• Non ci sono risultati.

PARTE SECONDA L’ambito dell’educazione professionale

4. l’affidamento da parte dei singoli cittadini allo Stato, della responsabilità di soddisfare i propr

4.2. La cultura della deistituzionalizzazione

4.2.1. Le motivazioni politiche e pedagogiche di una nuova cultura dell’assistenza ai minori in difficoltà

La cultura della deistituzionalizzazione in Italia iniziò verso la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Alla sua formazione concorsero molteplici fattori, sia di ordine politico sia di esplicita natura pedagogica.

Per quanto riguarda i primi, un forte impulso venne dalla stagione dei movimenti di contestazione del Sessantotto, cui vi aderirono “forze appartenenti a settori ideologico-culturali dissimili”347. I movimenti del

’68 ebbero il merito di veicolare a livello di massa gran parte di quelle idee e di quei progetti, che gli esperti avevano elaborato entro cerchie ristrette di addetti ai lavori, dando loro forza politica e modificando i modi correnti di pensare i servizi e la loro funzione sociale. “La cultura del ’68, con la mobilitazione e la politicizzazione del mondo giovanile, orientando disponibilità personali ed energie nuove verso le diverse forme di iniziative anti-istituzionali e anti-autoritarie, facilitò la progettazione e la realizzazione delle piccole comunità”348. In particolare, la loro serrata critica nei confronti delle istituzioni totali, portò “sul fronte dei

servizi sociali, a un ripensamento del ruolo e della funzione di chi vi operava in rapporto allo Stato e alla società”349.

L’opposizione alle istituzioni totali psichiatriche e penali, fatta in alcuni paesi del mondo occidentale da settori scientifici e da parte di alcuni addetti ai lavori, si estese in poco tempo a tutto il sistema assistenziale, e di conseguenza anche agli istituti per minori disadattati e devianti. In questo clima molto rilievo ebbe “la denuncia concernente i dinamismi di destrutturazione della personalità promossi, pur se nella gran parte dei casi in modo accidentale, dalle istituzioni totali”350. Esemplificative al riguardo sono le parole di Ervin

Goffman, quando nel 1961 prese in considerazione il degente delle strutture psichiatriche: “l’individuo internato si trova completamente spogliato di ogni convinzione, soddisfazione e difesa abituali, soggetto com’è a una serie di esperienze mortificanti: impossibilitato a muoversi liberamente se non entro limiti consentiti; costretto a una vita in comune; sottomesso all’autorità di un’intera squadra di comandanti.

E’ qui che si incomincia ad apprendere quanto sia limitata l’estensione entro la quale può essere mantenuto il concetto di sé, qualora l’insieme di sostegni abituale venga improvvisamente a mancare”351.

Non meno significativa fu l’esperienza anti-istituzionale dell’équipe di Franco Basaglia nell’Ospedale psichiatrico di Gorizia e la pubblicazione nel 1968 del libro-dossier L‘istituzione negata, che propose all’attenzione delle professioni d’aiuto l’analisi “demistificata del loro ruolo e denunciò la natura violenta dell’istituzione psichiatrica”352. Queste due esperienze fornirono un contributo essenziale per formare un

apparato concettuale e strumentale, volto ad affrontare la realtà dell’emarginazione e delle strutture di controllo dei devianti.

Tra i fattori di ordine pedagogico che contribuirono alla deistituzionalizzazione, dobbiamo ricordare l’ormai radicata consapevolezza del fatto che gli interventi assistenziali non seguivano una logica promozionale, poiché la preoccupazione principale da parte del sistema socio-politico era di isolare i soggetti disturbati (non si promuovevano altre soluzioni di intervento).

346 Ibidem.

347 L. Pati, op. cit., p. 171.

348 CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE ED ANALISI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA, op. cit., p.

225.

349 C. Girelli, M. Achille, op. cit., p. 32. 350 L. Pati, op. cit., p. 170.

351 E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: La condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Einaudi, Torino ,1968,

pp. 173-174.

352 CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE ED ANALISI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA, op. cit., p.

Inoltre “si denunciava la mancanza di servizi assistenziali di base, che potessero favorire la corresponsabilità della comunità locale nella soluzione del disadattamento minorile”353.

Ultimo fattore non trascurabile, era l’esistenza di un orientamento verso la medicalizzazione degli interventi assistenziali.

Dal punto di vista educativo tutto questo aveva portato a tre conseguenze. Pe rprima cosa, l’internamento avveniva per soggetti “per i quali non si davano serie giustificazioni all’istituzionalizzazione (orfani, deboli mentali non gravi, lievi disadattati, ecc.)”354. Troppo rari erano gli interventi di prevenzione ed inoltre i

servizi di protezione all’infanzia, intervenivano soltanto nel momento in cui la situazione di un soggetto aveva assunto caratteristiche allarmanti, che rendevano accettabile il ricorso alla segregazione;

In secondo luogo, l’allontanamento dei minori dal proprio luogo di residenza, motivato dal proliferare dagli istituti in alcune regioni rispetto ad altre. Non v’era quindi, nessuna preoccupazione per i bisogni del minore o per quelli che potevano essere i suoi legami famigliari;

Infine, e questa è la conseguenza più significativa, gli istituti, dotandosi di tutti i servizi di cui gli ospiti potevano avere bisogno (scuola, campi sportivi, sale cinematografiche, ecc.), erano chiusi nei confronti dell’ambiente esterno. Questa chiusura “motivava l’adozione di metodologie «rieducative» mortificanti, che aggravavano la condizione di emarginazione dei minori, pertanto, contribuivano direttamente al fallimento dei tentativi di reinserimento degli stessi nell’ambiente familiare e sociale di provenienza”355.

In campo pedagogico dunque, si sottolineava negativamente il ruolo subordinato dell’istanza educativa rispetto a quella custodialistica.

Tale posizione era condivisa da vari settori operativi coinvolti nella problematica assistenziale, come ad esempio l’Associazione Italiana dei Giudici per i minorenni, la quale nel 1975 dichiarava che gli istituti “imponevano uno stile di vita passivo, standardizzato e impersonale, privo di sollecitazioni esperienziali concrete e umane, incurante delle richieste evolutive dei singoli soggetti; isterilivano le potenzialità dei minori e provocavano negli stessi notevoli ritardi in tutte le funzioni bio-psico-affettive. La situazione era giudicata ancora più drammatica per i ricoverati in istituti specializzati, in ospedali psichiatrici, in riformatori: per tutti costoro si adombrava la perpetuazione dell’internato e l’ineluttabilità della carriera deviante”356.

Gli istituiti per l’infanzia, facenti parti anch’essi delle “istituzioni totali”, avevano la precisa funzione di fornire assistenza ed educazione all’infanzia abbandonata, con la peculiarità che “mentre le altre istituzioni accoglievano soggetti con precedenti esperienze dell’ambiente esterno, spesso contenevano bambini che acquistavano consapevolezza del mondo solo all’interno della struttura”357. Secondo l’opinione di un gruppo

di studiosi che a suo tempo fecero scuola, (tra cui Bonini, Carugati, De Paolis, Emiliani, Palmonari), gli istituti per minori possono essere definiti come “entità sociali che utilizzavano un ambiente fisico proprio e una propria organizzazione per intervenire su certi tipi di bisogni o carenze presenti in alcuni membri della popolazione infantile”358. Gli stessi autori affermano che esistevano due criteri per cui l’intervento

assistenziale nei confronti dei minori attuava il collocamento in istituto: “da un lato la povertà, come risultato dello stato di abbandono e di inabilità al lavoro per età e/o per infermità cronica o gravi difetti fisici o intellettuali, dall’altro la pericolosità sociale, e cioè preoccupazioni legate all’ordine pubblico, o meglio al controllo sociale degli improduttivi, e nel caso dei minori le preoccupazioni connesse con la delinquenza minorile” 359.

Va comunque precisato, che intorno agli anni ’50 si erano sviluppate alcune risposte alternative all’istituzionalizzazione: i focolari. Quest’ultimi erano piccole comunità di tipo familiare alla completa dipendenza del Ministero di Grazia e Giustizia, costituiti da gruppi di 12-15 ragazzi in regime di semi- libertà, che vivevano in appartamenti con il loro educatore e con una figura di riferimento femminile.

Questo tipo di esperienze non si consolidarono, soprattutto per i limiti derivanti dalla dipendenza istituzionale e dal loro isolamento dal tessuto sociale, non esistevano ancora infatti i servizi sociali territoriali cui riferirsi.

353 L. Pati, op. cit., p. 172. 354 Ibidem.

355 L. Pati op. cit., p. 173.

356 REGIONE VENETO, ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI GIUDICI PER I MINORENNI, Per una politica regionale dei servizi sociali a tutela dei minori, Atti del Convegno di Abano 24-26 gennaio 1975, Giunta Regionale del Veneto, Padova, 1975, p. 48. 357 M. G. Ruggiano, L’infanzia perduta per sempre e il superamento degli istituti di assistenza, in “Minori Giustizia”, n.1, 1997,

Franco Angeli, Milano, p. 14.

357 M. C. Bonini, F. Carugati, P. De Polis, F. Emiliani, A. Palmonari., Diventare uguali. I minori dall’istituto ai gruppi appartamento, Coines Edizioni, Roma ,1976, p. 9.

4.2.2. La dimensione politica locale come laboratorio pedagogico di nuove esperienze educative

Grazie al cambiamento di mentalità, precedentemente descritto, favorevole alla deistituzionalizzazione e all’attuazione nel 1970 dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione (con una nuova definizione del ruolo degli Enti Locali), si sperimentarono i primi interventi alternativi di accoglienza residenziale (comunità alloggio, gruppi-appartamento) per i minori che non trovavano nell’ambiente familiare le condizioni indispensabili per la propria crescita. Gli Enti Locali svolsero dunque un ruolo propulsivo, furono essi “che assunsero l’iniziativa di organizzare nuove forme comunitarie ed ebbero la finalità di accogliere bambini e ragazzi dimessi dagli istituti che non potevano rientrare in famiglia”360.

Molto importanti furono le esperienze della provincia di Torino (con le comunità alloggio) e l’attività di ricerca e di sperimentazione sui gruppi-appartamento in Emilia Romagna, che videro la collaborazione degli enti locali con l’università. Quest’ultima esperienza ad esempio, mirava a dare ai ragazzi condizioni di vita diverse da quelle di provenienza, con particolare attenzione al clima entro cui avvenivano le relazioni interpersonali tra adulti e ragazzi. Il gruppo-appartamento infatti, si configurava come una comunità di poche persone in cui tutti si conoscevano e comunicavano tra loro. Gli adulti assicuravano la stabilità del sistema relazionale e favorivano l’apertura alla vita sociale, proprio per questo l’appartamento era collocato in una realtà urbana permettendo in tal modo la partecipazione dei ragazzi alla vita del territorio.

La collocazione a livello locale della responsabilità su questi temi inoltre, in seguito al riordino dei poteri in materia di politiche sociali, portò nello stesso periodo alla soppressione di tutti gli enti nazionali di assistenza, come ad esempio l’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia (legge. n. 698 del 23 dicembre 1975).

Di fondamentale importanza fu anche l’approvazione della Riforma del diritto di famiglia (legge. n. 151 del 19 maggio 1975), la quale afferma “i diritti autonomi del minori collegati ai bisogni evolutivi. Segna, inoltre, l’affermazione dell’idea di potestà che è di entrambi i genitori, non come potere sui figli, ma per i figli, con il fine di sostenerli nella crescita, sancendo l’obbligo per i coniugi di provvedere alla loro educazione, intesa come sviluppo delle potenzialità del minore”361.

Nella legge si equiparava per la prima volta la posizione di figlio naturale a quella di figlio legittimo, cercando di porre fine ad una “classificazione” dell’infanzia, fonte di umiliazione e di esclusione per il minore.

Era maturata quindi la consapevolezza che il bambino e l’adolescente possiedono una personalità autonoma e una autonoma vocazione, che devono essere sostenute dai genitori nel processo di crescita. Pertanto i “ragazzi devono considerarsi portatori di diritti collegati ai bisogni evolutivi e, proprio perché soggetti deboli, hanno bisogno di un supplemento di protezione”362.

Accanto alle iniziative degli enti locali emerse l’attività del volontariato, in particolare del mondo cattolico, che promosse risposte alternative nell’area minorile. Nel loro modello di comunità vi era la presenza costante degli operatori, mentre nelle comunità pubbliche gli educatori seguivano turni rigidi di lavoro. Si realizzò in questo modo una contrapposizione, “fra la figura dell’educatore dipendente dell’ente pubblico qualificato in senso professionale e il volontario cui si attribuiva la motivazione ideale ma non la professionalità”363, diversamente accentuata a seconda della singola realtà regionale.

Il volontariato spesso si inseriva dove l’ente locale era carente, qualificandosi nell’accoglienza spesso dei “casi limite”, quali situazioni di devianza o minori per cui non era previsto il rientro in famiglia.

Negli anni ’80 si diffusero i servizi sociali e sanitari di territorio, i quali attuarono interventi che favorirono la permanenza del minore in famiglia o iniziarono a sperimentare l’affidamento famigliare, riservando la comunità residenziale per particolari situazioni.

In questi anni inoltre, diminuirono le iniziative dirette da parte dell’ente locale, il quale “utilizzava sempre più la convenzione con strutture gestite da cooperative, IPAB (Istituzioni Pubbliche Assistenza e Beneficenza), volontariato e privato sociale”364.

In questa situazione lo sviluppo e il diffondersi di strutture per minori avvenne senza un quadro di riferimento organico, diffondendosi secondo una varietà di modelli.

360 G. Bortolotti, Interventi comunitari, domiciliari e di accoglienza familiare dagli anni ’60 agli anni ’90, in “Servizi Sociali”, anno

XXV, n. 1, 1998, Fondazione E. Zancan, Padova, p. 10.

361 C. Girelli, M. Achille, op. cit., p. 33.

362 CENTRO NAZIONALE DI DOCUMENTAZIONE ED ANALISI DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA, op. cit., p.

229.

363 G. Bortolotti , op. cit., p. 10. 364 Ibidem.

Nel 1984, a Torino, vi fu il primo convegno nazionale sul ruolo della comunità alloggio, “Quattro mura di umanità”, organizzato dalla Regione Piemonte, in cui venne analizzata la situazione di queste realtà. I principali orientamenti individuati furono:la riconferma della deistituzionalizzazione; la necessità di creare servizi aperti che sperimentassero iniziative a favore della permanenza del minore in famiglia; l’importanza della prevenzione; la consapevolezza che la comunità alloggio è una risposta temporanea, favorendo altre sistemazioni per il minore: come il rientro in famiglia o l’affidamento famigliare; il superamento della contrapposizione pubblico/privato; la centralità della formazione dell’educatore e il sostegno nel suo lavoro quotidiano attraverso la supervisione e il lavoro di équipe.

Di particolare interesse fu l’approvazione della legge n. 184 del 4 maggio 1983 (modificata parzialmente dalla legge 12 marzo 2001 n. 149) che disciplina per la prima volta l’affidamento familiare e l’affidamento ad una comunità di tipo familiare (art. 2). Il ricorso al ricovero in istituto di assistenza, viene previsto solo per i casi in cui i precedenti tipi di affidamento non siano possibili. Nella legge viene riconosciuto il fatto che l’affidamento familiare non può essere una risposta generalizzabile per tutti:

“può esistere uno scarto fra l’immagine del minore e il bambino reale soprattutto quando il divario del minore e quello dei genitori affidatari è molto ampio e diventa difficile per loro accettare un mondo di valori di cui il minore è portatore[…] l’affido etero-familiare diventa più facile nei nuclei in cui gli adulti non hanno caratteristiche tipiche di «genitori di famiglia» e non tendono ad assumersi in esclusiva la gestione del minore e ad accettarlo nella misura in cui si adegua ai loro stili di vita ed alle loro regole di relazione. In essi sembra […] più appropriato l’inserimento in una comunità di tipo famigliare, perché più accettabile dal minore e dai suoi genitori e perché è presumibile che la comunità anche data la sua struttura, si dimostri più accettante nei suoi confronti”365.

Le comunità per minori rappresentano quindi una delle tante risposte possibili nell’ambito delle strutture per i minori che si collocano nel sistema locale dei servizi.

Nella relazione finale del convegno «Comunità di tipo famigliare e integrazione nel territorio: forme di un progetto educativo» tenutosi a Firenze nel 1988, patrocinato dalla Giunta Regionale Toscana, furono definite alcune caratteristiche delle comunità di tipo familiare, termine adottato dopo la legge n. 184/83. Le comunità a dimensione familiare si configurano come una risorsa a servizio della comunità locale, poiché accolgono minori provenienti dal territorio in cui si trova; esse nascono in base ai bisogni dei minori con problemi che non possono essere risolti con l’affido familiare e in base ad un progetto che sia concordato fra gruppo gestore e servizi sociali territoriali (collaborazione pubblico-privato sociale). I criteri per cui una comunità di tipo familiare attivi un processo educativo prevedono di non allontanare il soggetto dal territorio in cui vive; di mantenere i rapporti con l’ambiente sociale; di accoglierlo in una struttura «casa». L’organizzazione del tempo deve strutturarsi in base al rapporto soggetto-mondo e non da esigenze istituzionali, al fine di garantire un rapporto diretto tra il soggetto e adulti capaci di costruire una storia comune per diventare partner significativi, di curarli, sostenerli, rassicurarli, giocare, divertirsi insieme e sostenere anche una loro eventuale regressione evolutiva. Per realizzare tutto questo, la comunità mantiene piccole dimensioni, all’interno della quale la responsabilità della vita del gruppo, dopo la definizione del progetto educativo, è degli educatori.

Da questi punti è evidente il cambiamento di prospettiva attuato nella realizzazione delle comunità rispetto ai tradizionali istituti con le caratteristiche precedentemente descritte; vi è infatti una volontà di apertura verso il mondo esterno e il principio fondamentale da cui si parte sono i bisogni e le esigenze del minore, sottolineando il ruolo degli educatori come figura di riferimento.

Gli anni ’90 sono caratterizzati da varie iniziative a favore della popolazione minorile, ma soprattutto si diffonde “la consapevolezza della necessità di un «lavoro di rete», in cui è importante che ogni soggetto, istituzionale o meno, concepisca la propria azione come «parte» di un sistema, da riconoscere come esistente e da contribuire a costruire, con lo scopo di promuovere una comunità sociale accogliente”366.

Si è verificato in effetti, in questi anni un incremento delle politiche per l’infanzia e l’adolescenza a livello nazionale, teso a ricercare i necessari rapporti tra i livelli regionali e locali, al fine di promuovere una crescita del sistema dei servizi che superi le diversità presenti tra le diverse zone del Paese.

Outline

Documenti correlati