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Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

Grafico 3.3: Il rischio di povertà degli anziani secondo il genere

5. Una pedagogia attenta alle nuove e alle vecchie povertà

5.1 La riflessione pedagogica sui poveri e sulla povertà

5.1.1 La Pedagogia dei margin

“Dobbiamo ricordare che qualsiasi siano le condizioni e le cause dell’emarginazione, c’è uno stato del soggetto che in qualche modo coopera alla sua propria emarginazione: una emarginazione interiore, un disagio esistenziale, una inappetenza alla vita che impedisce il movimento, blocca il cambiamento. È in questa zona dell’essere che si inserisce un progetto educativo, nel luogo primario dell’emarginazione” (Gruppo di lavoro Progetto Chance, 2007).

La marginalità è una delle forme di povertà che ha interessato la riflessione e la pratica educativa, tanto che possiamo parlare di una vera e propria “Pedagogia della marginalità e della devianza”. Questo settore di studio e ricerca è nato all’interno della “Pedagogia Speciale”, ma secondo Gramigna e Righetti considerare lo studio e l’intervento educativo rivolto ai soggetti marginali nei termini di una pedagogia della devianza e della pedagogia speciale significa da un lato legare l’emarginazione al crimine e dall’altro concepire il lavoro educativo con i marginali nei termini di una ri-educazione; per i due pedagogisti invece: “la marginalità è tema di pedagogia sociale poiché, facendo nostra la distinzione proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, pensiamo che essa rientri nella sfera del disagio e quindi, di un contesto ambientale

e sociale patologico, o patologizzante”4.

Il margine e i suoi abitanti: giochi di sguardi

La differenza segna i confini tra il dentro e il fuori e quindi stabilisce i margini tra l’ordine e il disordine, tra ciò che è giusto e socialmente accettabile e ciò che devia dalla norma, tra noi - i normali, gli integrati, i sani - e gli altri, i marginali appunto, che vivono in una situazione diversa dal gruppo o dalla società di appartenenza, quelli che Bauman definisce “scarti umani”, ad esempio i poveri, emarginati perché pessimi consumatori o consumatori difettosi e i migranti, rifiuti della globalizzazione, la cui estraneità è percepita come minaccia alla nostra sicurezza. La marginalità implica quindi l’idea di esclusione, come lontananza dai centri significativi della società, ma anche l’idea di povertà come mancanza di risorse economiche, di informazioni e di relazioni5.

Vi sono individui che nascono in una condizione di marginalità, altri che vi sono condotti dai meccanismi di emarginazione innescati dal sistema sociale e altri ancora che scelgono di porsi ai margini per contestare la società e la cultura dominante. S. Ulivieri definisce marginali coloro che “costituiscono, a fronte della pagina principale codificata, una pagina secondaria, disordinata, che segue criteri diversi e divergenti. […] Vivono ai margini della società, in una dimensione esistenziale «altra», spesso temuta e repressa, perché comunica inquietudine anziché certezze”6. È ai margini chi è escluso dai processi economici, ma anche chi è escluso dai valori e

dalla cultura di una data società; i confini tra inclusione ed esclusione sono labili e dipendono anche “dai modelli culturali di accettazione o rifiuto della diversità che ogni individuo ha interiorizzato nel proprio processo formativo”7. Sono diversi i volti della marginalità: i disabili, i

bambini, i giovani devianti o “ragazzi difficili”8, gli anziani considerati un peso sociale ed esclusi

4 A. Gramigna, M. Righetti, Pedagogia Solidale, op. cit., p. 9.

5 L. Regoliosi, La strada come luogo educativo, Milano, Edizioni Unicopli, 2000. 6 S. Ulivieri, (a cura di), L’educazione e i marginali, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. IX. 7 Idem, p. 3.

8 Bertolini ha proposto una lettura del ragazzo difficile (così definito dalla società perché considerato a rischio,

deviante o delinquente) costruita attraverso la lente del paradigma fenomenologico, che vede nell’intenzionalità, la capacità di dare senso alla realtà, la caratteristica essenziale del soggetto: ognuno dà significato e valore alla realtà, in un percorso di interpretazione personale, ma costruito a partire dalla negoziazione condivisa all’interno della propria comunità intersoggettiva. (Bertolini P., Caronia L., 1993). Secondo Bertolini nei ragazzi difficili questa capacità intenzionale è però assente o distorta:

- assenza di intenzionalità: manca la capacità di considerarsi attivi nella costruzione della propria esistenza, per cui il significato delle cose si esaurisce nel qui ed ora e dominano i vincoli e una visione fatalistica che Bertolini definisce “eccesso di mondo” e che può portare a diversi comportamenti, dalla ricerca della soddisfazione immediata, alla svalorizzazione e alla non accettazione di sé, fino all’annullamento nel suicidio;

- distorsione dell’intenzionalità: si caratterizza per un eccesso di io, per cui non si riconoscono i vincoli della realtà, si considera il mondo e gli altri come mezzi per l’affermazione di sé e si pensa di poter avere e di

dal circuito della produzione e della riproduzione, le donne che ancora subiscono discriminazioni e violenze, gli ammalati, i vagabondi, le minoranze etniche e religiose...

Figura emblematiche della marginalità è il povero estremo, il senza dimora, che vive ai margini rispetto al centro produttivo e sociale, alle soglie delle istituzioni, nell’informalità della strada e oltre i limiti della sicurezza: “niente più internamento forzato, niente più lettere di denuncia che comportano la carcerazione senza processo, ma la libertà di morire per strada, alla stazione, tra i rifiuti, di fame o di freddo, per malattia o per mano di qualche folle ‘giustiziere’ notturno. […] Ognuno di questi ha una storia da trascinarsi pesantemente sulle spalle, un percorso di fallimento che ci sgomenta perché potrebbe essere, al primo inciampo, anche il nostro”9. Eppure il

pregiudizio ci dice che questi uomini e donne sono ai margini per colpa propria, perché non hanno abbastanza capacità, inventiva, volontà, competitività… In ogni caso “il Margine segna i confini di un mondo altro che ci inquieta e ci spaventa, non solo perché non lo conosciamo o perché non conosciamo la nostra appartenenza a quell’alterità che pure sempre allude oscuramente ai margini, ma anche perché lì più che altrove la differenza può piegarsi alla devianza”10.

Il pensiero unico preferisce guardare alla realtà semplificando, riducendo la molteplicità a realtà monolitica: questo sguardo vede nella differenza tra noi e i marginali una divergenza e quindi qualcosa da cancellare, correggere o nascondere, da emarginare; e guarda ai margini come a “zone franche di non significazione, o di errore assoluto”11: secondo Gramigna e Righetti, le

bidonville e le favelas, le baracche e gli accampamenti dei rom alle periferie delle grandi città sono esempi di questi margini in cui vigono regole diverse e che la società civile vorrebbe riportare all’ordine: si cerca di combattere il furto, la criminalità, la prostituzione e la violazione dei diritti umani che si consuma al di là del margine, senza però riuscire a dare ai marginali servizi sanitari, educativi, sociali, l’accesso ai beni fondamentali, il lavoro…

Dal nostro sguardo sui margini dipende il nostro atteggiamento verso i marginali: se crediamo che la marginalità sia funzionale al mantenimento dell’ordine sociale, cercheremo di contenere e controllare i marginali, ma senza eliminare la marginalità perché questo porterebbe conflitti e

poter fare tutto; da questo delirio di onnipotenza derivano comportamenti di ribellione, aggressività e violenza, ma anche disorientamento di fronte ai fallimenti o il porsi mete troppo elevate.

In entrambi i casi si tratta di un disorientamento prima di tutto interiore e che sfocia in comportamenti antisociali o in un uso disfunzionale del gruppo dei pari, ma alla base troviamo vissuti diversi, per cui occorre cercare di comprendere il significato ad essi attribuito dal ragazzo, per poi trasformare la visione attraverso la relazione educativa ed esperienze in grado di ampliare il campo di possibilità del soggetto, di permettergli di pensarsi nel futuro per rileggere il passato e riprendere in mano il proprio presente.

9 A. Gramigna, M. Righetti,, “…Svegliandomi mi sono trovato ai margini: per una pedagogia della marginalità”,

Bologna, Clueb, 2001, p. 49.

10 A. Gramigna, M. Righetti, Pedagogia solidale, op. cit., p. 101. 11 Idem, p. 89.

cambiamenti nel nostro modello di società; se invece vediamo nel margine una differenza da cancellare o un errore da correggere, allora il marginale è un in-educato o mal-educato da ri- educare e per farlo bisogna ripartire da zero, negando o limitando i danni del suo passato e del suo contesto per poterlo integrare nella società. Ma l’educazione deve per forza prefiggersi il difficile compito di strappare queste persone dal margine, di riportarle vicino al centro? “Oppure, forse l’universo ha tanti cuori e la nostra autopercezione è un divenire che sposta continuamente il suo asse. Allora abitare il margine potrebbe significare appartenere al corpo centrale pur essendo distanti, significherebbe capovolgere la visione oppositiva degli spazi, scoprire il paese della radicale diversità dentro quello della partecipazione. In questa diversità ci sono infinite possibilità compresa quella della resistenza da parte dei marginali ad ogni tipo di imperialismo, di re-integrazione, di ri-educazione, di re-definizione. È anche in questa resistenza infine la radice di un possibile dialogo educativo”12. In fondo, come sostiene Mariagrazia Contini, lo

scarto, di cui la marginalità è esempio emblematico e la resistenza non sono temi avulsi dalla riflessione educativa: la pedagogia stessa è scarto “nei confronti sia dei saperi tradizionalmente forti, sia della chiacchiera mediatica”13 e lo scarto in educazione è “da mettere in conto e da

“elogiare” perché sollecita il procedere verso traguardi che si spostano sempre un po’ più in là, da reggere e tollerare senza ferite narcisistiche, perché possibile indicatore sia di gravi problemi rispetto ai quali la “riduzione del danno” che realizziamo è già “tanto”, sia dei margini di libertà dei nostri interlocutori educativi che possono scegliere, oppure no, di incamminarsi nei percorsi che noi indichiamo”14. Scegliere di mettersi a fianco di chi è ai margini della nostra società che

elogia il potere, il denaro e il successo e non certo lo scarto significa, secondo Contini, opporre una resistenza - non violenta - ai modelli e ai valori dominanti e impegnarsi nella costruzione di pensieri e pratiche inattuali (cura dei soggetti deboli, solidarietà verso uguali e diversi, emancipazione di chi è oppresso, convivenza pacifica che non nega il conflitto anzi lo accoglie come occasione di confronto).

Lo sguardo pedagogico: la strada come luogo educativo

La pedagogia, attraverso la figura dell’educatore, ha cercato di incontrare e comunicare con chi vive ai margini - dalla banda di ragazzini al vecchio barbone, dal gruppo informale di giovani all’extracomunitario, dall’anziano pensionato al giovane tossicodipendente - andando nei loro

12 A. Gramigna, M. Righetti,, “…Svegliandomi mi sono trovato ai margini: per una pedagogia della marginalità”,

Bologna, Clueb, 2001, p. 16.

13 M. Contini, Elogio dello scarto e della resistenza, Bologna, Clueb, 2009, p. 7. 14 Idem, p. 14.

territori e condividendo i loro luoghi di vita, il che ha significato “farsi marginale”, scendere in strada per aprire con i suoi abitanti un dialogo educativo. La strada può essere vissuta e definita in diversi modi:

• per Gramigna e Righetti le strade sono “ambiti del provvisorio elevato a sistema, movimenti e pause di un posto itinerante. Sintesi di stasi e cambiamento, regola e caos, armonia e squilibrio. Si tratta di spazi identitari, relazionali e storici […] luogo stanziale e di transizione ad un tempo, ambiente privilegiato per una riflessione teorica sull’oggetto e sulla sua pedagogia, la strada con i suoi vari margini è un topos di significazioni del reale, di ridefinizione e di superamento delle immagini sociali”15;

• secondo Luigi Ciotti (1995) la strada, che nel senso comune ha spesso un’accezione negativa, è “l’altro da sé, che si può osservare con distacco, talvolta con fastidio e animosità, con paura […] o anche con sentimento caritatevole, il quale però, non è sufficiente a colmare il fossato che separa la presunta normalità da chi vive la strada come ultimo rifugio”16;

• Massimo Campedelli (1995) la definisce invece come “condizione indispensabile affinché gli uomini possano costruire delle relazioni tra di loro e con l’ambiente di vita [...] essa può essere considerata il sistema arterioso della socialità [...] in ogni caso, la strada è per tutti, in positivo o in negativo, il luogo della relazione, dell’incontro, dello scambio, del contatto”17;

• secondo Duccio Demetrio la strada è il luogo ideale per rifondare il senso dell’intervento educativo, attraverso la pedagogia della presenza e dell’incontro: in educazione si ha a che fare con “presenze, ovvero vissuti esistenziali […] con i quali ci si deve incontrare, rispetto ai quali ci si deve, prima o poi, esporre ed esprimere”18; gli incontri fanno

crescere, generano svolte, stimolano la mente e gli affetti e l’educatore ha il compito di organizzare questi incontri, non a caso, ma secondo un disegno progettuale, una precisa intenzionalità pedagogica.

Anche la strada, spazio dell’informalità, della marginalità e della povertà, è quindi un luogo educativo. Da questo punto di vista il margine non è un errore o un rischio, ma un’occasione educativa, perché anche nei luoghi marginali si possono acquisire conoscenze, abilità e avviare

15 A. Gramigna, M. Righetti, “…Svegliandomi mi sono trovato ai margini: per una pedagogia della marginalità”,

Bologna, Clueb, 2001, pp. 151-152.

16 L. Regoliosi, op. cit., p. 28. 17 Ibidem.

processi identitari e culturali. Secondo Gramigna e Righetti i margini sono luoghi sociali con propri simboli, significati e regole e per leggerli occorre spostare il nostro angolo di visuale dal centro alla periferia, solo così lo sguardo pedagogico può cogliere la sostanza educativa presente in ogni situazione, “la capacità di sopravvivere in condizioni estreme”19, senza

l’obiettivo della reintegrazione forzata. In quest’ottica, come dice B. Hooks (1998), la marginalità non è qualcosa da abbandonare per avvicinarsi al centro, ma un luogo in cui abitare, in cui resistere, da cui guardare il mondo e se stessi da una prospettiva “altra”.

“E se pensassimo che la miglior educazione possibile per la donna e l’uomo […] sia nel confronto umile con il deviante, lo straniero, l’emarginato, il diverso? Anzi, se cominciassimo pedagogicamente a pensare che la donna e l’uomo medio non esistono, che esistono persone portatrici di significati e quindi in grado di produrne, sempre, anche quando si tratta di delinquenti, accattoni, immigrati, benpensanti, integrati o disperati… e di conseguenza capaci di esprimere effetti, di fare cultura, di elaborare simboli…”20? Questo cambierebbe il senso

dell’intervento educativo nell’emarginazione:

più che di ri-educazione, si tratterebbe di ri-formazione, nel senso di “dare nuova forma alle proprie esperienze e nuovo senso all’esistenza”21 e di ri-appropriazione della propria

identità personale e sociale (il riconoscimento di essere soggetti di diritti, cittadini); • più che una pedagogia integrante dovremmo pensare a un’educazione accogliente nei

confronti dell’altro, una pedagogia che non esclude il diverso, che non vuole integrare i marginali in una “normalità” non voluta, ma anzi li riconosce come soggetti portatori di saperi, significati e valori da incontrare;

non si tratterebbe solo di convertire i marginali, quanto di cambiare noi stessi “nel senso di percorrere, nel profondo, destinalità diverse, sguardi altri, significati e itinerari di senso che nascono nei luoghi insperati, degradati, sporchi. Per acquisire coscienza di quei nodi di significato esistenziale che ci uniscono. Il fine è quello di costruire trame di relazioni solidali. Reti di amicizia. Nessi epistemologici […] fra pedagogia e giustizia sociale”22.

19 A. Gramigna, M. Righetti, “…Svegliandomi mi sono trovato ai margini: per una pedagogia della marginalità”,

op. cit., p. 8.

20 A. Gramigna, M. Righetti, Pedagogia solidale, op. cit. pp. 103-104. 21 Idem, p. 158.

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