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PARTE SECONDA L’ambito dell’educazione professionale

4. l’affidamento da parte dei singoli cittadini allo Stato, della responsabilità di soddisfare i propr

4.3. Il quadro legislativo nazionale

4.3.1. Gli anni Ottanta: il riconoscimento legislativo della comunità come luogo di sostegno educativo

365 G. Bortolotti, op. cit., p. 14.

In Italia il primo riferimento esplicito, in ambito legislativo, alle comunità compare nella legge n. 184 del 4 maggio 1983, “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”.

In essa viene innanzitutto affermato il principio del diritto del minore ad essere educato nella propria

famiglia , riconoscendo il ruolo insostituibile delle relazioni familiari come risorsa base per la maturazione

della personalità del bambino e “indicando quindi, come prioritari gli interventi a sostegno dei genitori naturali e l’utilizzo dello strumento dell’affidamento familiare come valida alternativa all’istituzionalizzazione, relegata ormai a costituire una soluzione residuale”367.

In particolare all’art. 2 si afferma che «il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori o ad una persona singola o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione». Nel presente articolo si riconosce dunque, che l’affido familiare non può essere una risposta applicabile a tutte le diverse realtà individuali, sottolineando l’esigenza di avere a disposizione per il minore in difficoltà “una pluralità di risorse, una rete di disponibilità con connotazioni e capacità diverse, per essere pronti ad offrire la risposta giusta al momento giusto”368.

All’art. 5 della stessa legge viene citato anche il caso di minori ospitati presso una comunità alloggio, senza caratterizzarla però specificatamente rispetto alla precedente (comunità di tipo familiare). E’ proprio intorno a queste definizioni terminologiche che si è sviluppata la discussione negli anni successivi alla legge. In particolare si sono aperti due ordini di problemi: il primo riguarda “l’indeterminatezza” delle strutture alle quali ci si riferisce. Questo “ha permesso il fiorire di una moltitudine di esperienze estremamente diversificate, tanto da porre il dubbio che potessero essere tutte accolte sotto un’unica definizione”369.

Sarebbe necessario quindi pervenire a una definizione univoca che consenta prassi omogenee, chiarendo se la denominazione “comunità familiare” rimandi necessariamente alla presenza all’interno della struttura, di una famiglia convivente a tempo pieno, o si intenda invece “riferirsi semplicemente alle piccole dimensioni della struttura e al tipo di relazioni che si instaurano al suo interno”370.

Il secondo problema aperto dalla suddetta legge riguarda la gerarchizzazione delle scelte, ovvero quale scelta di affidamento (a una famiglia, singolo o comunità) debbano prediligere i giudici. L’interpretazione di questo aspetto infatti non è univoca da parte di molti di quest’ultimi,

“alcuni ritengono che la legge indichi la necessità di favorire il più possibile la risposta della famiglia affidataria, altri invece, considerano le diverse opzioni come una matrice all’interno della quale fare la scelta più adeguata per quel minore in quel momento”371.

Si evince quindi, che la scelta dipende principalmente dalla valutazione personale del giudice chiamato a sentenziare sul caso concreto.

Il secondo riferimento alle comunità in ambito nazionale lo possiamo ritrovare nel D.P.R. n. 448 del 22 settembre 1988 riguardante le “Nuove disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni” e nel successivo Decreto .Legislativo n. 272 del 28 luglio 1989 sulle norme di attuazione e di coordinamento. Per la prima volta sono riportate, all’interno di provvedimenti legislativi nazionali, alcune caratteristiche che si ritengono proprie delle comunità: organizzazione di tipo familiare; capienza massima di 10 unità; attuazione di progetti educativi individualizzati; clima educativo significativo per la crescita armonica del ragazzo; presenza di educatori professionali; utilizzazione delle risorse del territorio.

In questa prospettiva si passa dal “punire il giovane deviante per difendere la società dai suoi comportamenti, all’affidarlo alla comunità cui appartiene, perché lo accolga e possa dare una risposta effettiva al suo diritto all’educazione e all’integrazione sociale”372, compiendo in tal modo un salto di qualità,

sintesi di un percorso evolutivo di valori, atteggiamenti, approcci alla devianza minorile.

La particolare condizione del minore, come soggetto in via di formazione, ha fatto balzare in primo piano le esigenze di risocializzazione rispetto a quelle di punizione. Tale orientamento ha ricevuto un’autorevole conferma nella sentenza n. 168 del 1994 della Corte Costituzionale, “la quale sottolinea la necessità di un sistema punitivo per il minore che risulti diversificato, evidenziando come la possibilità di irrogare la pena perpetua al minorenne, contrasti con le esigenze di recupero necessarie per ogni condannato

367 Ibidem.

368 G. Bortolotti, op. cit., pag. 14.

369 G. Barbanotti, P. Iacobino, op. cit., pag. 18.

370 C.N.C.A., Dagli istituti alle comunità: la scoperta dei nuovi bisogni dei bambini a rischio di allontanamento, in “Minori

Giustizia”, n. 1, 1997, Franco Angeli, Milano, p. 73.

371 Ibidem.

372 C. Girelli, M. Achille, op. cit., pag. 34.

ed ancor di più per un soggetto in evoluzione”373. Diventa chiaro inoltre, in questi due provvedimenti il

richiamo a un forte rapporto tra il sistema giudiziario e il sistema locale, come sottolineato nell’art. 10 del Decreto Legislativo n. 272 del 1989 (Norme di attuazione e di coordinamento del decreto n. 448 del 1998), il quale dispone che i centri per la giustizia minorile stipulino convenzioni con comunità pubbliche, private, associazioni e cooperative riconosciute o autorizzate dalla regione.

E’ importante precisare che queste iniziative, legate al progetto del Ministero di Grazia e Giustizia di utilizzare le comunità esistenti come risorse per il reinserimento dei minori sottoposti a procedimenti penali, hanno permesso la nascita di comunità in alcune regioni d’Italia dove era molto limitata la loro presenza.

4.3.2. Gli anni Novanta: da una nuova cultura dell’infanzia una nuova cultura delle istituzioni educative

A questo sviluppo ha contribuito anche la legge n. 216 del 19 luglio 1991, relativa alla prevenzione e al recupero dei minori coinvolti in attività criminose. Essa prevede all’art. 1 «comunità di accoglienza per minori per i quali si è reso necessario l’allontanamento temporaneo dal nucleo familiare» senza però precisarne le caratteristiche.

Quest’ultima legge inoltre sottolinea un fatto non secondario, secondo cui “le comunità possono essere uno strumento non solo per la tutela, ma anche per la prevenzione della devianza minorile”374.

Nello stesso anno assume rilievo l’introduzione nel nostro ordinamento della Convenzione dell’O.N.U.

sui diritti dell’infanzia, approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con la legge n. 179

del 27 maggio 1991. Il documento contiene un precisa individuazione dei diritti dei soggetti in età evolutiva, dando i termini di riferimento per verificare se i suddetti diritti siano accolti dal nostro ordinamento e se esistano le condizioni concrete affinché il bambino ne possa godere. La Convenzione, negli articoli 2-3-4, sancisce l’esclusione di ogni forma di discriminazione, il rispetto dell’interesse superiore del minore in ogni decisione di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale e l’impegno da parte degli Stati firmatari di adottare tutti i provvedimenti legislativi o amministrativi per attuare i diritti riconosciuti nella stessa.

“L’indeterminatezza” precedentemente citata si può ritrovare anche nel provvedimento del 13 luglio 1995 intitolato «Documento di linee guida per la realizzazione di interventi urgenti a favore della

popolazione minorile» a cura della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le

Provincie autonome. Il testo esprime “preoccupazione per gli episodi, ancora frequenti, di scarsa tutela dei bambini, che rendono urgente il rilancio di politiche «rispettose delle esigenze dell’infanzia e dell’adolescenza e attente alle condizioni delle famiglie»”375. Le linee guida insistono su un approccio

progettuale che rispetti le priorità previste dalla legge 184/83; sul potenziamento e l’integrazione degli interventi per risanare il tessuto educativo, culturale e sociale in cui vivono il minore e la sua famiglia; sulle azioni tese a favorire il ricorso all’affidamento familiare; sulla corretta attuazione della normativa sull’adozione; sulla riorganizzazione delle strutture di accoglienza per i minori in difficoltà.

Nel documento si esprime “l’esigenza di definire standard di funzionamento delle istituzioni di accoglienza e di promuovere le comunità di tipo familiare. Manca però, ogni riferimento a tipologie, relativamente alle quali costruire questi standard, che permettano di individuare cosa si intenda con i termini di cui sopra”376.

Altra legge di fondamentale importanza è la legge n. 285 del 28 agosto 1997 «Disposizioni per la

promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza» che “tende a realizzare condizioni di

vita più favorevoli per i minori mobilitando e valorizzando, attraverso il ruolo di programmazione delle Regioni e di formazione dei piani territoriali da parte degli enti locali, le risorse presenti nella comunità a tutti i livelli nella piena realizzazione di una logica di «rete» del lavoro sociale”377.

Si tratta di una legge “molto concreta, che mette a disposizione risorse per l’infanzia e chiama in causa gli enti locali e gli operatori”378, definendo precise finalità. La legge coinvolge la comunità locale in tutte le

sue articolazioni (Asl, tribunale dei minori, le organizzazioni no-profit e tutti coloro che hanno competenze

374 G. Barbanotti, P. Iacobino, op. cit., pag. 19.

375 CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE ED ANALISI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA, op. cit., p.

236.

376 L. Tosco, op. cit., pp. 20-21. 377 Ibidem.

378 L. Turco, Politiche per l’infanzia e l’adolescenza e riforma del Welfare, in “Prospettive sociali e sanitarie”, anno XXVII, n. 18-

nella materia ) nella fase di progettazione attraverso accordi di programma e a livello nazionale riconosce una funzione di indirizzo, di coordinamento, di verifica della qualità e di sostegno nella progettazione.

Per quanto riguarda gli istituti per minori la legge n. 285/97 favorisce la deistituzionalizzazione, non solo mediante il finanziamento degli interventi che sostengono la relazione genitori-figli e che contrastano la povertà e la violenza ma, promuovendo azioni di sostegno alla dimensione educativa della vita delle comunità locali, attraverso il riconoscimento dell’azione di quanti favoriscono questo aspetto.

Le legge all’art. 4 prevede «l’accoglienza temporanea di minori anche sieropositivi e portatori di handicap fisico, psichico e sensoriale, in piccole comunità educativo-riabilitative» proponendo dunque “le comunità come strumenti per il superamento del ricorso all’istituto ma, anche qui, mancano elementi che contribuiscano a determinare le caratteristiche di una comunità”379. Si crea quindi il paradosso secondo il

quale “nel momento in cui tutti riconoscono la funzione e l’utilità delle comunità, non ci sono i parametri per definirne le caratteristiche e le specificità”380.

In questo quadro spetta alle Regioni individuare con maggior precisione cosa si intenda per comunità per minori, derivandone quindi una certa differenziazione anche terminologica da regione a regione.

Quasi tutte le Regioni infatti hanno legiferato su questa materia indicando requisiti specifici in ordine alla struttura e al funzionamento delle comunità. In questa sede faremo esplicito riferimento ai provvedimenti emanati dalla Regione Veneto.

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