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Gli anni Novanta: la ridefinizione delle strutture e delle politiche di welfare

PARTE SECONDA L’ambito dell’educazione professionale

4. l’affidamento da parte dei singoli cittadini allo Stato, della responsabilità di soddisfare i propr

4.1.3. Gli anni Novanta: la ridefinizione delle strutture e delle politiche di welfare

Per le ragioni precedentemente indicate, le esperienze di ridefinizione del welfare si sono indirizzate pian piano verso modelli di intervento che si basano sulla partecipazione degli utenti alla definizione degli interventi necessari, per perseguire il benessere e la giustizia sociale. Questa concezione dei servizi alla persona sancisce il superamento della logica dello sportello in un modello domanda-offerta mirando sempre più alle effettive esigenze della popolazione, in particolare, vi è stato un susseguirsi di tre paradigmi di intervento, ma che tutt’oggi sono utilizzati sincronicamente in alcuni casi. Si è passati in principio dal paradigma dell’assistenza, per cui l’altro è soltanto soggetto-utente di un intervento e “l’operatore è al centro della relazione, il soggetto è esterno alle decisioni che lo riguardano, le sue motivazioni e la sua intenzionalità non sono tenute in considerazione”335, è una relazione io-esso. Successivamente si è

sperimentato il paradigma dell’aiuto in cui vi è un soggetto-cliente che insieme all’operatore decide ciò che è meglio per il proprio benessere, in tal modo il soggetto è al centro di una relazione io-tu ed è considerato nella sua globalità. Per ultimo vi è il paradigma dello scambio, in cui si innesta un tipo di relazione io-io, dove c’è un soggetto-partner e “l’operatore aiuta il partner della relazione a inserirsi in una rete sociale in cui trovare risposte ai suoi bisogni ed essere risorsa per la comunità”336, è dunque uno scambio reciproco tra due

soggetti poiché entrambi sentono il bisogno dell’altro per la propria crescita personale. Gli operatori dei servizi a questo punto diventano catalizzatori di risorse e mediatori di relazioni, sono chiamati a cercare di

330 Ibidem.

331 C. Calvaruso, in Quattro mura di umanità. Convegno nazionale sul ruolo delle comunità alloggio, Torino, 27-29 settembre 1984,

Volume I, Regione Piemonte, p. 29.

332 C. Calvaruso, Il protagonismo dei poveri nelle politiche sociali. Verso un welfare community, in “Animazione Sociale”, anno

XXIV, n. 2, febbraio 1994, Gruppo Abele, Torino, p. 29.

333 Ivi, p. 30.

334 L. Pati, op. cit., p. 101.

335 P. Milani, La comunità, in “Studium Educationis” n. 2, 1999, CEDAM, Padova, p. 308. 336 Ibidem.

valutare non solo il bisogno, il problema, ma anche le disponibilità, gli altri soggetti, la rete formale e informale.

Ne deriva che nel nuovo modello di welfare debba rientrare la società nelle sua dimensione comunitaria, in cui ogni persona si senta coinvolta nell’attivazione di processi comuni. Ciò comporta la necessità di un notevole cambiamento di prospettiva da parte delle istituzioni, “teso ad assumere la società civile come interlocutore a tutti gli effetti delle politiche socio-assistenziali”337. Le strutture locali di welfare possono,

infatti, confrontarsi con le aspettative dei cittadini e rimodellare costantemente le loro risposte; “possono altresì collegarsi con le risorse e le disponibilità presenti nella comunità, sostenendo la formazione di un modello di intervento flessibile, affidato ad un reticolo di opportunità diversificate, che connetta strutture pubbliche, risorse del privato sociale, reti di solidarietà”338. La collaborazione tra pubblico e privato viene a

concretizzarsi secondo diverse modalità, come la gestione per progetti e le strategie di accreditamento, in cui l’istituzione pubblica diventa garante di un sistema di regole non rinunciando alle proprie funzioni di programmazione, controllo e valutazione.

Nella gestione per progetti non si parte da una formula precostituita, calata “dall’alto”, ma dalla corretta analisi del bisogno, dalla condivisione degli obiettivi, delle strategie e delle modalità di verifica, stimolando il coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli attori. Diviene necessario definire le responsabilità e i processi organizzativi attuando modalità di comunicazione autentiche tra i diversi protagonisti e prevedendo la verifica (misurazione quantitativa dell’efficacia e dell’efficienza, cioè il rapporto risultati/obiettivi l’uno e il rapporto risultati/risorse l’altro) e la valutazione (giudizio sui dati che emergono dalla verifica) preliminare, in itinere e finale.

“L’accreditamento è il processo per mezzo del quale un organismo “autorevole” valuta e riconosce formalmente che un organizzazione, o una persona, è capace di svolgere determinati compiti”339:

l’accreditamento istituzionale è il modello scelto in Italia, sia per i servizi sanitari che per quelli sociali ed i requisiti sono fissati dalle regioni, dalle province autonome e sono aggiuntivi rispetto a quelli minimi richiesti per l’autorizzazione al funzionamento. I soggetti accreditati sono quindi dei potenziali erogatori, e solo dopo la stipula di eventuali accordi contrattuali possono di fatto erogare prestazioni. Al contempo, le organizzazioni del privato sociale “debbono garantire l’effettiva assunzione di quei compiti di rappresentanza degli interessi diffusi, che va oltre la propria singola esperienza e passa anche attraverso la capacità di auto-coordinamento e di raccordo con le realtà informali del territorio”340. Pertanto, l’obiettivo comune dovrebbe essere per entrambi la rappresentanza dei diritti e delle istanze dei cittadini.

Risultato delle prospettive appena descritte è la realizzazione del cosiddetto welfare mix, che presuppone un concetto di servizio sociale come dispositivo di rete, all’interno del quale i diversi attori operano in assoluta parità di funzioni, diritti e doveri.

Il verificarsi di questo processo viene definito ad esempio da Calvaruso, come la realizzazione di un

welfare community, di una comunità del benessere, “dove il mix più importante e determinante per un

effettivo cambio di modello riguardi le istituzioni e la società civile attraverso una loro integrazione costante nel fornire risposte ai bisogni sociali”341. Conseguenza di tutto questo ad esempio, è il fatto che “per l’ente

locale rilevare e soddisfare i bisogni dei soggetti-gruppi in condizione di disagio vuol dire superare la logica di una politica dei servizi sociali fondata sullo sterile intervento economico-assistenziale, a pro dell’ampliamento del proprio raggio percettivo e organizzativo, nella prospettiva del perseguimento di traguardi squisitamente axiologici. [E’ necessario quindi] l’adeguamento degli interventi alle caratteristiche esistenziali degli utenti, la professionalità degli operatori e degli enti che erogano il servizio sociale, il raccordo tra l’andamento del contesto ambiente e la vita del cittadino, la partecipazione alla gestione della cosa pubblica e alla programmazione delle diverse politiche di settore”342.

Le proposte di legge presentate alla Commissione affari sociali della Camera dei Deputati, durante l’iter parlamentare, iniziato nel 1997, che hanno portato all’approvazione della legge n. 328 del 2000 (Legge

quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) riflettono le prospettive sopra

descritte.

337 C. Calvaruso, op. cit., p. 12.

338 CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE ED ANALISI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA, op. cit., p.

231.

339 C. Favaretti, P. De Pieri, L’accreditamento dei servizi: note terminologiche, in “Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone”,

anno II, n. 5-6, settembre-dicembre 2001, p. 101.

340 M. Merana, Garanzie reciproche tra terzo settore ed enti locali, in “Animazione sociale”, anno XXVII, n. 12, dicembre 1997,

Gruppo Abele, Torino, p. 24.

341 C. Calvaruso, op. cit., p. 13. 342 L. Pati, op. cit., p. 102.

Gli aspetti fondamentali emersi durante il dibattito parlamentare sono stati il raggiungimento di un’equità nell’accesso ai servizi; la suddivisione della programmazione delle politiche sociali a livello nazionale, regionale e locale; la collaborazione tra soggetti pubblici e privati per la realizzazione della rete integrata degli interventi sociali.

Il primo punto riguardante l’equità nell’accesso ai servizi, lo si può ritrovare all’articolo 1 primo comma della legge n. 328/2000, il quale fissa i principi generali disponendo che «La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito ,difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione».

Il testo appena citato richiama alcuni principi fondamentali della Carta Costituzionale, nello specifico, alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (art. 2) e al principio di eguaglianza (formale e sostanziale) sancito all’art. 3. Proprio in riferimento al principio dell’eguaglianza sostanziale, vi è il richiamo all’art. 38 della Costituzione in cui si afferma al primo comma che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Ancor prima di affrontare i due aspetti riguardanti il principio della sussidiarietà343 sopra elencati, è

fondamentale definirne l’orientamento generale, cioè essa può essere intesa come l’applicazione del criterio della solidarietà ai rapporti fra le istituzioni e fra le formazioni che agiscono nella società. La sussidiarietà dà quindi importanza al livello istituzionale o sociale più basso, più vicino al cittadino, capovolgendo in tal modo la prassi finora più diffusa che vedeva lo Stato quale detentore e talvolta distributore di compiti alle istituzioni subordinate. La responsabilizzazione delle istituzioni più vicine al cittadino si realizza però, non soltanto con la devoluzione di funzioni e compiti da parte dello Stato ma anche con la capacità delle stesse di finanziarsi autonomamente, ricevendo dalle istituzioni centrali solidarietà economica se non riuscissero a raggiungere da sole gli obiettivi prefissatesi.

Al secondo dei punti elencati precedentemente, viene enunciato il principio di sussidiarietà verticale, recepito nell’articolo 1 terzo comma della legge quadro: «La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali compete agli enti locali, alle Regioni e allo Stato….secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione,….autonomia organizzativa e regolamentare degli Enti locali». Questo si fonda “sull’idea secondo cui ciò che di regola e per competenza l’Ente (o l’organo) inferiore è in grado di fare da sé, spetti all’Ente (o l’organo) superiore solo in via eccezionale”344. Tale principio è stato ispiratore dei

provvedimenti legislativi di riorganizzazione delle competenze tra Stato, Regioni e Enti locali, come la legge n. 59 del 1997 detta del «federalismo amministrativo» e il decreto legislativo n. 112 del 1998, sul conferimento di funzioni e competenze amministrative dello Stato alle Regioni e agli Enti locali.

Infine, il terzo punto riguarda il principio di sussidiarietà orizzontale, che determina le competenze a livello della comunità locale tra soggetti pubblici e privati. Lo si ritrova infatti agli artt. 4 e 5 della legge quadro: «Gli Enti Locali, le Regioni e lo Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione [...] delle organizzazioni di volontariato, con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese operanti nel settore, nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali»; «Alla gestione e all’offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici nonché» soggetti privati previsti dalla legge quadro. Secondo tale principio lo Stato non deve sostituirsi all’iniziativa delle persone e delle società intermedie negli ambiti in cui esse possono agire autonomamente, tutto questo per non limitare la manifestazione della loro libertà.

Secondo Fortunato Rao, quest’ultimo principio riguardante il rapporto pubblico-privato, è stato applicato in «modo attenuato», in quanto “la gestione e l’offerta dei servizi appartiene ai soggetti pubblici”345, mentre i

soggetti privati intervengono nel momento della progettazione dei servizi e nella realizzazione concordata degli interventi.

343 Alcune pubblicazioni riguardanti il principio della sussidiarietà sono: P. Ferrari Da Passano, Il principio di sussidiarietà, in “La

civiltà cattolica”, 20 giugno 1998; C. Cattaneo (a cura di), Terzo settore nuova statualità e solidarietà sociale, Giuffrè Editore, Milano, 2001; G. Vittadini, Sussidiarietà: la riforma possibile, ETAS Libri, Milano, 1998; P. De Pasquale, Il principio di

sussidiarietà nella Comunità europea, Edit. Scientifica, Napoli, 2000. 344 F. Rao, op. cit., p. 74.

In realtà oggi è in costante aumento la richiesta da parte dei soggetti privati, in particolare il terzo settore (ONLUS, associazioni cooperative, fondazioni, organizzazioni di volontariato), di avere la possibilità di intervenire nella gestione dei servizi pubblici “in forza della legittimazione loro conferita dal ruolo e dalla capacità di rappresentare le istanze sociali, di cogliere i bisogni emergenti”346, di costituire rapporti diretti

con i diversi soggetti della comunità locale.

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