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OSSERVAZIONE VERIFICA

2. Il laboratorio come risorsa didattica (Daniela Frison)

2.1. Fondamenti storico-epistemologici: il laboratorio nella cultura pedagogica del Novecento

2.1.2. Il learning by doing di John Dewey

Il ruolo di principale interprete e divulgatore dell’attivismo va senza dubbio riconosciuto a John Dewey143, il quale non fu solamente un teorizzatore della nuova tendenza pedagogica diffusasi a partire

dall’inizio del Novecento negli Stati Uniti e in Europa ma si dedicò alacremente anche alla sperimentazione. Egli infatti concretizzò le sue convinzioni pedagogiche nelle scuole sperimentali che fondò presso l’Università di Chicago e la Columbia University di New York all’interno dei dipartimenti di pedagogia.

La sua filosofia dell’educazione e le scelte metodologiche ad essa correlate vanno interpretate e comprese alla luce del suo “strumentalismo”, del cosiddetto “migliorismo deweyano” e, ancor prima, del contesto socio-economico del tempo.

E’, infatti, convinzione di Dewey che il metodo e i programmi dell’educazione debbano assolutamente adeguarsi ai mutamenti della situazione sociale al fine di rispondere alle esigenze di quella nuova società a cui la rivoluzione industriale, la nascita di un mercato mondiale e la diffusione dei mezzi di comunicazione hanno dato origine. L’attenzione dell’autore si concentra notevolmente sulle modificazioni a cui questi eventi sottopongono le abitudini di vita, le idee, gli interessi morali e religiosi degli individui. La famiglia, da sempre centro di ogni attività produttiva, perde il proprio ruolo esecutivo e il suo equilibrio viene stravolto dalla dirompente affermazione del “sistema della fabbrica”.

Il pensiero deweyano non matura esclusivamente alla luce di questa rivoluzione tecnologica ma viene profondamente plasmato dalla psicologia del fanciullo, in particolare dagli insegnamenti dello Stanley Hall rispetto alle tappe psicologiche dell’età evolutiva. Dewey individua alla luce di ciò tre momenti fondamentali nello sviluppo del bambino che vedono il suo apprendimento centrato inizialmente sull’immediatezza degli interessi, successivamente sull’adozione di mezzi e, infine, sul conseguimento di una specializzazione tecnica o intellettuale. Questa suddivisione risponde pienamente allo stumentalismo deweyano secondo cui ogni conoscenza umana è collegata con l’azione in quanto ha origine da esigenze pratiche. Ecco la giustificazione del suo costante richiamo al learning by doing ossia all’apprendimento ottenuto con il fare. Affinché il bambino percepisca l’attività scolastica come un arricchimento della propria esperienza è indispensabile che essa riconosca ampio spazio agli esercizi di laboratorio. Dewey, accanto a Freinet, Decroly, Montessori è, non solo tra coloro che vedono i loro nomi intimamente connessi alla nascita dell’Éducation Nouvelle ma anche tra i più convinti sostenitori dell’attività manuale sulla base di una concezione dell’infanzia valida ancora oggi. Il fine delle attività didattiche oggi intraprese nelle scuole materne ed elementari sia dagli insegnanti che da esperti esterni incaricati di realizzare laboratori creativi nelle classi, è innanzitutto centrato sul bambino e non sull’insegnante-animatore il cui ruolo non è quello di

141 F. De Bartolomeis, op. cit., 1958, p. 5-6. 142 Ivi, p. 81.

143 John Dewey (Burlington, Vermont, 1859 – New York, 1952). Tra le principali opere pedagogiche dell’autore: Il mio credo pedagogico (1897); Scuola e società (1900); Democrazia ed educazione (1916); L’arte come esperienza (1934); Esperienza ed educazione (1938); Educazione oggi (1940).

“detentore” del sapere e della tecnica quanto piuttosto quello di un educatore che si mette in gioco con i bambini concedendosi il lusso di “pasticciare” con materiali inusuali. E’ fondamentale che egli focalizzi l’attenzione dei bambini sulle sensazioni che scaturiscono dalla manipolazione e dalla creazione di un risultato che non rappresenta assolutamente il fine ultimo dell’attività. Il focus è senza dubbio sul processo ossia sul lavoro che impegna i bambini per la realizzazione di una sorta di “souvenir” dell’attività svolta. Con ciò non si intende privare il risultato finale di un suo valore, soprattutto partendo dalla constatazione che è in particolare con la sua riuscita che il bambino si misura ormai assuefatto a quella “cultura del prodotto” che accompagna ogni tappa del nostro esistere, ma piuttosto sottolineare che il fine del laboratorio è la partecipazione reale e spontanea di ogni singolo bambino.

Il valore educativo di un’esperienza in classe che sia strettamente connessa alle esperienze vissute dall’allievo nella sua quotidianità non scolastica è ciò che connota di novità l’educazione nuova. Dewey, in particolar modo, intende ripristinare una confidenza perduta tra il bambino e le attività che lo coinvolgevano in famiglia prima dell’avvento della rivoluzione industriale. I piccoli, infatti, assistevano nel contesto familiare ad attività di produzione che permettevano loro di “formarsi nell’azione”. Era loro garantita una familiarità “con la natura, con le cose e i materiali reali, con i processi effettivi della manipolazione. Tutto questo implicava un ininterrotto esercizio dell’osservazione, dell’ingegno, dell’immaginazione costruttiva, del pensiero logico, e del senso della realtà attraverso il contatto di prima mano con il mondo effettuale”144.

L’educazione, inoltre, deve assumere, secondo l’autore, un ruolo liberatorio. Essa deve liberare il naturale bisogno di azione insito in ogni fanciullo. Ciò non significa che le lezioni teoriche e l’esercizio mentale non trovino una loro collocazione nel percorso scolastico definito da Dewey; egli intende semplicemente affiancare ad essi un’educazione pratica che stimoli gli interessi e le tendenze del fanciullo. Si propone di affrontare attraverso i suoi metodi, il cosiddetto dualismo mente-corpo che da sempre contrappone la funzione intellettuale e conoscitiva della mente alla superficialità e irrilevanza dei fattori fisici. Ciò ha condotto i metodi tradizionali a considerare l’attività fisica come una distrazione da evitare inducendo gli insegnanti a reprimere con una ferrea disciplina ogni espressione corporea accusata di allontanare la mente dal contesto scolastico. Isolare la mente dal corpo significa dimenticare che l’apprendimento richiede non solo una concentrazione mentale ma, anche, l’uso dei sensi, vista e udito, degli organi vocali e delle mani per riprodurre verbalmente e per iscritto i contenuti immagazzinati. Prima di frequentare la scuola inoltre, le vie di conoscenza del bambino sono rappresentate prevalentemente dai sensi “adoperati per fare qualcosa con uno scopo”145.

L’introduzione nella scuola del cosiddetto lavoro manuale intende appunto stimolare gli istinti dei bambini “avendo scoperto che quella specie di lavoro appaga un’esigenza vitale degli alunni”146.

E’ a partire da queste considerazioni che Dewey sferra una pesante critica nei confronti della scuola tradizionale e della sua organizzazione. Egli lamenta l’assenza di una continuità tra scuola e vita. La scuola non è in grado di mettere a frutto il bagaglio di esperienze che il bambino porta con sé dall’esterno ed è incapace di arricchirlo con apprendimenti trasferibili nella vita quotidiana. L’autore parla a tale proposito di

isolamento della scuola e isolamento della vita. La scissione che ne deriva è dovuta al fatto che nelle aule

tradizionali tutto è fatto per ascoltare: l’apprendimento del bambino risulta passivo, lontano dai suoi veri interessi. Il centro dell’educazione non è infatti l’allievo ma il maestro con il suo ruolo istituzionale che gli attribuisce il potere di trasmettere un sapere preconfezionato. I metodi tradizionali d’insegnamento, dichiarati disciplinari, sono al di sopra di ogni critica e revisione. Il materiale da trasmettere è considerato adeguato ai metodi e non è sottoponibile a prove specifiche; pertanto il fallimento di un allievo è attribuibile esclusivamente alla sua incapacità di sottomettersi alla disciplina e non all’inadeguatezza dei metodi d’insegnamento.

Tutto, dall’aula al metodo ai programmi, è dunque predisposto al fine di favorire questo processo di trasferimento della conoscenza fondamentale per preparare il discente alle responsabilità che la vita gli richiederà in futuro. Merito di Dewey è, a tale proposito, l’aver riconosciuto, invece, l’infanzia come una fase dello sviluppo della persona che va valorizzata e arricchita come tutte le altre e non come un momento di preparazione alla vita adulta e quindi priva in sé di qualsiasi valore. Questa valorizzazione dell’infanzia e della libertà di educazione sono principi che la pedagogia attuale ha ereditato proprio dall’educazione nuova

144 J. Dewey, The School and Society, Chicago, The University of Chicago Press, 1900; traduzione italiana a cura di E. Codignola e

L. Borghi, Scuola e Società, La Nuova Italia, Firenze, 1949, p. 5.

145 J. Dewey , Democracy and Education, New York, The Macmillan Company, 1916; traduzione italiana a cura di E. Enriques

Agnolotti e P. Paduano, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1949, p. 183.

che si è fermamente opposta ad una pedagogia retrograda che cerca di plasmare il bambino secondo un ideale astratto di adulto non riconoscendogli un’individualità propria.

L’educazione tradizionale, muovendosi in quest’ottica, tratta i fanciulli come massa, non permette loro di individualizzarsi, di esprimere ciò che realmente sono al di fuori delle mura scolastiche. L’uniformità implica che essi siano soggetti ad un trattamento passivo. Il docente si rapporta ad essi seguendo uno stesso metodo: “l’orecchio, e il libro che riflette l’orecchio, costituisce il mezzo identico per tutti. C’è una certa somma di risultati e di abilità che tutti i fanciulli devono acquistare ugualmente in un tempo determinato”147.

Il centro di gravità dell’educazione risiede dunque al di fuori del fanciullo, nel testo scolastico e nel maestro il quale si rende autore di un’imposizione dall’alto e dal di fuori. L’educazione formale, corre troppo spesso il rischio di diventare remota e morta perché eccessivamente ancorata ad un modello di trasmissione astratto e libresco e a contenuti artificiali. Essa si rende necessaria al fine di rendere il fanciullo capace di partecipare alle attività degli adulti ma è inadatta a coinvolgerlo in esse in modo personale e vitale. Il materiale che si propone di trasmettere è lontano dalle abitudini dei discenti e rimane perciò un mero argomento scolastico isolato rispetto alle loro esperienze di vita. L’educazione progressiva, come viene definita dallo stesso Dewey, pone invece l’accento sull’importanza della partecipazione attiva del discente il quale deve sentirsi libero e capace di trasferire nella vita scolastica gli insegnamenti ricevuti nella vita quotidiana, seguendo una sorta di principio dei vasi comunicanti.

L’obiettivo del laboratorio, che è parte integrante dell’educazione attiva, è proprio quello di mettere l’allievo in contatto con la realtà, con quegli stessi materiali e attività con cui egli si misura al di fuori della scuola. Solamente giochi e occupazioni che stimolino e soddisfino gli interessi dei discenti vengono percepiti come attività non meramente scolastiche e sollecitano pertanto, l’uso della riflessione e del giudizio al fine di conseguire dei buoni risultati. Lo scopo non è l’apprendimento di un mestiere quanto piuttosto un approfondimento della conoscenza dei processi naturali e una rivisitazione dello svolgimento storico dell’uomo. Dewey si difende facilmente dall’accusa di voler preparare, nella sua scuola, degli specialisti; definisce tale critica “un’obiezione ridicola” sottolineando come sia invece l’educazione tradizionale ad essere specializzata e angusta in quanto fondata su una concezione medioevale del sapere come eredità esclusivamente intellettuale trasmissibile a pochi eletti e incentrata esclusivamente sul desiderio di apprendere. Gli impulsi, le tendenze all’agire e al costruire ne sono completamente esclusi. E’ proprio su questi aspetti che Dewey basa, invece, l’educazione progressiva. Egli propone addirittura una classificazione di tali impulsi distinguendo gli istinti sociali, l’impulso per l’indagine, l’impulso a costruire e l’istinto del fare, e l’impulso all’espressione o istinto artistico. Il primo si manifesta nel dialogo e nei rapporti personali: il bambino misura ogni argomento di conversazione con la propria esperienza e mediante il linguaggio la comunica agli altri. L’interesse per la scoperta, per l’indagine è strettamente connesso all’istinto del fare. Il fanciullo ama sperimentare i materiali, plasmarli: si rapporta ad essi nel gioco e nell’attività manuale che non presenta come finalità l’apprendimento di leggi della fisica o della chimica quanto piuttosto la sollecitazione di un impulso che non dev’essere assolutamente abbandonato a se stesso ma colto e accompagnato nel suo ulteriore sviluppo. La stessa attenzione va riconosciuta all’istinto artistico che nasce, secondo Dewey, dagli istinti della comunicazione e della costruttività.

E’ in relazione a questi impulsi che l’autore si rifà nuovamente agli insegnamenti della psicologia moderna. Dewey definisce, infatti, la propria scuola, un “laboratorio di psicologia applicata” in cui si considera “l’educazione infantile alla luce dei principi dell’attività intellettuale e dei processi di sviluppo resi noti dalla psicologia moderna”148. L’autore si propone “l’organizzazione di un corso di studi in armonia con

lo sviluppo del fanciullo in capacità ed esperienza. Si tratta di scegliere la specie, la varietà e la debita quantità di materie che rispondono meglio ai bisogni e alle possibilità di un dato periodo dello sviluppo e di quei modi di presentazione che permetteranno al materiale scelto di diventare parte vitale dello sviluppo stesso”149.

Dewey attribuisce alla psicologia il merito di aver riconosciuto il ruolo dei fattori sociali nello sviluppo dell’individuo e di aver rinnegato la visione che considerava lo spirito come entità individuale semplicemente in contatto con il mondo esterno. E’ a partire da quest’ottica che egli coglie l’esigenza che il ragazzo abbia nel suo bagaglio di esperienze svariati contatti con la realtà sociale e fisica per evitare che sostituisca simboli teorici e convenzionali all’esperienza del reale. E’ anche basilare che questo contatto con la realtà stimoli nel fanciullo la formulazione di problemi, domande, interessi che richiedono il sussidio dei

147 Ivi, p. 23. 148 Ivi, p. 63. 149 Ivi, p. 63.

libri. Affinchè queste due condizioni si verifichino è necessario pensare per l’allievo una vasta gamma di attività in termini di occupazioni, conversazioni, costruzioni ed esperimenti. Questo percorso, secondo Dewey, si sviluppa per stadi progressivi. Egli definisce un primo periodo, che si riscontra nei bambini tra i quattro e gli otto anni, e che si caratterizza per l’immediatezza degli interessi sociali e personali e del rapporto fra impressioni, idee e azioni. In questa fase c’è una forte necessità di movimento per esprimersi e le attività più conformi ad essa sono i giochi, i racconti, il disegno e la conversazione.

Tra gli otto-nove anni e gli undici si sviluppa un secondo periodo dominato, invece, dalla capacità del fanciullo di collegare le proprie azioni a dei risultati concreti. Egli non trae più soddisfazione da un gioco fine a se stesso ma avverte la necessità di realizzare attività che conducano a dei risultati definiti. Un terzo periodo ha inizio quando il ragazzo ha una conoscenza di base di varie forme di realtà e di svariate attività e ha acquisito una certa padronanza dei metodi d’indagine dell’esperienza.

Dewey attinge a questi aspetti non solo per giustificare determinate forme di attività nel percorso scolastico del ragazzo ma anche per definire il rapporto individuo-ambiente visto e pensato secondo l’ottica dell’educazione attiva.

Egli definisce l’ambiente come “condizioni che interagiscono con i bisogni, i desideri, i propositi, le capacità personali per creare l’esperienza che si compie”150. E’ nella transazione tra individuo e ambiente che

l’esperienza si realizza ed è di questa interazione che l’educatore ha dovere di preoccuparsi. Il suo ruolo non consiste nel prescindere da queste condizioni e neppure nell’abbandonare il fanciullo in balia di esse ma piuttosto nel determinare l’ambiente con cui i suoi allievi si rapporteranno regolando quelle condizioni oggettive che è in suo potere adeguare alle capacità e ai bisogni degli alunni stessi. Questo compito dell’insegnante non deve assolutamente essere frainteso con un tentativo di rendere l’ambiente scolastico precostituito e artefatto. A tale proposito, Dewey attribuisce alla scuola il dovere di offrire agli alunni un

ambiente semplificato che garantisca loro la possibilità di fruire degli stimoli fondamentali atti a suscitare

una reazione, senza doversi imbattere nella complessità che connota invece la società al di fuori del contesto scolastico. Questa semplificazione è funzionale anche ad una purificazione da tutti gli aspetti dell’ambiente esistente che avrebbero un’influenza esclusivamente negativa sullo sviluppo e sulle abitudini degli allievi. La scuola, infatti, deve essere soprattutto permeata di valori umani e rappresentare un organo sociale che costituisca un “compendio veramente tipico della vita in comune”151. E’ , inoltre, compito dell’ ambiente

scolastico garantire ad ogni individuo la possibilità di sfuggire alle limitazioni che gli vengono imposte dall’appartenenza ad un determinato gruppo sociale e di entrare in contatto con un ambiente allargato. La concezione deweyana della scuola e del suo ruolo sociale emerge proprio dalla strutturazione della scuola elementare dell’Università di Chicago e della scuola “Horace Mann” del Teachers College della Università di Columbia. Si tratta di “un ambiente dove 1) si potesse , mediante un giardino o un orto, avere esperienza diretta e attiva di piante ed animali; 2) dove si dovesse provvedere, almeno per uno o due pasti, alle necessità del vitto; 3) dove vi fosse qualche locale adatto a fungere da laboratorio, con l’indispensabile di strumenti e materiali; 4) dove i ragazzi fossero il meno possibile divisi rigidamente in classi; 5) dove gli allievi avessero normali contatti con un buon numero di docenti; 6) dove fossero favorite le passeggiate, le escursioni, i campeggi”152.

E’ fondamentale, dunque, che l’ambiente veda soddisfatti aspetti sia naturali che sociali strettamente collegati tra loro richiamando il principio dell’interazione deweyano secondo il quale il mancato adattamento dell’ambiente e del materiale ai bisogni e agli interessi dei fanciulli può comportare un’esperienza non educativa così come il mancato adattamento di un individuo alla dimensione ambientale e naturale. Dewey, infatti, la definisce ”essenza dell’educazione”, connotandola in termini di “ricostruzione o riorganizzazione dell’esperienza, che accresca il significato dell’esperienza e che aumenti la capacità a dirigere il corso dell’esperienza seguente. L’incremento del significato corrisponde all’aumentata percezione del nesso e della continuità delle attività nelle quali siamo impegnati”153. Uno dei principi fondamentali del pensiero

pedagogico deweyano è dunque la continuità dell’esperienza. Il fine dell’educazione è proprio permettere agli individui di continuare la loro stessa educazione partendo dal presupposto che ogni esperienza riceve un input da quelle che l’hanno preceduta e contribuisce a modificare la qualità di quelle che la seguiranno. Per quanto concerne la specificità dell’allievo, è dovere dell’educatore progressivo prevedere i possibili sviluppi degli interessi e degli impulsi dei ragazzi e dunque disporre le condizioni che influenzeranno le loro

150 J. Dewey, Experience and Education, Kappa Delta Phi, Chicago, 1938; traduzione italiana a cura di E. Codignola, Esperienza e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1949, p. 33.

151 A. Visalberghi, John Dewey, La Nuova Italia, Firenze, 1951, p. 84. 152 Ivi, p. 87.

esperienze senza cadere nell’errore di dar vita ad un ambiente innaturale e viziato che renderebbe vano ogni tentativo di sviluppare esperienze autentiche. E’ fondamentale che venga sempre garantito il “libero giuoco dell’esperienza individuale”154 in un’ottica che sia però comunitaria e che veda l’educazione non solo come

processo continuo ma anche come processo sociale.

Il principio di continuità e il concetto di processo sociale rappresentano, infatti, i cardini del pensiero pedagogico di Dewey, fermamente convinto che il ruolo dell’insegnante debba essere quello di direttore di

attività e non tanto di fonte di sapere da trasferire alla classe. Solo in questa direzione è possibile sostenere e

garantire una dignità dell’infanzia come età autonoma con interessi e inclinazioni da valorizzare in un ambiente naturale che metta i bambini realmente a confronto con ostacoli, problemi e difficoltà da sperimentare. Dewey afferma addirittura che “la mera ingestione di fatti e di verità è un affare così esclusivamente individuale che tende in modo molto naturale a diventare egoismo”155: egli intende

sottolineare la profonda distanza tra un’educazione fondata su un metodo individualistico di trasmissione dei contenuti e l’educazione progressiva che, al contrario, fa dell’esperienza concreta e del lavoro comune i suoi pilastri. Il lavoro attivo rende possibile la collaborazione, l’aiuto reciproco, lo scambio di idee e trasforma la scuola in una embrionale comunità di vita: “la scuola deve rappresentare la vita attuale, una vita altrettanto reale e vitale per il fanciullo di quella che egli conduce a casa, nel vicinato o sui campi di gioco”156.

L’attività che, secondo Dewey, meglio riesce a garantire questa continuità tra la vita familiare e la vita scolastica del bambino è il lavoro manuale nella sua semplicità ed immediatezza. Il termine lavoro manuale non deve essere assolutamente frainteso con un tentativo di impegnare l’allievo in attività produttive ma deve invece essere colto come uno sviluppo naturale del gioco che permetta al bambino di esprimersi attingendo alle proprie esperienze personali e trasferendole all’interno delle mura scolastiche. L’autore, partendo dal

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