sua logica del produttivismo, alla legge del maximin (massimi utili, minimi costi), alla separazione tra economia e vita sociale. Nell’universo infornale troviamo il dono, la solidarietà, un’economia della reciprocità che, producendo beni collettivi e servizi, rinforza i legami sociali, ma anche l’economia sommersa e l’illegalità.

L’informale è sempre esistito, anche se in forme più marginali rispetto ad oggi, ma è negli anni ’70 che il fenomeno si è fatto massiccio soprattutto in Africa e ha acquistato un nuovo significato anche alla luce della crisi economica e finanziaria degli ultimi anni. Gli occidentali lo considerano un’economia tradizionale e transitoria da normalizzare-assimilare, ma per Philippe Hugon le attività informali non sono sopravvivenze proto-industriali, bensì creazioni moderne che danno vita a nuovi rapporti sociali9.

È legittimo chiedersi se davvero l’informale sia una via alternativa al modello di sviluppo occidentale o se, essendo legato e quasi in simbiosi con il formale, non rischi di essere travolto dalla crisi di quest’ultimo; Latouche però confida molto nella creatività e nell’elasticità dell’informale e nella possibilità di prefigurare una nuova società proprio a partire dalla cultura della povertà. Questa tesi trova sostegno anche nelle teorie di alcuni sociologi americani (Jay MacLeod10, Paul Willis11, Stuart Hall e Tony Jefferson12) che hanno visto negli atteggiamenti e

comportamenti dei poveri una forma di reazione e nella subcultura della povertà un movimento di resistenza alla cultura dominante e il segno della possibilità di cambiamento della società proprio a partire dagli ultimi e dagli emarginati.

Il concetto di “cultura della povertà” è stato invece criticato da altri autori (ad esempio Eames E., Goode J., 1970)13 che ne hanno evidenziato gli aspetti discutibili:

9 S. Latouche, op. cit.

10 Cfr. J. MacLeod, Ain’t no makin’it: aspiration & attainment in a low-income neighborhood, Oxford, Westviw

Press, 2008.

11 Cfr. P.E. Willis, Learning to Labor: how working class kids get working class job, Columbia University Press,

1981.

12 Cfr. S. Hall, T. Jefferson, Resistance through Rituals, Routledge, 1993.

- Lewis viene criticato per la confusione tra i concetti di cultura e sotto-cultura: ma Lewis stesso ha dichiarato di aver scelto il termine cultura perché più facilmente comprensibile dal vasto pubblico rispetto a quello di sotto-cultura;

- gli oppositori di Lewis considerano gli atteggiamenti dei poveri come una risposta a situazioni politiche, economiche e sociali, ma soprattutto alle condizioni oggettive della povertà, secondo loro la povertà non è causata dai valori dei poveri, quindi non ha i caratteri della cultura: Lewis ha sottolineato invece l’esistenza di un circolo vizioso per cui condizioni oggettive di povertà in determinate situazioni politiche, economiche e sociali portano le persone ad adottare valori e comportamenti che possono essere considerati un prodotto e una sottocultura della povertà e che si trasmettono da una generazione all’altra, impedendo l’uscita dalla povertà;

- la diffusione del concetto della cultura della povertà ha portato a guardare i poveri come responsabili e colpevoli della propria condizione, distogliendo l’attenzione dalle disuguaglianze economiche e dalle altre cause strutturali: Lewis era però consapevole di questi fattori e non è stato suo intento colpevolizzare i poveri.

Possiamo trovare il termine di “cultura della povertà” anche in alcuni lavori più recenti e in particolare negli studi etnografici sui senza dimora. Ad esempio Giuseppe Scandurra in un saggio in cui racconta la ricerca condotta al dormitorio Carracci di Bologna sostiene che “la vita praticata da tutte queste persone, quella di strada, è una forma di adattamento all’ambiente urbano, una cultura della resistenza in grado di elaborare una diversa percezione della realtà spazio-temporale”14. A sostegno di questa ipotesi l’antropologo porta il lavoro di Bonadonna (Il

nome del barbone, 2001) sulle mutazioni causate dalla vita di strada a diversi livelli

dell’esistenza: 1. culturale:

• i senza dimora violano alcune delle norme su cui si fondano le nostre società occidentali a sviluppo avanzato, prima fra tutte quella della produzione economica attraverso il lavoro;

• inoltre non rispettano le comuni norme igieniche (non si lavano, non lavano i vestiti…) e molto spesso neppure le norme morali diffuse (orinano e defecano in luoghi pubblici…);

University of Chicago Press. L’articolo è disponibile sul sito http://www.jstor.org/stable/2740374 (consultato il 27 Gennaio 2010).

14 G. Scandurra, “Il Carracci: memorie di un rifugio urbano” in M. Callari Galli (a cura di), Mappe Urbane. Per

2. fisico:

• le poche ore di sonno, l’alimentazione non adeguata, l’esposizione alle intemperie debilitano il corpo che è più esposto a malattie e parassiti;

• vivendo sotto gli occhi di tutti la pelle diventa l’ultimo baluardo di difesa del se’ e viene quindi protetta con strati di vestiti e di sporcizia;

3. relazionale:

• i legami sociali si sfaldano, sulla strada si sta insieme per necessità, ma non ci si fida mai fino in fondo degli altri;

• i senza dimora perdono i diritti di cittadinanza e dopo anni di permanenza sulla strada i soggetti perdono anche i legami con se stessi e la propria identità;

4. psicologico:

• i mutamenti fisici hanno conseguenze anche a livello psicologico;

• le poche ore di sonno possono compromettere la stabilità mentale (stati di micro-sonno durante il giorno, allucinazioni);

• la necessità di vivere alla giornata sopprime i progetti e le prospettive a lungo termine, così quello che prima sembrava insopportabile, la vita in strada, diviene qualcosa a cui è difficile rinunciare, Bonadonna definisce il risultato di questo processo con il termine “carattere permanente del provvisorio”.

I senza dimora hanno un diverso modo di abitare, di usare gli spazi pubblici, di gestire il proprio corpo, di guardare la città, di relazionarsi, di pensare: per questo per alcuni studiosi costituiscono una sotto-cultura della povertà. Più scettico è il sociologo Bergamaschi che ritiene difficile che la vita in strada crei una cultura della povertà, a causa dell’isolamento relazionale e dell’emarginazione che caratterizza la vita di molti senza dimora15.

Ritengo che queste differenti posizioni possono essere spiegate facendo riferimento ai contesti studiati da questi ricercatori oltre che alle teorie a cui fanno riferimento:

• i senza dimora di Roma incontrati da Bonadonna sono molto più numerosi rispetto alla realtà bolognese studiata da Bergamaschi, nelle strade di Roma si formano dei gruppi e delle piccole comunità di senza dimora che possono elaborare strategie di sopravvivenza, comportamenti e valori e quindi una “cultura della povertà”,

• mentre la povertà dei senza dimora di Bologna si caratterizza di solito soprattutto per la

15 M. Bergamaschi, “Un’area di incerta povertà: l’asilo notturno”, in P. Guidicini, G. Pieretti (a cura di), I volti

solitudine, dovuta sia alla rottura dei precedenti legami familiari, lavorativi e amicali sia per l’impossibilità/incapacità di tessere nuove relazioni significative in strada o con i servizi. Non si potrebbe quindi parlare nel caso bolognese di “cultura della povertà”, ma questo non toglie che anche in questo caso la povertà estrema abbia delle ripercussioni non solo a livello fisico e mentale, ma anche culturale, come descritto da Scandurra.

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