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Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

2. I ricoveri: lunghe file per riuscire ad entrare, un tozzo di pane duro e una minestra che solo la fame poteva far mangiare, la possibilità di lavarsi, di riposarsi su un materasso e la

1.6 La povertà ogg

Il mondo contemporaneo ci pone di fronte a un allarmante paradosso: pur avendo raggiunti livelli di ricchezza complessiva senza precedenti e altissimi livelli di progresso tecnico e materiale “siamo affetti da ansia, portati alla depressione, preoccupati di come ci vedono gli altri, insicuri delle nostre amicizie, spinti a consumare in continuazione e privi di una vita di comunità degna di questo nome. In assenza del contatto sociale rilassato e della gratificazione emotiva di

cui abbiamo bisogno, cerchiamo conforto negli eccessi alimentari, nello shopping e negli acquisti ossessivi, oppure ci lasciamo andare all’abuso di alcol, psicofarmaci e sostanze stupefacenti”55. Secondo Richard Wilkinson e Kate Pickett molti problemi contemporanei - come

la precarietà della salute fisica e mentale, la scarsa mobilità sociale, il basso livello dei rendimenti scolastici, gli episodi di violenza, i tassi di detenzione carceraria, la diffusione di gravidanze in adolescenza, la crescente sfiducia verso l’altro e lo stress - sono strettamente correlati alle disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Certo questa può sembrare una visione molto semplicistica e riduzionista, perché dietro a un problema sociale ci sono più fattori da tenere in considerazione, ma a Wilkinson e Pickett va riconosciuto il merito di aver sollevato un nuovo dibattito sulla disuguaglianza a cui non può essere indifferente chi si interessa alla povertà. Per guardare la povertà alla luce della disuguaglianza, non basta prendere in considerazione le differenze di reddito, ma anche le diseguaglianze in termini di diritti umani, sociali e civili e di opportunità di vita. Oggi parlare di povertà, sia a livello mondiale sia locale, significa quindi parlare soprattutto di diseguaglianza, esclusione sociale e di diritti negati. 1.6.1 La globalizzazione delle disuguaglianze: i ricchi e i naufraghi dello sviluppo

“I poveri vivono a parte; essi sono del nostro mondo senza esservi… è dunque con l’esclusione che si definisce la povertà oggi” (Esprit, in Paglia V., 1994, p. 476).

“Un miliardo di persone che vive in assoluta povertà, accanto a un miliardo di persone che gode di un crescente splendore su un pianeta che diventa sempre più piccolo e sempre più integrato, rappresenta uno scenario non sostenibile” (International Herald Tribune, 2 febbraio 1999, in Paglia V., 1994, p. 479).

A partire dalla fine del XIX secolo, la crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro hanno ridotto i tassi di povertà nei paesi occidentali, ma questa riduzione numerica ha diminuito il peso politico e la voce dei poveri.

Nel corso del XX secolo l’attenzione sul tema della povertà è uscito dai confini nazionali: la nascita del mercato globale, l’aumentata mobilità per lavoro o all’interno di un progetto migratorio, l’accorciamento delle distanze spaziali e temporali reso possibile dalla velocità di trasporti e dai nuovi mezzi di informazione e comunicazione, ci hanno permesso di conoscere la povertà del cosiddetto Terzo mondo. Perché queste differenze nella ricchezza delle nazioni? Diamond nel suo celebre Guns, Germs, and Steels (1997) ha sostenuto l’ipotesi secondo cui è la

55 Cfr. R. Wilkinson, K. Pickett, La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici,

geografia (la presenza di determinate specie vegetali e animali, la possibilità di vie di trasporto e comunicazione...) che ha influenzato lo sviluppo della civiltà umana, determinando la ricchezza e la povertà delle nazioni. Oggi la teoria del determinismo geografico è stata però ridimensionata, anche perché i progressi scientifici e tecnologici permettono di minimizzare l’influenza negativa dei fattori citati da Diamond. Una delle spiegazioni fornite rispetto alla povertà dei Paesi del Terzo mondo è la corruzione dei loro governi o la loro cultura arretrata, ma secondo Sachs il problema è molto più complesso e in The end of poverty (2006), evidenzia come vi siano alcuni fattori favorevoli alla crescita economica (presenza di risparmi, commercio, tecnologia, risorse naturali...) e altri sfavorevoli (mancanza di risparmi, assenza del mercato, declino delle risorse naturali, cataclismi naturali, aumento della popolazione...). Le differenze tra paesi sviluppati e in via di sviluppo sono un fenomeno abbastanza recente, relativo agli ultimi 200 anni della storia dell’umanità ed è stato lo sviluppo della tecnologia, accanto alla guerra e allo sfruttamento del colonialismo a fare la differenza. La rivoluzione industriale - che ha dato l’avvio alla moderna crescita economica e ha avuto come conseguenza l’urbanizzazione, il cambiamento dei ruoli di genere e della struttura familiare, un aumento della mobilità sociale e della specializzazione - ha toccato i paesi in tempi e modi diversi producendo disuguaglianze di ricchezza e di potere e aprendo la strada allo sfruttamento coloniale, fondato sul razzismo (predominanza della “razza” bianca) e il culturalismo (predominanza della cultura occidentale, europea, cristiana).

Secondo Sachs i paesi del Terzo Mondo sono chiusi in una trappola: la povertà in un certo senso è causa di se stessa in quanto produce la stagnazione dell’economia e in condizioni di povertà estrema tutto le risorse sono impiegate per la sopravvivenza, non vi è nessun margine di guadagno da investire per il futuro, per questo da soli i paesi poveri non possono rialzarsi, hanno bisogno di aiuto. Tuttavia la carità dei paesi ricchi verso i poveri ha spesso prodotto effetti collaterali indesiderati: in alcuni casi gli aiuti hanno danneggiato o addirittura impedito lo sviluppo dell’economia locale, hanno creato dipendenza, hanno arricchito la burocrazia corrotta e hanno dato più occupazione agli occidentali che ai locali, non sempre coinvolti nei progetti come coautori e corresponsabili ma solo come beneficiari...

Il dibattito su come affrontare la povertà dei popoli richiama i discorsi medievali sui mendicanti e i vagabondi: da un lato si è insinuato il dubbio se gli aiuti internazionali siano un diritto dei poveri o consolidino invece passività e apatia e si è diffuso l’ethos della ricchezza e la paura dei poveri, dall’altro è aumentato il coinvolgimento emotivo ed è rinato un senso di responsabilità per il destino comune... Negli ultimi anni i paesi ricchi e sviluppati hanno però dovuto ammettere

che la povertà non è solo fuori dai loro confini e che poveri non sono solo gli immigrati che bussano alle porte e cercano le strade per partecipare alla ricchezza globalizzata, si sono così dovuti misurare con le disuguaglianze interne a ciascun Stato.

Disuguaglianze e povertà

I numeri elaborati nelle ricerche statistiche ci dicono che il fatto di essere nato in Norvegia o in Sierra Leone fa ancora una grande differenza nelle nostre possibilità di vita, che il reddito delle 500 persone più ricche del mondo supera quello dei 416 milioni di poveri e che il potere economico e politico dello strato più alto (gli alti dirigenti) supera persino quello di alcuni Stati. La disuguaglianza “è sovente considerata un attributo endemico di un’economia di mercato, quando non è addirittura indicata come desiderabile ai fini di un ordinato funzionamento di una società”56.

Immagine 1.5 Le disuguaglianze economiche

(Fonte: http://babble.com/CS/blogs/strollerderby/2008/10/wage%20inequality.jpg)

Disuguaglianza non coincide con povertà, ma sappiamo che la disparità nella ricchezza si traduce in disuguaglianze di alimentazione, istruzione, assistenza medica, libertà, diritti, opportunità di vita:

- 800 milioni di persone soffrono la fame mentre nel mondo ricco moriamo per problemi legati all’obesità,

- negli Stati Uniti 83 persone su 100 sono iscritte all’università, in Niger 56 su 100 non entrano neppure alla scuola elementare,

- in Italia c’è un medico ogni 283 persone, in Tanzania ce n’è uno ogni 45.000…

“La disuguaglianza estrema viene considerata scandalosa e condannata, perché viola l’idea,

ampiamente diffusa, che tutte le persone ovunque si trovino, godano di alcuni diritti fondamentali”57. È chiaro dunque che per combattere le povertà delle nostre società diviene

indispensabile analizzare e affrontare le disuguaglianze economiche (beni, reddito) e sociali (disoccupazione, discriminazioni di genere o etnia, esclusione dalla partecipazione politica e dai diritti di cittadinanza) presenti nei diversi contesti58.

Secondo lo studio Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico)

Growing Unequal Incombe Distribution and Poverty in Oecd Contries59, l’Italia è il paese in cui

la disuguaglianza è aumentata maggiormente negli ultimi vent’anni: il reddito annuale medio del 10% più povero della popolazione italiana è di 5.000 dollari (la media Ocse è di 7.000) e secondo i dati della Banca Mondiale ha una quota di reddito pari al 2,3% del reddito nazionale, mentre il reddito del 10% più ricco è di 55.000 dollari che corrispondono al 26,3% del reddito nazionale. Se usiamo il coefficiente Gini, indice definito dallo statistico-economista Corrado Gini per misurare il tasso di disuguaglianza nella distribuzione del reddito, l’Italia con un indice di 35 si colloca al sesto posto nel ranking mondiale della disuguaglianza dietro a Messico, Turchia, Portogallo, Stati Uniti e Polonia.

Le distanze tra i redditi nel nostro paese hanno iniziato ad allargarsi nella seconda metà degli anni ’80 con un picco tra il ’92 e il ’93; tra il 1993 e il 1998, secondo i dati della Banca d’Italia, si è rafforzata la classe media, mentre successivamente è ripresa la tendenza alla polarizzazione nei decili estremi con ricchi sempre più ricchi, ceto medio impoverito e poveri sempre più poveri e la crisi di ultimi anni non farà altro che peggiorare la situazione, colpendo soprattutto i giovani. Secondo l’economista Maurizio Franzini, docente della facoltà di Economia della Sapienza di Roma, mentre l’aumento delle disuguaglianze degli anni ’80 e ’90 era imputabile all’evoluzione negativa del mercato e all’abolizione della scala mobile - meccanismo di compressione delle disuguaglianze salariali -, oggi il principale responsabile è un welfare state che, incapace di correggere le disuguaglianze, ha trasferito sempre più rischi sociali sulle spalle dei singoli60.

Secondo Franzini le disuguaglianze sono lo specchio della società, “ne riflettono le dinamiche economiche, le relazioni sociali, i valori culturali, le scelte politiche e l’articolazione del potere. Le disuguaglianze, anche soltanto quelle economiche, sono un criterio essenziale per valutare il

57 D. Green, op. cit., p. 5.

58 Per un approfondimento rispetto al tema delle disuguaglianze rimando al Dossier Eurostat, Combating poverty

and social exlusion, 2010, dove potete trovare dati sulle disuguaglianze di reddito e di consumo nei diversi stati europei, rispetto alle diverse tipologie familiari e occupazioni, e sulle disuguaglianze nel mondo del lavoro dovute a discriminazioni razziali, di genere o per disabilità.

59 Dal sito: http://www.gruppoabele.it (consultato il 6 Novembre 2009).

progresso civile e sociale di un paese”61.

Nei paesi Ocse è diminuita la povertà degli anziani, mentre è aumentata quella dei giovani e delle famiglie, in quasi tutti i paesi sono aumentate le disuguaglianze negli stipendi dei lavoratori ed è in aumento il numero dei lavoratori con reddito basso, il tasso di povertà delle famiglie senza reddito da lavoro è sei volte superiore a quello delle famiglie che lavorano, per le famiglie monoparentali il tasso è il triplo rispetto al resto della popolazione... Se i governi non adottassero misure (politiche fiscali e previdenziali favorevoli a i poveri, assegni sociali…) per contrastare tali disuguaglianze la situazione sarebbe ancora più critica.

Quali sono le conseguenze di queste disuguaglianze a livello locale e globale? Amartya Sen, nella prefazione al lavoro di Duncan Green Dalla Povertà al potere (2009) cita i seguenti mali, figli della disuguaglianza:

- spreco di talenti;

- indebolimento della società e delle istituzioni; - indebolimento della coesione sociale;

- limitazione dei benefici della crescita economica sulla strato più povero della popolazione; - trasmissione intergenerazionale della povertà.

Cerchiamo di capire meglio che cosa è la disuguaglianza e come si genera.

Secondo la definizione di Gallino (2001), le disuguaglianze sociali sono differenze oggettive tra gruppi, soggettivamente rappresentate: una differenza diventa disuguaglianza quando un gruppo A, che si ritiene simile per status a un gruppo B, pensa di subire un’ingiustizia perché vede dare al gruppo B maggiori riconoscimenti, risorse, privilegi e quando le differenze constatate sono considerate non naturali, ma socialmente determinate. In ogni tempo e in ogni società sono esistite disuguaglianze nella distribuzione delle risorse e una conseguente stratificazione sociale: questo concetto esprime l’universalità e il senso di verticalità di tali disuguaglianze, percepite appunto come disposte lungo un asse verticale, ma senza formare un continnum.

Ma come avviene questa stratificazione sociale?

Secondo Bauman (1999) oggi vi sono almeno due grandi fattori di stratificazione sociale: 1. la mobilità: ogni anno sono più di un miliardo i turisti in giro per il mondo, centoventi

milioni le persone che migrano e a questi numeri dobbiamo aggiungere le persone che sono in viaggio per lavoro. La possibilità di muoversi e le modalità con cui si viaggia fanno la differenza tra chi sta in alto e chi sta in basso, tra il turista e il vagabondo, tra chi

viaggia per lavoro e l’immigrato o il profugo, tra l’imprenditore che può decidere di spostare la sua azienda dal Nord al Sud del Mondo o nei paesi dell’Est senza preoccuparsi delle conseguenze e chi in quel territorio inquinato e impoverito continua a vivere... La distanza è un prodotto della velocità consentita dalla tecnologia e dai mezzi di trasporto e di comunicazione e per noi che viviamo nell’epoca del ciberspazio, è annullata o comunque ridotta, sia all’interno di una comunità sia tra comunità: “piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle distanze spazio-temporali tende a polarizzarla. Emancipa alcuni dai vincoli territoriali e fa sì che certi fattori generino comunità extraterritoriali, mentre priva il territorio, in cui altri continuano ad essere relegati, del suo significato e della sua capacità di attribuire un’identità”62;

2. la triade individualismo-consumismo-conformismo: “potremmo immaginare la «classe inferiore globale» come la feccia che rimane al fondo di una soluzione chimica saturata da sostanze di cui essa non è che il residuo condensato nel corso della reazione. Tale soluzione è la «società individualizzata» di cui tutti facciamo parte; le sostanze in essa disciolte sono gli ostacoli che si accumulano sulla via che porta dall’individualità de jure all’individualità de facto; e il catalizzatore che induce la sedimentazione è il precetto di individualizzazione”63. Il consumismo e il conformismo sono considerati strumenti per

conquistare e mantenere la propria individualità: essere individui, cioè avere sempre gli ultimi modelli, i prodotti di serie A, costa, perché i pezzi del puzzle che costituiscono l’identità sono i beni di consumo, e in questa gara tanti sono gli esclusi: anche l’individualità, arriva a dire Bauman, è diventata un privilegio!

I ricchi

Come emerge dal libro Il presidente dei ricchi, frutto dell’ultimo lavoro dei coniugi Monique e Michel Pinçon, sociologi francesi che da anni studiano i comportamenti dell’alta borghesia, l’unica classe sociale che ancora possiamo definire tale è proprio quella dei “ricchi”. Se classe operaia e ceto medio risultano infatti frammentati, disgregati, frantumati dall’individualismo, dalla disoccupazione, dalla crisi dei sindacati e dello stato sociale, dal precariato, al contrario i ricchi sono un gruppo compatto: condividono potere - economico e politico -, modelli culturali, stili di vita e di consumo e sono solidali tra loro, per questo sono la classe dominante che oggi detta le regole in campo economico, politico, culturale.

62 Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma, Laterza, 1999, p. 22. 63 Z. Bauman, Vita liquida, Roma, Laterza, 2006, p. 13.

Negli ultimi due decenni sono aumentate le persone agiate che possono permettersi di ostentare il lusso senza sentirsi troppo in colpa: “convivono con la povertà, con il genocidio, con la fine delle illusioni. In effetti, esse sono tutto questo. Anch’esse vivono la tremenda condizione moderna del nuovo millennio: la separazione del nulla tra il simbolo e la funzione. Per questo il lusso non è motivo di scandalo... e forse neppur più di soddisfazione...”64. Il sociologo

Alessandro Casiccia, nel suo lavoro su lusso e potere, riporta alcuni studi che rilevano come nell’era della globalizzazione siano aumentate la richiesta e l’offerta di beni posizionali, segni della gerarchia, status symbol, che hanno effetti sociali stabilendo relazioni simboliche e distanze tra gli individui, mentre diminuiscono i beni relazionali, cioè quei vantaggi che derivano dalla comunità, la famiglia, gli amici, la cooperazione. Gli acquisti delle imbarcazioni, delle auto e in generale degli oggetti di lusso e super-lusso sembrano non temere la crisi finanziaria, il loro mercato è florido: tra il 2006 e il 2008 le vendite di questi beni sono aumentate del 10-15%. La competizione attraverso i beni posizionali è molto forte e una piccola quota del ceto medio (9%) si è lanciata verso l’inseguimento degli ultra ricchi: a Torino e a Genova si stima siano sessantamila le persone che potrebbero permettersi di spendere ogni mese 50 mila euro in lussi vari, centocinquantamila a Milano.

Nel passaggio dal medioevo all’età moderna il lusso era un dovere delle corti e dei ceti elevati, ma allo stesso tempo era controllato da apposite leggi, le leggi suntuarie, per evitare l’eccesso, ma soprattutto per mantenere le divisioni tra le classi. Nel corso della storia si sono alternati momenti in cui il lusso è stato considerato motore dello sviluppo, risorsa, segno della grazia divina e dell’impegno dell’uomo, legato alla raffinatezza-licenziosità, l’eccesso, lo spreco, l’ostentazione, un segno di potere, un obiettivo alla portata di tutti... “Nell’era consumistica di massa, il possesso di determinati oggetti e la scelta di acquistare particolari beni riconoscibili per la marca o la “firma”, ha potuto rispondere a un’esigenza di suscitare approvazione e simpatia, di rispondere a standard marcanti un’identità sociale”65. Il possesso di questi beni non è però in

relazione diretta con l’essere felici: infatti superato un livello medio di tenore di vita, il reddito pro capite non è più correlato alla felicità dichiarata.

Certo non basterà avere oggetti di lusso per essere felici, ma, conclude Casiccia, chi non li ha e li vuole possedere vivrà sicuramente nella frustrazione e nell’infelicità.

64 A. Casiccia, Lusso e potere, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. VIII. 65 Idem, pp. 50-51.

Gli esclusi: i “naufraghi dello sviluppo” e i “rifiuti umani”

Il mondo sta diventando un unico villaggio, ma fuori dai confini della città, nella campagna del sottosviluppo, c’è un altro pianeta, il pianeta degli esclusi, degli emarginati e anche all’interno delle nostre città abita un popolo di esclusi, anch’essi naufraghi dello sviluppo, come li definisce Serge Latouche (1993).

I poveri di cui parla Latouche hanno mille volti: i radicalmente esclusi, gli internati, i rifugiati, gli abbandonati, gli sradicati, i disoccupati, le vittime dei conflitti o delle catastrofi naturali. Gli esclusi tra gli esclusi vivono in condizioni di abbandono materiale e morale, sono invitati al grande banchetto dello sviluppo immaginato dal sogno occidentale e condannati a restare sulla porta a divorare le briciole, dicendo educatamente grazie; sono vittime del progresso, esiliati dalla modernità, esclusi che vivono l’esterno come ostile e sono visti come selvaggi dagli sviluppati... eppure proprio questi contesti di povertà secondo Latouche sono i laboratori sociali e culturali in cui può nascere un futuro possibile. Infatti se è vero che l’esclusione e la povertà estrema generano frustrazioni insopportabili e compromettono la sopravvivenza, nella maggior parte dei casi la reazione dei poveri è creativa, attraverso l’informale, l’autorganizzazione popolare, la solidarietà66.

Bauman (2005) usa un’altra immagine per descrivere i poveri: i rifiuti umani. Il motto della modernità recita che per creare qualcosa, bisogna consegnare qualcos’altro ai rifiuti e questo è valido nel campo dell’informazione, della produzione di beni e anche per gli esseri umani: le persone che non si vogliono o non si possono adattare al modello di umanità dominante e che per questo sono escluse e rimangono fuori anche dal diritto e dalla legge perché sono falliti, colpevoli di non contribuire al consumo dei beni, sono un onere sociale, una perdita, sono inutili e vengono criminalizzati, sono appunti “rifiuti umani”. Chi sono?

- Gli immigrati: se da un lato gli immigrati contribuiscono all’economia del paese d’arrivo e tramite le rimesse sostengono l’economia del paese d’origine, dall’altro lato privano la loro patria di personale qualificato ed entrano in competizione diretta con le forze di lavoro del paese d’arrivo, generando tensioni sociali. Gli immigrati sono un comodo bersaglio per le paure dovute alla precarietà e alla vulnerabilità delle nostre condizioni sociali, sono un “altro deviante” ideale per i governi: infatti, secondo Bauman, dare la caccia agli immigrati delle banlieues è un modo facile e soprattutto efficace di far vedere ai cittadini che si sta facendo qualcosa per gestire e controllare il territorio.

- I profughi e i richiedenti asilo : costretti a emigrare per scappare a massacri, guerre e

guerriglie, ma accolti come senza-stato e fuori-legge (Agier), si portano sempre addosso la precarietà e la transitorietà del loro stato67. Dopo l’11 settembre in particolare si è diffusa

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