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Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

Grafico 3.2: La tela dell’esclusione

(Fonte: Poverty Paper “In mezzo a noi” riportato in Scarp de’tenis, Febbraio 2010, p. 11)

Sorge a questo punto un nuovo dilemma: la povertà coincide sempre con l’esclusione?

Spesso, ma non sempre, visto che, come sottolinea anche Rebuffini, si può essere poveri eppure far parte di una rete sociale e di solidarietà, ma si può anche essere esclusi per motivi di genere o etnici o religiosi, anche senza essere poveri… È interessante però notare come la deprivazione o l’esclusione vissuta in una dimensione della vita possa intaccare le altre dimensioni. Qual è allora il confine tra povertà ed esclusione?

Silver46 individua tre teorie dell’esclusione e tre filosofie politiche ad esse collegate:

1. la solidarietà (Rousseau, Durkheim, repubblicani francesi): esclusione come rottura del legame sociale, culturale e morale;

2. la specializzazione (liberismo anglosassone): la società è costituita da gruppi di individui differenziati e legati tra loro da contratti, l’esclusione sociale coincide con la discriminazione;

3. il monopolio (Weber, socialdemocratici, Marx): la natura dell’ordine sociale è coercitiva e l’esclusione è operata dagli inclusi per difendere le proprie opportunità.

Per stabilire il confine tra povertà ed esclusione sono stati utilizzati diversi criteri: 1. processo (esclusione) / risultato (povertà);

2. economico (povertà) /multidimensionale (esclusione);

3. la gravità della situazione di disagio (esclusione come perdita di relazioni significative);

46 A. Spanò, op. cit; cfr. H. Silver, “Reconceptualizing Social Disadvantage: Three paradigms of social exclusion”

in G. Rodgers, C. Gore, J.B. Figueiredo, Social Exclusion: Rhetoric, Reality, Responses, Ginevra, ILO Publications, 1995.

4. la rottura del sé: secondo questo criterio, proposto da Guidicini e Pieretti, la povertà è la conseguenza della decomposizione del sé, processo caratterizzato da un progressivo isolamento e da micro-fratture, impercettibili ma irreversibili.

Secondo Spanò, scegliere la crisi della continuità biografica come lettura del fenomeno povertà:

• dal punto di visto politico semplifica l’individuazione delle priorità, considera i diversi attori, permette la personalizzazione degli interventi e un rinnovamento del lavoro sociale;

dal punto di vista teorico riconosce la dimensione psichica (concetto di life situation e

coping);

• dal punto di vista della ricerca porta alla scoperta della dimensione temporale (indagini longitudinali), alla tipologizzazione dinamica dell’universo dei poveri (event history

analysis, network analysis), alla riconsiderazione degli aspetti intenzionali (analisi micro

e macro, life history e life story);

• dal punto di vista dell’attualità risponde alle esigenze della nostra società: “più che in un’era di alta modernità, o di modernità riflessiva, viviamo insomma in una società a

riflessività limitata (Balbo, 1996), ed il paradosso è che la riflessività diviene una risorsa

sempre più necessaria proprio quando le fonti sociali che potrebbero sostenere l’azione riflessiva (principi orientatori, parametri di riferimento, schemi d’azione consolidati […]) sono in via di prosciugamento”47. Se la riflessività consente agli individui di conservare il

proprio andamento narrativo, la povertà è l’esito di un deficit di riflessività e il metodo biografico-narrativo può contribuire allo studio della povertà e dare indicazioni per la lotta alla povertà.

Dalle riflessioni di Spanò emerge, a mio avviso, l’importanza di un approccio educativo all’esclusione e alla povertà, che metta al centro la persona e l’accompagni nella presa di consapevolezza del processo di impoverimento, nell’analisi dei limiti e delle risorse personali e del contesto e nel cammino di riprogettazione esistenziale.

3.5 Oltre i dilemmi

Al di là delle differenze dei vari approcci, secondo Spanò, c’è un elemento di unitarietà nella ricerca sociologica degli ultimi anni: la progressiva perdita di centralità della dimensione monetaria nella definizione della povertà.

Nei primi studi (approccio biologico - assoluto) la povertà era misurabile proprio perché coincideva con la carenza di reddito; con l’utilizzo degli approcci relativi, anche se si sono introdotti concetti quali “risorse” e “stili di vita”, non è cambiata l’equazione: reddito = possesso di beni = soddisfazione dei bisogni. Le riflessioni sulla natura sociale del consumo (Hirsh) e sulla new home economics (Becker) dimostrano invece che il possesso di beni non sempre coincide con la possibilità di soddisfare i bisogni e anche Sen afferma che le persone differiscono per capacità di usare il reddito e per i bisogni percepiti ed espressi. Con gli approcci legati alle nuove povertà “il reddito e il consumo restano una caratteristica essenziale della povertà, ma tuttavia non tale da consentire di ridurre la definizione della povertà alla sola dimensione economica”48. Sen, in “Poor, relatively speaking”, analizza quattro prospettive da cui valutare lo

standard di vita:

1. utilità: benessere come appagamento dei desideri e felicità (soggettivo);

2. merci: benessere come possesso di beni (ci dice ciò che una persona ha, ma non ciò che può fare);

3. caratteristiche dei beni (non ci dice nulla sulle possibilità d’uso);

4. capacità: secondo l’approccio delle capabilities la vita è un insieme di funzionamenti fisici e sociali e le capacità sono combinazioni di funzionamenti, il benessere è la libertà di agire e di scegliere, mentre la povertà è il mancato raggiungimento di livelli minimi accettabili per alcune capacità di base.

Secondo Spanò se adottiamo questo punto di vista:

• il dilemma povertà assoluta/relativa risulta essere un falso problema: i funzionamenti esprimono bisogni assoluti anche se le merci per soddisfarli assumono forma relativa; • il reddito è inadeguato non rispetto a una linea di povertà, ma a quello necessario per

generare i livelli richiesti di capacità per l’individuo in questione49;

• ricopriamo la centralità del soggetto.

48 Idem, p. 27.

Come si può notare, adottare una definizione di povertà multidimensionale porta a un cambiamento nella definizione anche del contrario di povertà e quindi della meta a cui tendere per sconfiggere la povertà: non si tratta tanto di garantire a tutti la ricchezza, un reddito tale da sostenere i ritmi di consumo dell’occidentale medio, ma piuttosto cercare di aumentare il benessere personale e sociale. Esso si riferisce alla qualità della vita delle singole persone e va oltre il possesso di reddito e lo stare bene, per coinvolgere il raggiungimento della vita desiderata, della felicità, delle condizioni di libertà ritenute necessarie per ogni individuo e quindi diverse da persona a persona. Secondo la teoria economica tradizionale questa differenza dipenderebbe dalla quantità e dal tipo di beni disponibili ed è stata credenza comune per lungo tempo che il benessere derivi dal libero operare del mercato, unico meccanismo capace di soddisfare le domande degli utenti-consumatori: benessere in questa accezione significa possedere dei beni, quei beni necessari alla sopravvivenza e quelli sui cui si fonda lo status sociale di ognuno di noi. Infatti l’identità di un individuo dipende sempre più da ciò che possiede e sembra che per alcune persone l’unico modo di essere sia proprio l’avere.

Da questa confusione di piani, l’essere e l’avere, risulta una concezione di benessere come ben- avere; ma l’avere tante cose non implica per forza vivere in una condizione di ben-essere. Basti pensare che dal 1900 a oggi la ricchezza è cresciuta di 17 volte, ma questa crescita non ha comportato la diminuzione della povertà, che anzi è aumentata e riguarda oggi più del 50% della popolazione mondiale.

Padre Mosè, missionario comboniano, che è stato invitato dal Professor Genovese a tenere una lezione sulla globalizzazione agli studenti del Corso di Pedagogia Interculturale, ha cercato di spiegare come il possedere beni non significhi di per sé vivere in una condizione di benessere. Di che benessere parliamo? Quando possiamo dire di stare bene? Quando ci sentiamo appagati da tutti i punti di vista, non solo quello materiale ma anche quello affettivo, sociale, intellettuale, spirituale. Una persona che sta bene è serena e guarda al futuro con fiducia. Il ben-avere non garantisce tutto questo: varie indagini dimostrano che la nostra società, che molti definiscono “società del benessere”, è pervasa dall’ansia e dal pessimismo e le persone sono preoccupate per la scarsa qualità della vita, l’ambiente sempre più inquinato e il futuro incerto che attende i propri figli. Siamo sempre più in corsa e pur essendo circondati da beni che dovrebbero farci risparmiare tempo e accorciare le distanze, abbiamo sempre meno tempo per noi. Il fatto è che i beni di cui ci circondiamo hanno anch’essi bisogno di tempo: è stato calcolato che un cittadino italiano possiede in media 10.000 oggetti, ogni oggetto deve essere scelto, comprato, messo a posto, utilizzato, spolverato, se si danneggia buttato e infine smaltito. Ogni oggetto richiede tempo: tempo tolto alle relazioni affettive e ai momenti sociali, all’amicizia e al dialogo in

famiglia. Padre Mosè ci ha proposto un’equazione molto semplice: più oggetti = più tempo da

dedicare a questi oggetti = meno tempo da dedicare alle persone = meno relazioni = solitudine = scarso ben-essere.

Trovo molto interessante che studiare la povertà e guardare ai poveri ci porti a guardare in modo più critico e approfondito anche la nostra condizione di benessere e a smascherare le nostre povertà.

3.6 La fisionomia della povertà che emerge dalle ricerche

Le ricerche sul fenomeno della povertà condotte secondo i vari metodi e approcci analizzati in precedenza ci dicono quindi qualcosa dei poveri, sul genere, l’età, i luoghi, l’etnia della povertà50; questo ci permette di iniziare a disegnare alcune fisionomie, alcuni volti della povertà

e di individuare i gruppi che sono maggiormente vulnerabili: disoccupati, persone con basso livello di istruzione, donne, bambini, giovani, anziani, stranieri e minoranze etniche. Di seguito prenderò in esame alcuni di questi volti, con un’attenzione particolare alla realtà italiana, ma senza dimenticare il contesto globale.

3.6.1 Povertà e generazioni: la povertà dei bambini, dei giovani, degli anziani

“L’età viene qui vista come una dimensione della deprivazione e della povertà, una variabile che costruisce differenze sociali nell’accesso alle risorse di ricchezza, potere, prestigio e titolarità di diritti”51. Infatti far parte di una certa fascia d’età piuttosto che un’altra comporta un diverso

rischio di povertà, come mostra il grafico sottostante52.

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