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PARTE SECONDA L’ambito dell’educazione professionale

3. Istituzioni educative per minori ed educatori professionali: uno sguardo storico (Alice Zorzan)

3.3. La svolta della legge 184/

Come si è avuto modo di vedere, gli anni ’70 e ’80 sono stati particolarmente ricchi di elaborazioni sul tema della tutela all’infanzia, a partire dal riconoscimento dei danni dell’istituzionalizzazione sullo sviluppo dell’individuo, e contraddistinti dall’avvio della sperimentazione di soluzioni alternative. Nell’ambito del dibattito sui servizi di comunità, inizia ad approfondirsi la riflessione su altre forme di accoglienza a favore di minori in stato di abbandono o di disagio familiare, aprendosi la strada alle possibilità concrete di praticare sempre di più l’istituzione dell’affido.

L’affidamento familiare a scopo educativo si pone come espressione di tutela del bisogno-diritto fondamentale del minore, riconosciuto dalla nostra legislazione, di crescere in un ambiente familiare e quando non sia rispettabile il suo prioritario diritto a vivere nella sua famiglia d’origine, esso si offre sotto l’impronta della comunità per quanti siano temporaneamente o definitivamente privi della propria famiglia, ponendosi come integrazione e non come sostituzione di quest’ultima.

3.3.1. I presupposti culturali e politici

Questa legge ha costituito per la legislazione italiana una svolta radicale. In effetti maggiori elementi di novità derivano dalle consapevolezze accumulate dagli operatori del settore nel periodo 1967/1982, quando si fece sempre più strada il riconoscimento dell’inadeguatezza del solo istituto dell’adozione per risolvere tutte le situazioni di più acuto disagio minorile.

In particolare fu riconosciuto il fatto che il distacco del minore dall’ambiente d’origine è utile soltanto in casi estremi, mentre in tutti gli altri casi risulta più opportuno risolvere i problemi all’interno del nucleo familiare d’origine. Di qui la necessità di assumere provvedimenti che avessero efficacia limitata nel tempo e orientati al conseguimento di obiettivi determinati.

Vi erano, infine, alcune consapevolezze radicate nell’esperienza degli operatori sociali: soprattutto, appariva estremamente problematico definire in senso assoluto e definitivo lo stato d’abbandono del minore, con la conseguente assunzione di provvedimenti irrevocabili quali l’adozione. Per questo motivo gli istituti erano, all’epoca dell’entrata in vigore della legge, pieni di minori in stato di semi-abbandono, dovuto a situazioni contingenti, quali la carcerazione dei genitori, loro problemi economici o di salute, emigrazione, ecc. e per questi casi era evidentemente improponibile l’assunzione di provvedimenti d’adozione. Si richiedeva, dunque, la definizione di un nuovo modello di intervento, ancora sconosciuto alla legislazione italiana.

Fu così introdotto, nella nuova legge sulle forme di protezione dei minori in difficoltà o abbandonati, l’istituto dell’affidamento, che rispondeva alle esigenze di quei casi nei quali le difficoltà che ostacolavano lo svolgimento normale della vita familiare e la crescita serena dei minori fossero soltanto temporanee e si potesse prevedere un loro superamento. Questo nuovo istituto, che viene ad affiancare quello dell’adozione, è stato formulato in modo da corrispondere ai principi fissati dalla Costituzione per la tutela dei diritti del minore.

3.3.2. Il contenuto della legge

La legge ha una sua struttura già di per sé significativa: essa è infatti divisa in tre parti, la prima delle quali è proprio quella dedicata all'affidamento292 ; le due parti successive trattano delle varie forme di adozione e di norme transitorie di raccordo con il resto della legislazione vigente.

Sul piano giuridico si distinguono due tipi fondamentali di affidamento: a) quello pre-adottivo (sul quale non entreremo in merito), ossia una misura transitoria in vista e in funzione di una successiva adozione e b)

quello temporaneo (a famiglie, oppure a singole persone, o a comunità di tipo “familiare” o a istituti) di minori “privi di un ambiente familiare idoneo”.

Il riconoscimento dello stato di inidoneità dell’ambiente familiare deve avvenire attraverso la ricognizione da parte del servizio sociale e possono verificarsi due possibilità: a) che la famiglia acconsenta alla dichiarazione di idoneità (affido consensuale) e in questo caso si procede per via amministrativa dove l’affidamento per diventare esecutivo viene sancito dal giudice tutelare o b) che la famiglia non acconsenta (affido giudiziale) e in questo caso provvede il Tribunale dei minori. In entrambi i casi è implicato comunque un investimento sulle risorse positive della famiglia d’origine293 (come del resto avremo modo di vedere nei

prossimi capitoli) che rimane un punto fondamentale su cui portare avanti un progetto globale per il benessere del minore.

L’elemento essenziale dell’affidamento è quindi la sua temporaneità. Il provvedimento viene infatti preso per rimuovere le cause dell’inadeguatezza dell’ambiente familiare e limitatamente al periodo in cui questa perduri.

La prima affermazione contenuta nella L. 184 è che “il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della propria famiglia”. Questa affermazione costituisce una novità perché per la prima volta l’accento non viene posto sulle responsabilità dei genitori ma sui diritti degli stessi minori ad avere un ambiente familiare idoneo.294 Ne consegue che l’intervento limitativo delle potestà genitoriali può essere giustificato soltanto in

casi estremi, di comprovata inidoneità.

L’affidamento può essere applicato a qualsiasi minore, neonato o quasi diciottenne.295

In generale, quindi, l’affidamento viene applicato a quei casi nei quali non si possano attuare i diritti del bambino e la privazione dell’ambiente familiare non si possa considerare definitiva.

I provvedimenti emanati devono contenere l’indicazione dei motivi per cui sono stati presi e delle modalità d’attuazione (compresa la durata del tempo). In particolare la legge prescrive che nel momento in cui vengano a cessare le cause che hanno determinato il provvedimento, il minore faccia ritorno in famiglia.

3.3.3. Gli affidatari

Per quanto riguarda in dettaglio i presupposti previsti dalla legge per l’affidamento, l’art.2, comma 1 dispone: “Il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurarne il mantenimento, l’educazione e l’istruzione”. Nel caso in cui non si riuscisse a reperire uno dei soggetti affidatari sopra menzionati, il secondo comma precisa che “(…) è consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza pubblico o privato, da realizzarsi di preferenza nell’ambito della regione di residenza del minore.”

La legge elenca queste possibili soluzioni con l’intento di stabilire un chiaro ordine di preferenza che privilegia le soluzioni di tipo familiare rispetto a quelle di tipo comunitario. La misura dell’affido, data la sua funzione di ovviare a problemi che turbano lo sviluppo equilibrato della persona, si attua nel migliore dei modi quando si offre al bambino un ambiente di vita familiare.

L’accoglienza dei minori in affido da parte di “comunità di tipo familiare” appare posta in secondo piano e presa in considerazione soltanto nei casi in cui non sia possibile provvedere all’affidamento presso famiglie.

I requisiti richiesti alle comunità sono piuttosto generici: la loro precisazione spetterebbe alle istituzioni locali. In effetti, in questo campo vi sono state numerose e preoccupanti oscillazioni da regione a regione, seguendo la logica dell’accettazione dell’esistente pur di realizzare le misure d’affidamento necessarie.296

Genericamente la legge lascia intuire che le comunità di tipo familiare, debbano essere luoghi nei quali adulti e minori convivono come in una famiglia, con una divisione di ruoli ed una distribuzione di cure ed affetti ispirata alla vita familiare, ma non si precisano né i ruoli degli adulti, né le dimensioni numeriche delle comunità, per le quali si auspica un numero ridotto (sotto le dieci unità) di ospiti.

Il ricovero in istituto viene considerato dalla legge come l’ultima spiaggia; in effetti nella maggior parte delle regioni italiane oggi esistono varie alternative valide che, nello spirito della legge, permettono di evitare questa soluzione; tuttavia la carenza di un numero sufficiente di famiglie affidatarie e di comunità di tipo

293 G. Gabrielli (a cura di), Luoghi comuni, crescere in comunità, Comunità Edizioni, Ascoli Piceno, 1999, p. 117. 294 Innovativo è anche il fatto che da questa legge siano scomparse tutte le distinzioni tra figli legittimi e naturali.

295 E’ stata sottolineata la preoccupazione derivante dall’assunzione di provvedimenti di affido precoci. Si preferisce procedere

all’affidamento dei bambini di pochi mesi di vita soltanto in casi gravissimi, vista la difficoltà di questi bambini a distinguere i ruoli delle “due” famiglie di intervento.

familiare impedisce ancora la definitiva scomparsa degli istituti tradizionali. In più a questo proposito emerge un problema di non poco conto: spesso, infatti, la famiglia d’origine non riesce a tollerare la possibile conflittualità e concorrenza con un’altra famiglia. Come conseguenza di ciò gli operatori competenti rilevano che è più facile ottenere il consenso del nucleo di appartenenza per il ricovero in una struttura residenziale a carattere educativo piuttosto che l’accettazione dell’appoggio di un’altra famiglia, seppur temporaneamente, a causa del timore di subire un esproprio delle proprie funzioni genitoriali peraltro considerate come provvisoriamente non funzionali e non sufficienti.297

Per quanto riguarda le comunità, ossia la seconda soluzione riportata dalla legge, che tra l’altro è quella che ci interessa ai fini di questo studio, la L. 184 parla di “comunità-alloggio” e “istituti”. In effetti le tipologie appaiono piuttosto vaghe. Sono entrate in uso altre espressioni quali “casa-famiglia” e “comunità educativo-residenziale”. Il criterio forse più corretto è quello di distinguere le strutture d’affido in tre tipi: a) le case-famiglia propriamente intese, in cui famiglie naturali e minori loro affidati vivono insieme; b) le comunità-alloggio di piccole dimensioni, con pochi minori affidati alle cure di operatori qualificati; c) gli istituti residenziali di grandi dimensioni, con decine di ospiti, che nonostante rappresentino l’ extrema ratio sono ancora presenti anche nel nostro Paese.

Il modello che da questo momento in poi verrà preso in considerazione è appunto quello della casa- famiglia (chiamata così anche nel contesto ecuadoriano, sebbene i minori non vivano in una famiglia naturale bensì in una comunità-alloggio, visto la terminologia appena assunta).

Il ricorso all’affido permette dunque al bambino di far parte di due famiglie, quella di origine e quella affidataria: quest’ultima si occupa di lui e favorisce i suoi rapporti con la prima.

L’affido può essere la risposta più adatta anche quando ci si trova di fronte a un bambino che non è abbandonato, ma che proprio all’interno della sua famiglia sperimenta inadeguatezza e trascuratezza, misconoscimento, sopraffazione, relazioni distorte. Se nella sua famiglia la situazione è così difficile da rendere opportuno il suo allontanamento, nella famiglia affidataria o in comunità il bambino può trovare risposta ai suoi bisogni di accudimento e di educazione, di relazioni personali stabili e affettuose, tutto ciò mentre mantiene rapporti con i suoi familiari, attraverso adeguati interventi di sostegno.

Come si può chiaramente immaginare il ricorso all’affido non è sempre facile anche perché le famiglie affidatarie sono numericamente poche e spesso non sono adeguatamente formate e preparate. Le comunità d’accoglienza nascono così per rispondere alle situazioni di disagio familiare, in cui non è possibile ricorrere a soluzioni più a misura di bambino quali l’affido familiare o altri interventi di tipo domiciliare. Per questo motivo il dibattito sull’inadeguatezza degli istituti educativi e delle comunità è ancora aperto e già molto si è detto per sottolineare come neppure le comunità costituiscano l’ambito più idoneo per la crescita di un bambino, soprattutto se il bambino accolto è molto piccolo.298

Malgrado tutto questo le comunità di accoglienza restano uno strumento necessario per rispondere ai bisogni di tanti bambini e ragazzi in difficoltà, ma quello che conta in maniera ancora più determinante è la presenza, all’interno di tali strutture, di educatori professionali, che oggi, dopo anni di incertezze e confini non definiti hanno la consapevolezza della presa in carico del minore, del suo sviluppo fisico e morale, delle sue problematiche rispetto al passato e delle sue potenziali speranze verso il futuro.

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