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esaminare sia il contesto socio culturale nel quale si inserisce il fenomeno homelessness analizzato nel primo approccio sia gli interventi politici ed economici studiati nel

Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

3. esaminare sia il contesto socio culturale nel quale si inserisce il fenomeno homelessness analizzato nel primo approccio sia gli interventi politici ed economici studiati nel

secondo.

36 S. Tosi Cambini, “Homelessness: l’approccio critico dell’antropologia”, in R. Gnocchi (a cura di), Homelessness

e dialogo interdisciplinare, Roma, Carocci, 2009, p. 26; cfr. I. Glasser, R. Bridgam, Braving the Street. The Anthropology of Homelessness, New York-Oxford, Berghahn Books, 1999, p. 58.

Secondo Tosi Cambini, dall’analisi della letteratura antropologica sull’argomento emergono alcuni poli intorno a cui si snodano le interpretazioni del fenomeno dei senza dimora:

- disagio estremo/disagio abitativo;

- dimensioni di povertà/dimensioni abitative;

- approccio sociale (fattori strutturali)/approccio personale (disagio psichico); - individuo/collettività;

- inclusione/esclusione.

Lo studio di queste interpretazioni e immagini mentali è molto importante perché queste sono il nucleo concettuale su cui si basano le politiche sociali e gli interventi messi in atto dai servizi. Vediamo alcuni esempi:

- se guardiamo al senza dimora come a una persona sofferente, dal punto di vista fisico e soprattutto psichico, e mancante di autonomia e capacità relazionali, metteremo in atto un intervento teso alla regolazione-normalizzazione attraverso un approccio assistenziale e psicologico, centrato sull’individuo;

- se invece crediamo che sia un deviante, preferiremo un intervento repressivo (ad esempio gli sgomberi e le leggi antibivacco) per tutelare la società dai pericolosi marginali;

- se infine consideriamo il senza dimora un cittadino a cui sono negati dei diritti, ci batteremo perché gli siano riconosciuti (advocacy).

Quest’ultimo approccio è più recente e nonostante le buone intenzioni, spesso si è ridotto a una sterile rivendicazione di diritti che nella pratica non possono essere garantiti, a causa dei problemi strutturali - pensiamo ad esempio al diritto alla casa e al lavoro - o che vengono garantiti solo in parte - ad esempio il diritto all’accesso alla casa, ma non all’abitare che è qualcosa che va al di là dell’avere quattro mura e un tetto, per cui viene da chiedersi se vivere in una cantina umida o in un appartamento sovraffollato non sia solo un’altra forma di

homelessness.

In Italia non mancano esempi dell’approccio repressivo alla povertà mentre, secondo il pedagogista Aluisi Tosolini, la psicologizzazione è una prassi meno diffusa rispetto a Francia e USA, ma è in espansione accanto ad altri approcci basati sulla persona (percorsi di sviluppo,

empowerment, autonomia…). L’intervento politico rimane ancora marginale, spesso solo

emergenziale, con gravi conseguenze: “confinare, dunque, il problema homelessness al dominio dei social problems e perciò a quello dell’assistenza, è un espediente teorico e politico che

dicotomizza in modo strumentale il mondo sociale in un noi/loro, dentro/fuori, mettendo in ombra il continuum delle posizioni fra gli “in” e gli “out” e la generalizzazione del rischio, e oscurando il peso delle politiche della casa”37 o del lavoro…

Non è facile dipanare il complicato intreccio di cause e conseguenze, responsabilità - il che non significa colpa - personali e sociali che entrano in gioco nel determinare la condizione di senza dimora; Kleinman, Das e Lock, nell’esplorare le complesse dinamiche fra esperienza soggettiva e processi socioculturali che producono la povertà, introducono il concetto di sofferenza sociale: questa “accomuna una serie di problemi umani la cui origine e le cui conseguenze affondano le loro radici nelle devastanti fratture che le forze sociali possono esercitare sull’esperienza umana”38. Spesso si dimentica che i senza dimora, pur vivendo in situazioni di povertà estrema e

pur costruendo forme alternative e creative di resistenza, non costituiscono un mondo altro, ma sono parte della nostra società. Questa rappresentazione che crea distanze tra noi e loro e la mancata conoscenza e comprensione della vita di strada da parte di chi progetta ed eroga i servizi si ripercuotono poi sull’efficacia degli interventi. Per questi motivi ritengo che lo sguardo antropologico potrebbe portare notevoli contributi alle politiche e al lavoro sociale sulla povertà estrema. Secondo Jean Pierre Anciaux l’antropologia potrebbe in particolare39:

- contribuire alla valutazione degli interventi e dei modelli culturali ad essi sottesi (antropologia valutativa);

- avere voce in capitolo nella presa di decisione rispetto alle politiche di assistenza (antropologia operazionale);

- impegnarsi sul campo unendo teoria e prassi, analisi e azione (antropologia attiva).

In quest’ultimo filone si inserisce l’applied and active anthropology: si tratta di una corrente antropologica, diffusa in America e in Inghilterra, che non si limita a documentare le disuguaglianze e a studiare le povertà, ma è impegnata nella lotta all’oppressione, all’ingiustizia e alla violenza, mettendo a disposizione le conoscenze e gli strumenti dell’antropologia per la soluzione di problemi concreti40. Penso che anche in Italia sarebbe molto utile procedere a questa

integrazione di analisi sul campo e intervento, se non in seno all’antropologia, attraverso una più

37 Idem, p. 23. 38 Idem, p. 24.

39 Idem; cfr. J.P. Anciaux, L’évaluation de la socialite. Manuel d’anthropologie appliqué au travail social,

Bruxelles, De Boeck-Wesmael, 1994.

40 Idem; cfr. V. Callo, Hegemony and the Construction of Selves: A Dialogical Ethnography of Homelessness and

resistance, Tesi di Dottorato, University of Massachusetts, 1998. Maggiori informazioni sull’antropologia applicata possono essere trovate sul sito della Society for Applied Anthropology: http://www.sfaa.net (consultato il 1 Febbraio 2009).

stretta collaborazione di chi si occupa di ricerca etnografica e chi di intervento politico e sociale.

2.6 Seconda sosta

Abbiamo visto come in momenti storici e in continenti diversi gli antropologi abbiano individuato le tracce di sotto-culture prodotte dalla povertà: i messicani e i portoricani di Lewis, i naufragi dello sviluppo di Latouche, gli analfabeti di Harrison e Callari Gallari, gli uomini del niente di Salza, i senza dimora di Scandurra... sono solo alcuni esempi che ho ritenuto significativo riportare.

Il dibattito intorno al concetto di cultura della povertà è ancora aperto: le ricerche di altri studiosi sia in ambito antropologico (F. Burgeois, 2005) sia sociologico (E. Liebow, 2003; S. Hays, 2003; D. Dohan, 2003; S.A. Venkatesh, 2006) mettono in evidenza come in realtà i valori e desideri dei poveri siano gli stessi della classe media e la cultura della povertà sia estremamente inserita e intrecciata con la nostra stessa cultura.

Non sono in grado di risolvere la questione dell’esistenza o meno di questa sotto-cultura e penso che sia più interessate chiederci che cosa comporti il passaggio dalla descrizione della cultura della povertà all’intervento sulla povertà: affrontare la povertà in quanto sotto-cultura significa primariamente lavorare per cambiare i valori e gli atteggiamenti dei poveri, che costituiscono appunto la cultura della povertà. Se guardiamo al ruolo dell’educazione all’interno di questo paradigma scopriamo le sue due facce: da un lato l’educazione è uno dei canali attraverso cui i valori di questa cultura vengono trasmessi da una generazione all’altra (causa), ma allo stesso tempo è lo strumento attraverso cui promuovere nuovi valori e comportamenti (rimedio).

Rimane poi aperto un altro interrogativo: ammessa l’esistenza di una cultura della povertà, l’assimilazione nella cultura del resto della società è l’ideale a cui dobbiamo aspirare per migliorare la vita dei poveri?

3. I numeri e i volti della povertà oltre i dilemmi e le definizioni in

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