PARTE SECONDA L’ambito dell’educazione professionale
3. Istituzioni educative per minori ed educatori professionali: uno sguardo storico (Alice Zorzan)
3.1. Lineamenti storici dell’assistenza all’infanzia in Italia
3.1.1. Nascita e sviluppo dell’assistenza extra – familiare all’infanzia
Il fenomeno dei minori in stato di abbandono si può considerare come la forma estrema che assume il disagio giovanile. Nel nostro Paese, per risolvere, o almeno per tentare una soluzione dei problemi gravissimi dei ragazzi che si trovano in questa condizione, è stato predisposto l’istituto giuridico dell’affidamento, una misura temporanea e rinnovabile che pone il minore privo di un ambiente familiare idoneo, sotto la tutela di un affidatario, che può essere una famiglia o una comunità apposita.
L’affidamento in Italia è stato notevolmente potenziato da alcune disposizioni legislative emanate negli anni Ottanta, in sintonia con una serie di documenti e raccomandazioni elaborati dalle organizzazioni internazionali in tema di diritto minorile e di protezione all’infanzia.
In ogni caso, le prime iniziative sistematiche di assistenza all’infanzia attraverso la fondazione di istituti per il ricovero e la cura dei bambini abbandonati risalgono al secolo XVIII e la loro diffusione su larga scala al secolo scorso. Prima di questo periodo sono documentate soltanto attività assistenziali svolte nei conventi e concepite quasi esclusivamente in vista del mantenimento in vita dei bambini abbandonati.
Tra le cause della lentezza dello sviluppo di attività assistenziali per minori si possono probabilmente annoverare, da un lato, la presenza della famiglia allargata che a suo modo costituiva una forma di solidarietà sociale e, dall’altro, l’accettazione della morte di bambini malnutriti o abbandonati dopo la nascita come fatto comune e frequente. La presa di coscienza del problema dell’infanzia si può quindi datare alla prima rivoluzione industriale, quando masse consistenti di abitanti delle campagne si spostarono nelle città. Il fenomeno provocò lo sradicamento di intere famiglie e condizioni di vita disumane per gran parte degli abitanti dei nuovi quartieri operai.
Per ovviare a questi problemi furono fondati i primi grandi istituti per orfani ed “esposti”, nei quali si concentravano migliaia di bambini derelitti.284 Progressivamente si raggiunse anche una più viva
consapevolezza dell’esigenza di fornire a questi bambini non soltanto cure materiali, del resto spesso carenti, ma anche un ambiente affettivamente significativo. All’inizio del ‘900 cominciò quindi a farsi strada una concezione dell’assistenza all’infanzia che teneva in conto, almeno teoricamente, delle esigenze di sviluppo del bambino e non più soltanto quelle della mera sopravvivenza fisica.
La progressiva disintegrazione della famiglia allargata e lo sviluppo di consistenti fenomeni migratori legati all’industrializzazione provocarono una ristrutturazione del sistema assistenziale per l’infanzia e l’adolescenza. La mancanza di punti di riferimento al di fuori della famiglia “nucleare” nelle grandi metropoli industriali provocò la nascita di una rete di grandi dimensioni anche su iniziativa Statale oltre che di ordini religiosi.
In Italia le prime norme concernenti il “trasferimento” di minori dalla famiglia di sangue ad un’altra famiglia risalgono al codice civile del 1865, successivamente modificate nel periodo fascista con il codice civile del 1942 e, prima ancora, con la legislazione che regolamentava gli enti educativo-assistenziali. Al di là dei fortissimi limiti che questi provvedimenti dimostrarono, occorre sottolineare che introdussero un nuovo principio nella legislazione italiana sui minori: il diritto del bambino a crescere in un ambiente familiare idoneo.
Le strutture che accolgono minori in difficoltà attualmente operanti risentono, anche quelle più recenti, dell’evoluzione storica del sistema dei servizi sociali rivolti all’emarginazione minorile e all’infanzia abbandonata. Sul piano normativo e delle consuetudini sociali, occorre ricordare che nel nostro Paese esiste una tradizione secolare di opere per la “protezione” dell’infanzia, specialmente nel settore delle opere assistenziali cattoliche.
Schematicamente si può dire che nel corso della storia si è passati dal concetto della “beneficenza” come elemosina a quello della “assistenza” come predisposizione di strutture per il sostentamento minimo dei bambini, per giungere solo in ultimo e parzialmente ad un’idea dell’intervento sociale con valenze non più solo assistenziali, ma anche di sviluppo delle potenzialità personali.
Allo stesso modo, secondo l’analisi di C. Girelli si può dire che l’evoluzione delle risposte ai bisogni dei minori in difficoltà nel nostro Paese può essere letta attraverso due linee di tendenza che s’intersecano:
- dall’assistenza all’educazione; - dallo Stato agli enti locali.285
Naturalmente in questi passaggi, che hanno coperto un lungo tratto di tempo, anche le figure professionali di affiancamento a questi minori variavano dipendentemente dal periodo storico di riferimento e dal clima culturale predominante.
3.1.2. I modelli dell’intervento assistenziale ed educativo cattolico
Da molti secoli la Chiesa cattolica ha investito cospicue energie in attività assistenziali ed educative per la gioventù, tanto che il complesso delle opere assistenziali cattoliche ha assunto in Italia dimensioni molto ampie da coprire il settore dei “servizi sociali”. Infatti, il risveglio della sensibilità verso i poveri e gli abbandonati e il formarsi della consapevolezza della necessità di una risposta comunitaria alle problematiche dell’emarginazione sociale si può far risalire alla diffusione del Cristianesimo in Europa. Più precisamente si deve osservare che alla Chiesa furono delegate da parte dei poteri politici, a partire dal Medioevo e per tutta l’età moderna, le funzioni di assistenza sociale, di cura delle forme di disagio, di copertura delle esigenze minime di sopravvivenza delle categorie sociali emarginate.
Ad occuparsi di minori erano dunque ecclesiastici, uomini di Chiesa. Per esempio le grandi abbazie benedettine svolsero un ruolo di assistenza ai poveri anche attraverso l’assorbimento delle forze di lavoro in attività economiche; analoghe funzioni furono svolte dagli Ordini mendicanti nelle città a partire dal XIII secolo. È infatti nei contesti urbani di quel periodo che si svilupparono le prime attività sistematiche di ricovero e assistenza per l’infanzia.286
Lo sviluppo delle città e il mutato panorama religioso e culturale dell’Europa moderna contribuì, dal Cinquecento, al sorgere di congregazioni religiose dedite specificamente all’educazione e al lavoro con la gioventù povera. È il caso dei Padri Filippini ma anche di altri Ordini e Congregazioni quali i Fratelli delle Scuole Cristiane, i Barnabiti, i Teatini, ecc. Dopo la Riforma Cattolica l’Ordine dei Frati Cappuccini fondò numerosi ospedali, orfanotrofi e ricoveri di vario genere assumendo un ruolo significativo nelle opere di assistenza all’infanzia.
Nel XVII secolo un movimento essenziale fu quello di S. Vincenzo de’ Paoli che si caratterizzò per la sistematicità e programmaticità dell’intervento ma soprattutto perché vi fu un coinvolgimento diretto del laicato come soggetto attivo; appaiono quindi sulla scena, in un certo senso, i primi “educatori” laici: l’intervento sociale si qualifica autonomamente, come atto fondamentale della vita cristiana e come proposta non soltanto spirituale, ma con valenze anche per la vita civile e quotidiana. I laici vengono coinvolti per la prima volta sistematicamente nell’organizzazione delle strutture assistenziali ed anzi si “laicizza” persino la figura del religioso.287 Questa trasformazione si comprende con l’evoluzione sociale del tempo che ha visto
uno sviluppo della società borghese e un’industrializzazione che hanno portato, a loro volta, ad una trasformazione dell’ideologia dell’assistenza.
3.1.3. L’intervento statale
All’inizio dell’Ottocento, comunque, sono ancora figure religiose ed organizzazioni ecclesiastiche a caratterizzare il panorama degli interventi assistenziali a favore dei ragazzi poveri benché una nuova sensibilità pedagogica abbia portato le attività assistenziali a specializzarsi orientandosi verso segmenti specifici dell’emarginazione. Soprattutto nella seconda metà del secolo si assiste ad una fioritura di nuove organizzazioni educativo-assistenziali per la gioventù.
Non bisogna inoltre dimenticare che nell’Ottocento una profonda trasformazione è provocata dall’ingresso diretto dello Stato nelle attività assistenziali pubbliche. Anche nel settore degli interventi sull’infanzia abbandonata la presenza dello Stato si fa massiccia ma tale intervento risulta ancor più
285 C. Girelli, Da istituto per minori a comunità educative, un percorso pedagogico di deistituzionalizzazione, Centro Studi Erickson,
Trento, 2000, p. 10.
286 R.M. Russo, La politica dell’assistenza, Guaraldi, Rimini, 1974.
287 Le congregazioni femminili fondate da S. Vincenzo si caratterizzano ancora oggi per il fatto che le loro aderenti non emettono voti
impersonale di quello caritatevole delle organizzazioni ecclesiastiche. Gli “educatori” si limitano ancora a fornire il minimo sostentamento giornaliero e la poca bibliografia presente al riguardo288 testimonia il clima
di abbandono affettivo e, spesso, di autentica contrapposizione tra personale e ospiti che regnava in quegli istituti.
In Italia, durante gli ultimi decenni dell’Ottocento lo Stato si sforzò di regolamentare la struttura gestionale e l’attività delle opere pie, alle quali fu conferita una vera e propria delega per vari compiti di servizio sociale. Nacquero così opere di beneficenza statali: colonie e convitti, collegi e orfanotrofi pubblici che affiancarono le strutture ecclesiastiche già esistenti, è da sottolineare, comunque, che nella quasi totalità dei casi il personale rimase costituito da religiosi.
Le strutture che risalgono alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento sono tutte caratterizzate dalle grandi dimensioni degli spazi e dal notevole numero degli ospiti. Istituti che ospitavano centinaia di bambini orfani in edifici a due o tre piani con soffitti altissimi e stanzoni ampi centinaia di metri quadri, con lunghe camerate in cui ciascun bambino aveva a disposizione come spazio personale soltanto il letto e un comodino era la regola. In questo clima dominante una posizione diversa fu assunta da educatori come don Giovanni Bosco e, don Leonardo Murialdo. Il primo pose l’accento sulle attività di prevenzione, per le quali ideò gli oratori, e il secondo si può considerare come l’inventore della casa-famiglia, avendo avuto l’idea di affidare a famiglie diverse da quella naturale i bambini che toglieva dalla strada e dal riformatorio.
In epoca fascista lo Stato procedette ad una parziale centralizzazione delle attività assistenziali per l’infanzia abbandonata attraverso la reazione o il potenziamento di vari enti, ai quali fu affidata la gestione di grandi complessi residenziali per bambini orfani o di paternità sconosciuta. Al periodo fascista risale anche la creazione dei tribunali per i minorenni.
3.1.4. La deistituzionalizzazione
Con la nascita della Repubblica e l’aggiornamento del diritto minorile sulla base di alcuni documenti internazionali, si procedette ad un ripensamento dello stesso concetto di “assistenza” e così nella seconda metà degli anni Sessanta cominciò la cosiddetta “critica delle istituzioni totali” (denominazione che comprendeva manicomi, caserme, carceri e anche orfanotrofi, strutture, cioè, caratterizzate essenzialmente da regole di vita che conducevano alla spersonalizzazione dei loro ospiti), finì per portare alla ribalta il problema dei minori che vivevano in stato di abbandono o di grave disagio. Nasceva tra l’altro tra l’opinione pubblica, grazie all’opera di alcuni studiosi quali Canevaro, Palmonari e altri, la consapevolezza dei gravi problemi che l’ambiente degli istituti tradizionali crea allo sviluppo di bambini e adolescenti.289
Furono allora pensate nuove strategie d’intervento che, facendo leva anche sulla riorganizzazione delle strutture sociosanitarie, condussero localmente all’attivazione di servizi sociali territoriali più agili. Furono così incoraggiate esperienze alternative all’istituto tradizionale, con l’apertura di comunità di dimensioni ridotte. La posizione critica a proposito delle forme di assistenza per minori era avanzata soprattutto dagli stessi operatori del settore; essi, infatti, contribuirono alla ricerca di nuove soluzioni tra cui i pensionati, volti a facilitare il graduale reinserimento dei giovani provenienti dall’istituto di rieducazione.
Una novità significativa soprattutto allo scopo di individuare, per quanto possibile, lo sviluppo storico della figura di educatore, fu apportata con la creazione dei cosiddetti Focolari. Questi ultimi, promossi in via sperimentale all’inizio degli anni ’50 per iniziativa di alcuni volontari, erano strutture di tipo familiare che ospitavano piccoli gruppi di adolescenti, che avevano già avuto rapporti con l’autorità giudiziaria o con problemi familiari, guidati da alcuni adulti, coppie di coniugi e collaboratori, che assumevano i ruoli parentali e non quelli di semplici tutori dell’ordine e della disciplina.290 Il limite dei Focolari fu che, visto il
loro funzionamento totalmente dipendente da un’istituzione nazionale, si arrivò rapidamente a una loro istituzionalizzazione.
All’interno delle sperimentazioni, l’elemento che collega le situazioni di vita comunitaria alla realtà familiare è rappresentato dalla dimensione di gruppo primario, insieme al rispetto di alcune condizioni ritenute necessarie alla crescita dell’individuo, quali la condivisione, l’interazione diretta, le piccole dimensioni, la familiarità e il radicamento nella realtà locale.
Gli anni ’70 e ’80 sono stati ricchi di elaborazioni culturali e della promozione di nuove professionalità, con l’obiettivo di rinnovare l’apparato assistenziale italiano, a partire dalla consapevolezza, ormai acquisita e
288 Si rimanda ai testi: A. M. Dell’Antonio, Bambini in istituto, Bulzoni, Roma, 1977; Donelli, I minori in istituto, Centro Studi
Problemi Assistenziali, Milano, 1965.
289 Per ulteriori approfondimenti a riguardo si rimanda al testo di F. Carugati, Gli orfani dell’assistenza, Il Mulino, Bologna, 1973. 290 P. Macario, Il bambino negato, teoria ed esperienza di pratica educativa nelle condizioni di abuso all’infanzia, Editrice ELLE DI
diffusa, dell’effetto emarginante subìto da coloro che trascorrono lunghi periodi in istituti residenziali. Anche in quegli anni, dunque, la figura di educatore è nodo fondamentale di un passaggio verso una migliore condizione dei servizi offerti ai minori, si comincia a puntare sulla qualità dell’operatore impegnato a lavorare con i bambini, sulle sue competenze professionali e sulla sua motivazione.
Era ormai chiaro, infatti , come le caratteristiche istituzionali frenassero il processo evolutivo di chi vi era ospitato tramite la monotonia degli orari, l’omogeneità , le regole che limitavano l’autonomia e la creatività del soggetto e soprattutto la mancanza di sperimentare e sperimentarsi in relazioni affettivamente significative. Pertanto il ricorso all’esperienza comunitaria viene proposto non come semplice scelta tecnica, ma come precisa scelta politica per un rinnovato sistema assistenziale. Le prime comunità nascono nel decennio 1970/80, spesso anche a partire da gruppi spontanei impegnati personalmente nella costruzione di un’alternativa all’istituto e basandosi sull’autofinanziamento o sulla disponibilità di qualche ente privato.