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Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

3. la famiglia: assenza della fanciullezza come età protetta, precoce iniziazione al sesso, libere unioni, frequente abbandono di moglie e figli da parte degli uomini, famiglie

2.3 Harrison e Callari Galli nei ghetti della cultura analfabeta

In Italia gli antropologi si sono interessati al tema della povertà soprattutto all’interno del filone dell’antropologia dell’attuale e delle differenze. Ne è un esempio Né leggere né scrivere, frutto di una ricerca sul campo condotta dagli antropologi G. Harrison e M. Callari Galli negli anni ’60 sugli analfabeti in Sicilia: “gruppi che, privi della codificazione alfabetica della realtà, avevano elaborato propri modelli di comunicazione, proprie concezioni spaziotemporali, propri modelli di comportamento: in contrasto, in opposizione, al di fuori comunque dei nostri, ma integrati con noi, per molti aspetti funzionali alla nostra economia, al nostro sistema politico”16. Anche in

questo caso siamo di fronte a una sotto-cultura della povertà: la cultura analfabeta.

Il mondo in cui i due antropologi entrano è privo di tante cose, prima fra tutte l’istruzione e questa mancanza è considerata causa di miseria e inciviltà: “dopo due secoli che all’istruzione è stato assegnato il compito di rendere gli uomini liberi e fratelli; dopo un secolo che la scuola li rende eguali; dopo che l’analfabetismo è una piaga scomparsa dal mondo civile, e che sta scomparendo anche dal resto del mondo, diventato civile (perché - sì, va bene, il colonialismo - però la scuola l’abbiamo portata noi); qui, in questa parte del mondo civile, dell’Europa, dell’Italia, per ogni 10 persone che incontri 4 sono sotto-istruite”17. In questi ghetti poveri andare

a scuola non solo è considerato solo una perdita di tempo, ma significa anche mangiare pane a tradimento, gravare sul bilancio familiare e tradire i valori e le tradizioni della propria famiglia e della propria comunità d’origine: “il bambino che si intestardisse a voler frequentare la scuola, a voler svolgere i compiti a casa, farebbe un atto non solo incomprensibile per quanti lo circondano ma incompatibile con le esigenze della convivenza familiare e della sopravvivenza”18.

16 G. Harrison, M. Callari Galli, Né leggere né scrivere, Roma, Meltemi, 1997, p. 14. 17 Idem, p. 28.

Ho ritrovato lo stesso conflitto interiore vissuto dai bambini siciliani degli anni ’60 anche nelle mie visite a Napoli nel 2009: parlando con gli educatori degli adolescenti drop out recuperati dal Progetto Chanche19, ho scoperto che uno dei motivi per cui i ragazzi a un certo punto del

percorso, magari proprio quando il diploma è questione di giorni, abbandonano anche la scuola della seconda opportunità è che la scelta di prendere il diploma di terza media e di continuare a studiare è sentito come uno strappo e un tradimento nei confronti dell’ambiente familiare, in cui l’istruzione non è un valore, non ha importanza. Scuola, studio e istruzione da un lato e lavoro e strada dall’altro: si tratta di due mondi diversi, di due “culture” differenti o almeno così sono percepiti dai ragazzi.

Essere alfabetizzati significa far parte della cultura scritta di chi “parla come un libro stampato”, codificare la realtà in modo diverso da chi non usa la scrittura, fare propria una visione del mondo, una struttura mentale altra rispetto a quella di chi non sa né leggere né scrivere: “quando l’istruito pensa, pensa a immagini: le parole pensate sono pensate già graficamente, pronte per essere scritte. Quando l’analfabeta pensa, pensa a dei suoni; e la sua parola è destinata all’orecchio”20. Diverso modo di pensare significa anche diverso modo di agire e di essere: chi

non sa né leggere né scrivere quindi fa parte di una cultura diversa, la cultura analfabeta. Molte sono le differenze tra questa e la cultura degli istruiti:

• nella concezione del tempo: unitaria e non frammentata, sferica e non rettilinea, tutto è presente, tutto è sempre lo stesso (fatalismo);

• nella concezione dello spazio: dentro e fuori si confondono, la strada entra nella casa e la casa si espande nella strada;

• la cultura analfabeta “non separa, non differenzia e non individualizza”21;

• non c’è la parola scritta e al suo posto troviamo urla, rumori, gesti e odori;

• i bambini non vanno a scuola, ma imparano dalla strada e dal lavoro le competenze e i saperi necessari per la loro vita;

• non esiste l’individuo, ognuno è parte di una fitta e complessa rete di relazioni in cui i fatti personali diventano emozioni comuni e condivise e in cui l’identità è frutto delle relazioni che legano ogni persona alle altre.

Queste differenze non vanno lette solo in termini di mancanze, i due antropologi hanno infatti scoperto anche delle competenze: pensiamo ad esempio alla capacità degli analfabeti di adattarsi

19 Cfr. capitolo 9.5.

20 G. Harrison, M. Callari Galli, op. cit., p. 42. 21 Idem, p. 161.

in modo rapido a nuovi contesti e situazioni quando emigrano, oppure alle conoscenze e alle abilità che i bambini e i ragazzi imparano in strada nel confronto con i pari e con i più grandi. Ho trovato molto interessante questa riflessione dei due antropologi sul rapporto tra le due culture: “la cultura analfabeta non è una cultura chiusa in sé, priva di comunicazioni con il mondo, con la storia, con la realtà; non permane perché è relitto del passato, suo triste retaggio, sua tara ereditaria. Abbiamo scoperto che la cultura analfabeta socializza i suoi membri, così come la cultura istruita socializza i suoi. […] la cultura analfabeta è una critica radicale non solo alla nostra scuola, che escludendo e discriminando crea gli analfabeti, ma allo stesso sistema di istruzione alfabetico su cui si fonda”22.

Harrison e Callari Galli ci dicono che questa cultura si impara in famiglia e nelle strade piene di colori, odori e caos, ma anche che è perpetuata dalla scuola stessa: “nascere in una famiglia analfabeta significa nascere analfabeta: la società degli istruiti esclude da se stessa gli analfabeti nel momento in cui rende il padre responsabile dell’istruzione del figlio. Nelle strade del ghetto, poi, l’individuo si socializza, impara ad auto-identitificarsi, acquista una percezione degli altri e del mondo, pensa secondo categorie spaziali e temporali particolari e agisce coerentemente a questo pensiero, accettando la logica del lavoro saltuario […] vive un una realtà particolarissima - cioè codificando in modo particolarissimo la realtà - vive secondo la cultura analfabeta”23.

Ancora oggi analfabetismo e povertà si accompagnano in diverse parti del mondo e del nostro paese; ancora oggi in alcune aree essere ricco significa avere accesso a un’istruzione migliore, sia dal punto di vista della quantità di offerte formative e di risorse sia per la qualità dell’insegnamento; ancora oggi la battaglia contro l’analfabetismo è considerata uno vittoria irrinunciabile nella guerra contro la povertà, tanto da essere in cima alla lista degli obiettivi del Millennio; ancora oggi la scuola è chiamata a prendere consapevolezza delle proprie responsabilità e del proprio ruolo e ad essere un ponte tra i due mondi e le due culture: di chi sa leggere e scrivere e di chi è analfabeta, di chi è ricco e di chi è povero.

22 Idem, p. 60. 23 Idem, p. 79.

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