PARTE SECONDA L’ambito dell’educazione professionale
4. Le istituzioni educative per minori in Italia: politiche sociali e quadri normativi (Paola Lupatin)
4.1. L’evoluzione delle politiche sociali dagli anni Settanta ai nostri giorni
4.1.1. Gli anni Settanta: i primi segnali di cambiamento delle politiche sociali
La storia delle comunità educative per minori è strettamente connessa con il profondo cambiamento nelle politiche sociali, iniziato in Italia dagli anni Settanta.
Quegli anni hanno rappresentato infatti “la fine della tradizione dell’assistenzialismo e hanno avviato la ricerca di nuove modalità di intervento in ambito sociale”317.
L’intervento assistenziale non discrezionale aveva trovato le sue fondamenta nell’articolo 3 della Carta Costituzionale, in cui al secondo comma si sancisce che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
Fra i principali fattori del cambiamento suddetto, non sempre lineare nella sua evoluzione e differente da una zona all’altra del paese, si individuarono:
- la programmazione economica e sociale elaborata negli anni Sessanta, che sosteneva una concezione dei servizi come cardine dei compiti dello Stato in campo sociale;
- la discussione sviluppatasi intorno alla legge sull’adozione speciale (legge n. 431 del 5 giugno 1967), la quale: “aveva espunto dall’ordinamento giuridico il principio per cui i genitori potevano fare del proprio figlio ciò che volevano anche delegando a terzi funzioni affettive ed educative; ed aveva ribaltato vecchie prassi assistenziali che ricorrevano sistematicamente alla scorciatoia del ricovero in istituto del bambino comunque in difficoltà”318. Inoltre, la stessa legge riaffermava la
diretta responsabilità familiare nella cura e nell’allevamento dei figli riconoscendo al bambino il diritto ad avere una famiglia in cui crescere e che lo aiuti nella costruzione della propria identità personale e sociale;
- la contestazione nei confronti di qualsiasi tipo di istituzione totale da parte dei movimenti del Sessantotto, che favorì l’avvio dei “processi di riforma nell’area dei servizi sociali in generale e di quelli assistenziali e sanitari nello specifico”319;
- l’avvento delle Regioni a statuto ordinario;
- la riforma delle politiche sociali (di particolare interesse è la riforma sanitaria del 1978);
- l’opera di alcuni magistrati minorili (Meucci, Battistacci, Moro) che hanno contribuito a sviluppare nel loro lavoro e nel dibattito culturale e politico, un approccio che valorizzi i diritti dei minori.
Nello specifico, proprio per quanto riguarda i minori, la presa di consapevolezza dei loro bisogni ha “spostato l’attenzione dall’atteggiamento assistenzialistico verso l’incremento dello sviluppo della personalità”320, originando così un’individualizzazione dell’intervento, passando dai tradizionali istituti,
brefotrofi e orfanotrofi, alle comunità.
Di fondamentale importanza è il D.P.R. del 24/7/1977 n. 616, che attua l’articolo 117 della Costituzione riguardante la funzione socio-assistenziale della Pubblica Amministrazione, innescando “un processo organico di decentramento amministrativo e di autonomia politica in materia di assistenza , servizi sociali per famiglie e minori in condizione di bisogno, attribuendo agli Enti Locali responsabilità dirette ed esclusive, con limitati vincoli di soggezione gerarchica”321 nei confronti degli organi centrali; ai Ministeri dell’Interno e
della Sanità infatti, spettano una esclusiva funzione di legislazione, pianificazione e coordinamento nazionali.
317 G. Barbanotti, P. Iacobino, Comunità per minori. Pratiche educative e valutazioni degli interventi, Carrocci Editore, Roma, 1998,
p. 17.
318 CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE ED ANALISI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA, I bambini e gli adolescenti fuori dalla famiglia- indagine sulle strutture residenziali educativo assistenziali in Italia, 1998, in “Pianeta infanzia”,
n. 9, ottobre 1999, Istituto degli Innocenti, Firenze, p. 262.
319 L. Tosco, Politiche Sociali e comunità per minori, in “Animazione sociale”, anno XXVII, n. 10, ottobre 1997, Gruppo Abele,
Torino, p. 19.
320 C. Girelli, M. Achille, Da istituto per minori a comunità educative. Un percorso pedagogico di deistituzionalizzazione, Edizioni
Centro Studi Erickson, Trento, 2000, p. 29.
Sono gli enti locali quindi a rilevare i bisogni della comunità in cui si trovano, predisponendo le modalità opportune con le quali soddisfarli. Orbene, il decentramento amministrativo promosso dal Decreto Legislativo in questione “accoglie la sollecitazione, teorizzata da tempo dal discorso pedagogico, secondo la quale non si dà educazione senza attenzione alle specificità delle situazioni personali, ambientali, relazionali”322.
Nel decreto, inoltre, viene sottolineata l’importanza della programmazione, la quale viene assunta come metodo per l’attività di tutti gli enti pubblici, introducendo “la partecipazione alla programmazione come modalità di raccordo tra diversi livelli di governo”323.
Bisogna considerare però che la traduzione pratica dei principi contenuti nel D.P.R. n. 616/77 “si scontrava con ostacoli di varia natura, come ad esempio il frazionamento delle competenze”324 tra i diversi
Enti Locali nonché tra questi e l’amministrazione pubblica statale, ”generando in tal modo incertezze che rendevano difficoltosa l’esigibilità dei diritti”325.
Un caso esemplificativo, al quale vale la pena di dare risalto, concerneva il rapporto tra USSL ed assessorato ai servizi sociali del Comune, in cui “il prevalere del significato giuridico dei servizi sanitari su quelli sociali ha provocato negli anni scorsi il passaggio di operatori dai secondi nei primi”326, causando così
la sanitarizzazione degli interventi sociali. Conseguenze di una tale situazione sono state:
- la gestione di questi ultimi soltanto da parte di assistenti sociali e psicologi senza la figura del pedagogista;
- una mancanza di coordinamento tecnico tra USSL e assessorato ai servizi sociali;
- l’assenza di un unico referente di gestione a cui le varie figure professionali di diversi enti pubblici potessero riferirsi, facendo sì “che il funzionamento dei servizi socio-educativo- assistenziali fosse spesso oggetto di palesi o malcelati conflitti di competenza”327.
Proprio per tali ragioni il lavoro di rilevamento delle situazioni precarie e di progettazione delle stesse era spesso approssimativo o dipendente dalla disponibilità dei singoli operatori.
A corollario del D.P.R. n. 616/77, vi fu l’approvazione della prima legge quadro sull’ordinamento sanitario del nostro Paese, la n. 833 del 23 dicembre 1978. Il Sistema Sanitario Nazionale viene definito all’art. 1 della legge come «il complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione». I principi che ispirarono il legislatore nella realizzazione di tale sistema furono la garanzia delle varie prestazioni a tutti i cittadini che ne abbiano bisogno; la globalità degli interventi; la uniformità delle prestazioni sull’intero territorio nazionale; il rispetto della libertà del cittadino; il decentramento e la democraticità della gestione.
4.1.2. Gli anni Ottanta: la crisi dei modelli tradizionali di welfare state
In questo quadro, sin dagli anni ’80, si registrò un panorama fortemente disomogeneo, legato alla capacità dei vari Governi regionali di interpretare i bisogni emergenti nel proprio territorio, di rispondere alla crescente domanda di partecipazione dei cittadini, di pianificare in maniera integrata i servizi sociali, di indirizzare in maniera innovativa funzioni pubbliche e private ed infine, di mettere a disposizione risorse adeguate per l’erogazione dei servizi.
Il nostro sistema di welfare328 negli ultimi anni ha accusato una crisi sempre più profonda “imputabile a
problemi di compatibilità finanziaria e di debito pubblico che non permettono ulteriori implementazioni della spesa”329. Ciò appare evidente per i servizi erogati dai Comuni, in quanto vi è stata una progressiva riduzione
dei trasferimenti statali alla finanza locale.
Bisogna precisare però che i fattori di crisi non sono solo di tipo finanziario, ma dipendono anche da una inadeguatezza dei servizi sociali alla persona “nella risposta a bisogni sempre più articolati, mutevoli, individualizzati. E’ emersa quindi una domanda e un’esigenza di interventi flessibili, non standardizzati nelle
322 Ivi, p. 99.
323 F. Rao, I principi di riferimento della legge sull’assistenza. Guida alla lettura della legge sull’assistenza/1, in “Animazione
Sociale”, anno XXX, n.3, marzo 2001, Gruppo Abele, Torino, p. 29.
324 L. Pati, op. cit., p. 85. 325 F. Rao, op. cit., p. 71. 326 L. Pati, op. cit., p. 86. 327 Ivi, p. 87.
328 Inteso come quel “complesso di interventi che, in base ad una specifica legislazione, promuovono la tutela della persona in ogni
ambito della sua vita: età, lavoro, salute, malattia, povertà, emarginazione.
prestazioni ”330, in grado di offrire risposte personalizzate. Come ha affermato Claudio Calvaruso, uno dei
relatori al primo convegno nazionale sul ruolo delle comunità alloggio tenutosi a Torino nel 1984, “il welfare
state del resto è entrato in crisi non, come si è spesso sostenuto, a causa della crisi economica bensì proprio
per la sua inadeguatezza a far fronte alla nuova struttura emergente dei bisogni sociali”331.
In effetti, il welfare state sviluppandosi insieme alla società industriale rifletteva i valori e gli schemi organizzativi della cultura industriale dominante. I cardini principali, secondo lo stesso autore, su cui lo stato sociale si basava erano: