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Nel XIX secolo la disoccupazione era ritenuta la causa principale della povertà e nell’immaginario il povero era l’operaio Piuttosto che intervenire sul mercato del lavoro s

Grafico 3.3: Il rischio di povertà degli anziani secondo il genere

3.6.3 Etnia e povertà

Nel mio periodo di studio a Denver ho potuto seguire il corso di Sociology of Poverty, del Professor Theodoric Manley, ricercatore di origine afro-americana che ha studiato il tema della povertà anche da un punto di vista etnico. Esistono diversi approcci alla questione etnica in sociologia che spiegano il rapporto tra povertà e condizione di immigrato, possiamo raggrupparli in tre grandi gruppi:

1. marxista (Cox): interpreta la disuguaglianza tra i gruppi etnici come una forma dello sfruttamento di classe tra borghesia e proletariato;

2. weberaino (Parkin, Rex): considera lo status negativo che impedisce a gruppi etnici di accedere alle risorse e a stili di vita e di consumo migliori;

3. post-moderno (Modood, Donald, Rattansi, Gilroy, Bradley): considera la disuguaglianza etnico-razziale come aspetto centrale delle differenziazioni sociali.

I sociologi americani hanno diversi punti di vista rispetto alla povertà e alla sua definizione, ma nei primi studi possiamo vedere come poveri erano considerati coloro che occupavano i gradini più bassi della scala sociale: i lavoratori con bassa qualifica e basso livello di istruzione che erano per la maggior parte immigrati. Anche M.L King afferma di aver imparato molto presto, fin dall’infanzia, che “l’ingiustizia razziale si accompagnava a un gemello inseparabile: l’ingiustizia economica”72. Il film documentario The house we live in73 può essere utile per

comprendere come in una società fortemente “razzializzata”, come l’America del 1968, fossero presenti discriminazioni razziali, basate su pregiudizi e stereotipi così forti e radicati nella cultura e nella politica da limitare l’integrazione lavorativa e sociale degli immigrati, specie se di origine non europea e di colore, anche se in teoria da un punto di vista giuridico erano garantiti a tutti uguaglianza e pari opportunità. È stato molto interessante sentire come, per alcune persone intervistate, povertà e origine etnica fossero considerate un’unica categoria per spiegare le discriminazioni e le disuguaglianze subite in ambito lavorativo ed abitativo, ad indicare un legame quasi inscindibile tra le due condizioni. Non è possibile generalizzare questa percezione, anche se ricerche più attuali sulla povertà in America ci confermano che l’origine etnica influenza l’accesso alle risorse economiche e alla rete sociale di distribuzione della ricchezza74:

• nel 2005 il 14% dei bambini bianchi viveva in povertà, mentre tra i bambini di colore la percentuale era del 34,5% e tra gli ispanici del 28,3%; al top della ricchezza troviamo il 23,5% di bambini bianchi, il 9,2% di bambini di colore e l’8,5% di ispanici;

• gli studi longitudinali mostrano che la povertà di lunga durata è ancora più “etnicizzata”: i bambini afro-americani hanno 7 volte più probabilità di sperimentare più di 6 anni di povertà rispetto ai bambini bianchi (Hertz, 2005);

• anche a parità di reddito, le famiglie afro-americane accumulano meno capitale rispetto a quella bianche (Oliver & Shapiro, 2006);

• la mobilità sociale verso l’alto è più comune per i bianchi mentre quella verso il basso per afro-americani e ispanici (Hertz, 2006).

Anche in altri paesi di più recente immigrazione, la condizione di immigrato comporta un

72 M.L. King, I have a dream. L’autobiografia del profeta dell’uguaglianza, Milano, Mondadori, 2000, p. 13. 73 Si tratta della terza parte della trilogia Race - the power of an illusion, prodotto da California Newsreel nel 2003. 74 M. Corcoran, “Childhood Poverty, Race and Equal Opportunity”, in S.B. Newman, Educating the other America,

rischio di impoverimento e i pregiudizi e gli stereotipi verso le persone di origine straniera sono tuttora di ostacolo alla loro integrazione nelle società d’accoglienza. Il viaggio della speranza ha un suo prezzo e spesso i migranti danno fondo ai propri risparmi o si indebitano, senza contare i costi fisici e psicologici del viaggio con cui chi riesce ad arrivare nel paese d’accoglienza deve fare i conti. Per chi arriva come clandestino, lavoro nero e precarietà abitativa sono una prospettiva concreta, come il rischio del foglio di via e del rimpatrio. I richiedenti asilo e i rifugiati devono affrontare lunghi periodi (mesi quando non anni) di attesa prima di avere una risposta rispetto alla loro domanda di accoglienza, in questa fase non possono lavorare e dipendono quindi dall’assistenza: molti finiscono per strade e nei dormitori. Ma anche per chi è “in regola” i problemi e i rischi di impoverimento non mancano.

Oggi secondo gli ultimi dati del Rapporto Caritas-Migrantes 2009 nel nostro paese:

risiedono quasi 4 milioni di immigrati regolari, soprattutto rumeni, albanesi, cinesi, marocchini e tunisini, mentre il numero degli irregolari è un cinquatesimo del totale degli immigrati in Italia, eppure sbarchi e rimpatri monopolizzano l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica;

il 10% della forza lavoro del nostro paese è costituito da persone di origine straniera, non si tratta solo di lavoratori dipendenti, ma anche di imprenditori nel campo dell’edilizia e del commercio e il loro apporto al mercato del lavoro è risultato necessario soprattutto in questi due anni di crisi (nel 2008 il numero dei lavoratori stranieri è aumentato di 200.000 unità);

gli immigrati concorrono per il 9,2% al Pil nazionale complessivo;

uno studente su 15 è di origine straniera (immigrato o nato in Italia da genitori stranieri);

è in aumento il numero dei matrimoni misti.

I dati ci mostrano un paese sempre più multiculturale75, ma la strada verso l’integrazione di

queste diversità è ancora molto lunga se è vero che:

• solo il 18% degli immigrati ha una casa di proprietà e le sistemazioni degli immigrati sono di solito di qualità inferiore o più costose di quelle accessibili agli italiani con lo stesso reddito (gli stranieri sono spesso vittime di pregiudizi e speculazione);

• secondo i dati Caritas-Migrantes 2008 gli immigrati senza permesso di soggiorno sono

75 Con il termine multiculturalità si indica un dato di fatto: la presenza in un territorio di più gruppi culturali,

etnici e linguistici; con il termine interculturalità si indica invece un progetto, un ideale non ancora raggiunto: il passaggio dalla semplice convivenza di più culture, all’incontro e scambio reciproco. Cfr. A. Genovese, Per una pedagogia interculturale, op. cit.

circa 420.000 (ma si stratta di una stima, non abbiamo numeri certi) e sono 500.000 gli immigrati regolari che lavorano in nero con turni pesanti, spesso di notte, per paghe misere (meno di 5 euro al mese): costituiscono una riserva di manodopera a basso costo funzionale alla nostra economia;

• secondo i dati della Banca d’Italia 2009 gli stipendi degli immigrati regolari sono fino a un quarto inferiori rispetto a quelli degli italiani a parità di lavoro;

• secondo il Dossier Caritas-Migrantes i lavoratori stranieri sono i più vulnerabili nei confronti dell’attuale crisi economico-finanziaria;

• gli infortuni sul lavoro coinvolgono maggiormente i lavoratori stranieri (44 casi denunciati su 1000 occupati rispetto ai 39 italiani);

• secondo i dati Istat 2005 il 60% dei diplomati stranieri e il 40% dei laureati svolge un lavoro di qualifica inferiore rispetto al proprio livello di istruzione;

• secondo i dati del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali del 2008, è preoccupante il tasso di dispersione e disagio scolastico dei minori stranieri: in media il 42,5% degli alunni stranieri non è in regola con gli studi.

Gli immigrati sono presenti nel numero dei poveri estremi e delle persone in emergenza abitativa: per alcuni la strada è un primo gradino di un percorso di risalita, ma per un numero crescente di persone di origine straniera ormai in Italia da qualche anno, che vedono i percorsi di integrazione abitativa e lavorativa minati dalla crisi, è il fondo toccato nella discesa.

“Sono famiglie che, spinte dalla miseria, dalla drammatica necessità di uscire da una vita senza prospettive, spesso abbandonano i propri paesi, vendendo quel poco che possiedono per affrontare le spese del viaggio, e si accampano in pochi metri quadrati di cantina, solaio, in casa di amici o parenti e iniziano la difficile ricerca di un posto di lavoro. […] si adattano a lavori di ripiego - a piccoli commerci quasi clandestini”76: questa descrizione potrebbe, rappresentare le

condizioni di vita di alcuni immigrati stranieri in tante città italiane e invece sono le parole usate da Franco Alasia e Danilo Montaldi per descrivere le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati del Sud Italia a Milano tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60... qualcuno77

disse allora: “volevamo delle braccia, sono arrivate delle persone”. La storia si ripete, ma imparare l’integrazione non è così facile. Crisi economica, problematiche abitative, senso di insicurezza creano paure e aumentano pregiudizi e stereotipi e la xenofobia nei confronti degli stranieri.

76 F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Milano, Feltrinelli, 1960. 77 M. Frisch, “Überfremdung”, prefazione del film “Siamo Italiani/Die Italiener”, di A.J. Seiler, 1965.

La storia dovrebbe insegnarci che chiudere gli immigrati in quartieri-ghetto, negare agli stranieri di lunga residenza e ai loro figli e nipoti il pieno riconoscimento come cittadini ed eguali diritti in merito a lavoro, casa, salute, partecipazione sociale e politica, sfruttare il lavoro degli immigrati e dare in cambio condizioni di vita al limite della sopravvivenza, schiacciare ogni speranza di cambiamento per il futuro può generare solo rassegnazione o rivolta. Possiamo trovarne un esempio nelle rivolte dei ghetti neri di Los Angeles nel 1965; M.L. King nella sua interpretazione di quegli episodi di violenza ha individuato le cause nell’isolamento dei neri, nelle precarie condizioni economiche in cui vivevano nei ghetti, nella diseguaglianza e nella disperazione: “le privazioni economiche, l’isolamento all’interno dei singoli gruppi razziali, la vita in alloggi inadeguati, e in generale la disperazione di migliaia di negri che affollano i ghetti del Nord e dell’Ovest sono il seme perfetto per dare origine a tragiche manifestazioni di violenza”78. In una società ricca, come la Los Angeles degli anni ’60, in cui il consumo era la

ragion d’essere degli individui, chi per ragioni etniche veniva escluso dal benessere e doveva lottare ogni giorno per la sopravvivenza sentiva crescere dentro di sé l’insoddisfazione e non vedendo vie d’uscita alla propria povertà, cadeva facilmente nella disperazione: “dimenticati dalla società, lusingati dalla ricchezza che li circondava, ma dalla quale li escludevano efficacissime barriere, esprimevano con azioni esterne tutta l’ostilità che provavano, per cercare un sollievo e per attrarre l’attenzione”79. La violenza per i neri dei ghetti era quindi il tentativo

estremo di farsi vedere e sentire, di vedersi riconosciuti dalla società dei bianchi che, se da un punto di vista legislativo vietava la discriminazione, nella pratica quotidiana, relegava i neri in abitazioni non degne di questo nome e nei lavori più umili.

Anche gli episodi di rivolta delle banlieues francesi del 2005 e del 2009 dovrebbero farci riflettere sul legame tra povertà e discriminazione degli stranieri. “Quanto accaduto […] nelle periferie francesi è stato in tutta fretta liquidato come evento impolitico le cui dinamiche, a seconda dei casi, andavano ricercate nel neo-comunitarismo, nel culturalismo a sfondo religioso, nella criminalità o nel gesto insensato e al contempo disperato di attori sociali vittime dell’esclusione sociale, del degrado urbano e del disagio socio-culturale”80. Nei discorsi dei

politici e degli intellettuali le banlieues sono state presentate come il concentrato del nulla sociale e culturale e i suoi abitanti come le vittime della disperazione e del neoliberismo, come emerge da questa intervista fatta da E. Quadrelli a una giovane intellettuale parigina: “dalle periferie metropolitane non giungono echi rivoluzionari, ma le voci disperate della marginalità e

78 M.L. King, op. cit., p. 297. 79 Idem, p. 298.

80 E. Quadrelli, “Militanti politici di base. Banlieuesards e politica” in M. Callari Galli (a cura di) Mappe urbane:

dell’eccedenza sociale […] un grido d’aiuto degli esclusi e degli emarginati”81. In realtà dalle

ricerche di Quadrelli e Mellino emerge un quadro molto più complesso, in cui dimensioni economiche, culturali ed etniche si intrecciano a un passato coloniale non ancora affrontato e alla volontà politica di lottare contro istituzioni segreganti e al razzismo istituzionale: “l’approccio coloniale alle questioni dell’immigrazione, della cittadinanza e dell’identità nazionale praticato dai diversi governi francesi […] sommato negli ultimi anni allo smantellamento del welfare e all’ascesa dello stato penale (Wacquant 2004) come unico modo di far fronte all’emarginazione e all’esclusione, abbia prodotto forme di segregazione economica, sociale e spaziale sempre più insopportabili anche tra i figli dei “francesi d’oltremare” […] Alle rivolte hanno partecipato anche francesi “bianchi”, esasperati da un processo di precarizzazione e di flessibilizzazione che va avanti da anni e che ha l’esclusione come unico punto d’arrivo”82.

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